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              Cinema. Lotta di classe nell'Appennino 
              abruzzesedi Carlo Roma
 
 Una piccola fabbrica, un paese abruzzese di poche anime 
              abbarbicato sui monti, storie umane spezzate, disperazione e 
              lotta. Ma anche desiderio di riscatto, volontà inesausta di 
              reagire, di fare fronte comune, di combattere fino alle estreme 
              conseguenze. Ecco come si presenta, agli occhi dell’ignaro 
              passante, lo scenario terribile che precede la catastrofe: un 
              drappello di cinquecento dipendenti rischia di perdere il sudato 
              posto di lavoro inghiottito dai tagli determinati dalle fredde 
              leggi del mercato. Lo spettro del licenziamento di massa si 
              aggira, dunque, indisturbato. Al triste smarrimento iniziale, e 
              all’incapacità di comprendere le ragioni di una decisione che 
              taglia le speranze dell’intera comunità, fa seguito lo spirito di 
              coesione della classe operaia. La dirigenza aziendale, insensibile 
              alle richieste avanzate, intanto procede spedita nel piano di 
              ammodernamento e ristrutturazione degli stabilimenti. Si tratta di 
              una spietata multinazionale americana nei cui piani non rientrano 
              più progetti di espansione in Europa. I vertici del sindacato 
              nazionale sembrano latitare o, per meglio dire, si avvertono 
              soltanto in lontananza. Dove sono finiti? Che ruolo giocano, di 
              fatto, nella trattativa?
 
 In realtà tutto è affidato alle capacità degli operai, lasciati 
              stranamente in perfetta solitudine, ed in balia di un sindaco poco 
              affidabile. Un sindaco che si candida a perorare la causa dei suoi 
              concittadini fino in America più che altro per mostrare alla 
              moglie i grattacieli d’Oltreoceano. Fra liti fin troppo accese, 
              incomprensioni e deludenti risposte, gli uomini della fabbrica si 
              incatenano, avviano iniziative per sovvenzionare la lotta, danno 
              vita a proteste eclatanti senza che i loro referenti diretti 
              intervengano con prese di posizione efficaci. Raggiungono, ancora 
              una volta senza il sostegno evidente del sindacato, il Parlamento 
              di Bruxelles ma non sono in grado compiere passi in avanti. Sono 
              tre gli operai che, come paladini indomiti, si agitano, bussano ad 
              ogni porta, si mobilitano mettono in rilievo i pericoli per la 
              salute causati dall’esposizione ai vapori e alle sostanze tossiche 
              che respirano nello stabilimento. I risultati che ottengono, però, 
              sono davvero limitati.
 
 Il film di Riccardo Milani “Il posto dell’anima”, interpretato da 
              Michele Placido, nel ruolo del rappresentante sindacale, e dal 
              rabbioso Silvio Orlando alterna registri diversi. Ai toni lievi si 
              sovrappongono quelli in cui la violenza del dialogo e delle 
              situazioni regna sovrana nelle scene. La sorte dei licenziati, di 
              certo, non è rosea. Ma la scelta della rappresentazione delle 
              emozioni forti attraverso la violenza sembra essere, anche per 
              Milani come per molti altri registi italiani, la soluzione più 
              semplice ed immediata. E’ mai possibile immaginare una via più 
              ricercata e profonda tramite la quale far passare la misura del 
              dolore e della sofferenza? La pellicola, poi, parla a tutte le 
              organizzazioni sindacali che sostengono di difendere i diritti dei 
              più deboli mentre consolidano, nei salotti romani, i loro 
              inalienabili diritti e le loro rendite di potere.
 
 20 giugno 2003
 
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