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              Film. Il posto più vicino fuori dal mondodi Carlo Violo
 
 Il dibattito sulle forme di comunicazione e sul linguaggio non è 
              cosa d’oggi. Già Pitagora affermava che il linguaggio umano 
              possiede tre dimensioni: la semplice parola, quella geroglifica e 
              quella simbolica, cioè il verbo che esprime, quello che nasconde, 
              quello che significa. Il film “La destinazione” di Piero Sanna 
              (produzione I.C. SIRE in collaborazione con Rai Cinema) è un film 
              che si colloca nella dimensione dei molteplici significati e non a 
              caso la sua cifra stilistica è soprattutto iconografica. Sono 
              presenti peraltro nel film numerosi elementi geroglifici, come 
              sintesi simbolica di ciò che, nascosto dalla semplice descrizione 
              naturale o da eventi e situazioni innominabili, affiora in 
              sensazioni e sentimenti che muovono a immediata commozione. Del 
              resto come cavare un significato universale da un territorio così 
              particolare come la Barbagia senza connettersi, in maniera quasi 
              documentaristica, al suo spirito più profondo, nascosto, che è 
              asprezza, silenzio, note addolorate di natura ostile?
 
 E’ in questa profondità che ritroviamo significati in cui tutti ci 
              riconosciamo, in cui, proprio come nella scuola Pitagorica, 
              comprendiamo il senso della parola “iniziazione”. E’ infatti una 
              vera iniziazione al dramma della vita l’avventura di Emilio, 
              semplice ragazzo riminese che, finito il corso di carabiniere, 
              viene destinato all’entroterra sardo, luoghi che per lui, fino a 
              quel momento, erano associati a limpide estati da turista. Il caso 
              di assassinio da abigeato di cui dovrà occuparsi Emilio, insieme 
              ai colleghi del posto, è la porta iniziatica d’ingresso nel mondo 
              dell’omertà; della lotta per la sopravvivenza in una natura 
              impietosa che si esprime col suono dei sussurri; della morte che 
              diviene, senza soluzione di continuità con le cadenze della vita 
              quotidiana, rito arcaico; dell’ostilità o della diffidenza verso i 
              rappresentanti di un ‘ordine’ che viene dal continente; dei 
              rapporti sociali retti da regole in cui neanche l’amore innocente 
              e ingenuo dell’adolescente Giacomina per il ‘forestiero’ in divisa 
              può avere spazio.
 
 La scuola di Ermanno Olmi, che Sanna ha frequentato, insieme al 
              suo essere carabiniere e sardo, hanno permesso a questa opera di 
              connettersi direttamente, in presa diretta, in tutti i sensi, con 
              un lembo significativo del tessuto drammatico dell’uomo: la gente 
              vera della Barbagia vera. Se non fosse per il colore, peraltro 
              all’altezza dei paesaggi, l’evocazione più immediata sarebbe 
              quella di Banditi a Orgosolo, che De Seta girò nel ’61 allo stesso 
              modo, con attori non professionisti che semplicemente recitavano 
              il loro essere pastori. Qui l’impegno è più grande perché anche i 
              collaboratori sono gente del posto, perché c’è tutta una 
              popolazione, ci sono giovani e vecchi, maschi e femmine, civili e 
              militari, bambini già selezionati dall’abitudine al silenzio e, 
              soprattutto, una durata originale di ben 4 ore e 35 minuti che è 
              stato ridotta a 124 minuti per evidenti ragioni commerciali. E’ 
              stata sacrificata la storia parallela di Costantino che, sardo e 
              compagno di corso di Emilio, viene destinato al Trentino.
 
 Va bene così. Il film è già saturo di simboli e di dramma e forse 
              avremmo fatto fatica ad aderire, in un’unica proiezione, ad altri 
              volti, ad altre tonalità di silenzio montano, a diversi 
              orientamenti goniometrici verso l’unicità dell’anima umana. Forse 
              ulteriori semplificazioni, specialmente nelle scene iniziali del 
              corso nella scuola per carabinieri, avrebbero giovato 
              ulteriormente alla centralità del messaggio e alla poesia 
              complessiva dell’opera. Ma la bravura degli interpreti, tutti 
              all’altezza della situazione, con picchi di eccellenza, 
              l’immersione totale successiva nell’ambiente barbaricino, rende 
              ampio merito all’identità del film e al coraggio professionale 
              occorso per realizzarlo. Non è possibile citare tutti gli 
              interpreti e non è il caso di dilungarsi sulla trama che è 
              semplice, dai dialoghi che sono spesso stilizzati in un dialetto 
              stretto. Così per non fare torto agli adulti e per connettersi 
              agli spazi poetici più intensi ci si limiterà ai due bambini 
              principali che hanno saputo prestare la loro maschera infantile 
              alla maieutica silenziosa del film: Efisio, il bambino testimone 
              dell’assassinio del padre (Salvatore Mele), e la sorella 
              (Christiane Gregu). Entrambi riescono a domare con la sola 
              espressione l’interpretazione di un dramma selvaggio più grande di 
              loro. I due colleghi Emilio e Costantino si ritroveranno 
              brevemente al termine della loro avventura contemplando con animo 
              nuovo il paesaggio magico e inquietante della Barbagia, che 
              Costantino definisce “il posto più vicino fuori dal mondo”. 
              Potrebbe essere la definizione del cuore umano costretto spesso a 
              vivere lontano da ciò che gli sarebbe cosmologicamente più 
              appropriato. Ecco, in questo epigramma c’è la ragione più profonda 
              della sinèddoche dei due bambini quali emblema del film, da cui, 
              come nella vita, osservano in silenzio, da profondità ancestrali e 
              universali, il mondo tragico dei grandi che sanno sarà il loro.
 
              
              6 giugno 2003 |