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              Cinema. La rinascita del neorealismo 
              all’italianadi Carlo Violo
 
 Isola è il nome del complesso sistema di reti a labirinto con cui 
              tradizionalmente si catturano i tonni. Isola delle Egadi è 
              Favignana, dove la mattanza è ancora tradizione. Isola è la 
              Sicilia, a cui Favignana appartiene. Un’isola è anche il carcere 
              di massima sicurezza che fa parte di quel lembo di terra, così 
              come i suoi detenuti che, confinati anche dal mare, possono 
              svolgere attività di lavoro come normali abitanti. Ma isola di 
              vita e di umanità è la Terra tutta che ci ospita, dove avvengono 
              le trasformazioni alchemiche di tutta l’esistenza. Così il titolo 
              dell’opera prima di Costanza Quatriglio, “L’Isola” appunto, si 
              presta già a molteplici simbologie che la visione del film non fa 
              che arricchire di suoni e icone. Nuovi autori, che sanno 
              maneggiare la macchina da presa con grande perizia, traendo dalle 
              ambientazioni e dai personaggi se non il massimo dello spettacolo 
              certamente una delle possibili profondità. Ma la cosa che più 
              affascina è constatare ogni volta che assistiamo ad un’opera 
              nazionale dai toni semi documentaristici come questa, quanto 
              l’Italia intera sia un fantastico set cinematografico. Niente di 
              nuovo, certo, se paragonato alla felice stagione del neorealismo 
              che tra l’immediato dopoguerra e la metà degli anni ’50 ebbe in 
              Italia la sua massima espressione. Altri tempi e altre stagioni: 
              tempi in cui geni della cinepresa come Rossellini, De Sica, 
              Zavattini, costretti a fare i conti con la parziale distruzione 
              degli studi e con la penuria di fondi, facevano nascere il film di 
              strada, con attori non professionisti e con una forte presa 
              diretta col paesaggio delle città e delle campagne. Persino il 
              dialetto, per la prima volta, assurgeva al rango di linguaggio 
              adatto al cinema, rinnovandone la storica e poetica dignità.
 
 Quanto a risorse economiche anche oggi la situazione non è rosea 
              e, per fortuna, i giovani autori hanno fatto tesoro 
              dell’insegnamento dei maestri, ricordandosi che per fare un buon 
              film e toccare le corde della poesia non servono necessariamente 
              milioni di dollari. E’ il caso de “L’Isola” che del neorealismo, a 
              parte il colore, ha tutti gli ingredienti, compresa l’intuizione 
              poetica che il linguaggio dei gesti e rituali quotidiani, quando 
              rappresentati per ciò che sono, va a toccare direttamente le corde 
              profonde della nostalgia. Ancora una volta i maggiori protagonisti 
              sono i bambini, che ci ricordano prepotentemente Sciuscià e Ladri 
              di Biciclette. Guardando le gesta semplici di Teresa, la piccola 
              protagonista che ci sorride fin dalla locandina, scopriamo quante 
              Shirley Temple abbiamo in giro per le nostre contrade, con la 
              genialità grandiosa di essere attrici di se stesse senza necessità 
              di istruttori di ballo e di canto. Osservando il viso affilato, 
              bellissimo e serio di Turi, suo fratello adolescente, ci 
              ricordiamo di quanta intelligenza emotiva c’è nel tessuto 
              giovanile dei nostri piccoli paesi. Insomma, questi nostri giovani 
              autori si trovano in una situazione fortunata: hanno alle spalle 
              una grande scuola che, facendo di necessità geniale virtù, seppe 
              portare il cinema tra la vita reale.
 
 Ma c’è un aspetto ancora più affascinante. Entrare nel segreto dei 
              meccanismi di una sola cellula significa conoscere i segreti della 
              vita intera che le leggi cosmiche replicano su piani concentrici. 
              Così l’effetto di questo ultimo realismo, come del caposcuola, è 
              che il luogo per quanto angusto, il dialetto per quanto 
              circoscritto, le minuzie quotidiane per quanto minimali, cessano 
              di essere funzionali alla documentazione locale ma diventano 
              linguaggio dell’umanità intera. Così la storia esile e senza 
              intreccio, più che documentario diviene motivo di emozione 
              archetipica, come nei sogni nitidi dell’alba. Ne L’Isola ci sono 
              ingredienti aggiuntivi rispetto alla scarna tradizione 
              neorealista, che allargano l’orizzonte simbolico, così da 
              agevolare le emozioni di tutto il pubblico possibile, come 
              testimonia la partecipazione alla Quinzaine des réalisateurs di 
              Cannes, dove questo è stato l’unico film italiano selezionato.
 
 Ci sono musiche, di Paolo Fresu, che ricordano timbri andalusi; 
              c’è una sensualità che spazia dall’innocenza adolescente al sangue 
              dei tonni e dei parti bovini; ci sono i canti dei tonnaroti che 
              hanno lo stesso ritmo solidale di quelli che risuonano sugli 
              altopiani tibetani nell’ora del lavoro nei campi. E poi visioni di 
              spazi di reti giallastre come i girasoli di Van Gogh; il volto di 
              Turi, così dolcemente arabesco; la nonna vedova, i cui gesti sono 
              così enormemente universali da rievocare l’età ancestrale del 
              fuoco; il vecchio dalla lunga barba, dall’apparente follia e 
              dall’arte fina di scultore selvaggio che potrebbe essere un 
              maestro Sufi dei racconti d’Oriente. Lui sa, infatti, che i tonni 
              pregano sbattendo la coda. Lui solo può ridonare, con un gesto 
              dirompente da giovane rivoluzionario, la vista del mare alla 
              nonna, che era stata soppressa da un muro abusivo eretto davanti 
              alla casa. E c’è, soprattutto, l’attesa della grande iniziazione 
              alla mattanza dei tonni a cui Turi finalmente potrà partecipare. 
              La vita per lui e la sorellina di conseguenza cambierà, come è 
              inevitabile che avvenga seguendo i ritmi della natura, ed è 
              bellissimo che avvenga attraverso una iniziazione così vicina ad 
              un rito di vita e di morte. La dimenticanza di cui l’umanità 
              soffre nelle sue artificiose città, nell’ipocrisia continuata dei 
              modelli di successo conformisti, rispetto ai ritmi reali, è tutta 
              qui, in questa sacra rappresentazione essenziale in cui infanzia, 
              gioco, lavoro, riti ancestrali diventano lo spazio-tempo del 
              progressivo e armonioso riconoscimento di sé. I pescatori non sono 
              certo filosofi o intellettuali ma di questa dimenticanza sono 
              testimoni.
 
              
              20 giugno 2003 |