Arte e politica. La Biennale di Venezia ieri e oggi
di Beatrice Buscaroli

Centodieci anni fa gli organizzatori della prima Biennale di Venezia che aprì nel 1895, decisero di escludere dall’invito gli “artisti veneziani, veneti, o italiani dimoranti a Venezia” che avrebbero dovuto “assoggettarsi al verdetto della Giuria d’accettazione” per venire ammessi. Passa un secolo: il curatore della Biennale del 2003 Francesco Bonami dichiara di preferire la parola Painting alla parola Pittura: “Il titolo di questo saggio è Pittura o Painting? Con un punto interrogativo. L’interrogativo riflette la mia indecisione come curatore, che pensa sia in italiano che in inglese, sul fatto di intitolare una delle mostre presenti nella Biennale Pittura o Painting. Ma questo interrogativo si riferisce anche all’attuale condizione della pittura. Pittura suona come una parola morta, mentre Painting sembra aperta, come se fosse ancora in movimento, in tensione, come un’insidia per la nostra epoca contemporanea caratterizzata dalla realtà virtuale e dalla tecnologia inarrestabile. Pittura suona come un rifiuto del presente, il rifiuto del presente che Rauschenberg sfidò nel 1964”.

I primi “si astenevano dal rivolgere speciale invito agli artisti veneziani” per timore di sembrare provinciali: ora si rinuncia addirittura all’intera dizione Pittura, “parola morta”, per aggrapparsi alla sua traduzione inglese, fatto che in sé non smuove tutto quel carico di significati che il curatore intende, al di fuori del suo personale e autobiografico accostamento linguistico. Bandito il veneziano; bandito l’italiano. Democrazia, apertura, mondo globalizzato, nuovi linguaggi e nuovi paesi: la prima volta del Kenya e dell’Iran, una invadente e rumorosissima Corea, con l’Italia sparsa e sonnacchiosa che sopravvive frammentata e sfrattata dal suo Padiglione. La cinquantesima Biennale di Venezia è aperta: “Sogni e conflitti: la dittatura dello spettatore” è il titolo della mostra curata personalmente dal direttore Francesco Bonami, come la sezione “Clandestini” e la mostra di pittura del Museo Correr “Pittura/Painting: da Rauschenberg a Murakami, 1964-2003”, undici sono i co-curatori, 550 gli artisti partecipanti, sei milioni e trecentomila euro i costi. Per la prima volta la Biennale diventa mostra itinerante e si trasferisce a 5 milioni di euro “al Sud” nell’estate del 2004, “per promuovere e diffondere l’arte contemporanea nel Mezzogiorno”.

E' stata un’edizione attesa, questa, perché è la Biennale del governo Berlusconi, perché Vittorio Sgarbi ha contestato e osteggiato la nomina del direttore, decisione del presidente Franco Bernabè e poi si è dimesso. Da parte sua, Francesco Bonami, quarantottenne fiorentino che vive e lavora negli Stati Uniti, non ha dubbi sulle ragioni che hanno portato Bernabè a decidere il suo nome: “da bravo manager Bernabè aveva comunque capito una cosa: che esistevano nel mondo persone informate, capaci di fornirgli una serie di informazioni necessarie e sufficienti per scegliere con criterio. E così ha fatto”. Le recensioni sui giornali, prima immediata risposta di quel popolo dei seimila “accreditati” che assediano gli uffici stampa nei primi giorni della mostra, sono piuttosto monocordi: la Biennale “di sinistra” del governo Berlusconi non suscita simpatie particolari né da una parte né dall’altra. Pochissimi approvano, con tante riserve e distinzioni; la maggior parte contesta l’impostazione, le scelte e le esclusioni: i toni sono piuttosto monocordi né l’appartenenza politica del curatore (“di sinistra?” “No, liberale” risponde lui al Corriere della Sera) serve a risparmiargli il dissenso della critica allineata.

Ironia e sarcasmo affiancano le descrizioni dei padiglioni e dei performer come in ogni manifestazione d’arte contemporanea: tra incredulità e noia le parole dei critici s’affannano a tener dietro alla descrizione delle tecnologie teoricamente nuove o ritenute tali e a folle ammonticchiate di objets trouvés la cui comprensione, in questo caso, si affida ai testi di didascalie che, affiancate alle installazioni spaziali, a quelle sonore, alle proiezioni video, alla pletora di foto, gesti, moniti, avvisi, gommepiume e palloni, fosse comuni e malati di Parkinson, vecchie cinesi e ventilatori rotti, servono sul piatto estratti di banalità seriosa e scolastica, che traducono gli shock visivi in aggiustate linee di facile estetica. Così l’installazione di Damien Hirst con 18.000 pillole ordinatamente sistemate su scaffali metallici significa che “l’armadio viene utilizzato come cornice o contenitore, al fine di eliminare espressioni emotive o sentimentali”; il lavoro di Cartsen Hoeller alla stessa mostra invita il pubblico a chiedersi “come e perché prendiamo certe decisioni. Perché giriamo a destra anziché a sinistra”.

Poca la pittura, affiorante qua e là, completamente negletta oppure protetta come specie estinta, cui è riservata una mostra storica al Museo Correr, contestata anche questa dai critici - per gli autori, per i singoli pezzi, per le provenienze - che in realtà avrebbe un valore più documentario che provocatorio dovendo testimoniare quali sono stati gli artisti più importanti della pittura a Venezia negli ultimi quarant’anni. Natalia Aspesi su La Repubblica, come Duccio Trombadori su il Giornale contestano la mostra con toni che non si direbbero provenire da due testate di opposta impostazione ideologica. Anzi. “Deve esser proprio perché oggi tutto può essere arte, che tanti giovani destinati o alla disoccupazione o al precariato, diventano artisti e tante signore allestiscono mostre spensierate nei loro giardini”, commenta la Aspesi ne La Repubblica del 13 giugno 2003. “[…] Che siano italiani o lituani, inglesi o iraniani, dimostrano che l’arte non ha confini, contrariamente alla politica e che con la guerra e con la pace, gli artisti fan tutti le stesse cose: video e film, di cui sono spesso protagonisti, o sculture che sono accumulo di cose uscite da negozi di giocattoli o di oggetti da regalo: e poi, con fotografie possibilmente fatte da altri e tutte tagliuzzate, e persino quadri, quelli vecchi dipinti coi colori, come pareva dovessero farli solo i piccini delle elementari”.

Duccio Trombadori su il Giornale dice la stessa cosa, con più violenza (da uomo che, proveniendone, conosce la cultura di sinistra): “Chiaro come il sole che questa è una Biennale di sinistra per mentalità, intenzioni, proposte e argomenti. Chiaro come il sole che una simile mostra di sinistra è destinata fortunatamente a smentire chi - da noi come in Europa - ce la mette tutta per accreditare l’immagine di un centro-destra “imbavagliatore del dissenso” nel campo della cultura […]. Chiaro infine che questa Biennale è ancora più “di sinistra” delle precedenti perché guarda al futuro ammiccando quasi alla visione global-marxista di Toni Negri e un po’ a quella predicatoria e terzomondista di Vittorio Agnoletto. Ne risulta a conti fatti un’ennesima opportunità mancata […]” (13 giugno 2003).

S’ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno squillo: stessi toni, stesso dissenso. “L’asfissiante ammucchiata della Biennale di Venezia”, aggiunge Franco Fanelli su il Giornale dell’Arte (luglio-agosto 2003), “è il risultato di una contraddizione in termini, cioè dell’avanguardia venduta come fenomeno di massa […]. La spettacolarizzazione del contemporaneo esplode in uno spaventoso “rave party” di oltre 500 artisti: il festival buonista, no-global, new age e politically-correct, dove, sotto le bandiere dell’arte come esperienza collettiva, si dà al visitatore l’illusione di poter saltare sul palco da un momento all’altro perché, gli fanno credere, l’arte non è così difficile, tutti la possono fare e non importa capire ma partecipare”.

Fruibilità di massa dell’arte contemporanea

“Diciamolo con sincerità: il pubblico è stanco delle solite esposizioni farraginose […] è indispensabile che al senso di sbalordimento, di fatica, talvolta di tedio, prodotto dalla moltitudine affastellata delle opere, sottentri la convinta ammirazione che desta in noi una scelta parca e sagace di lavori squisitamente originali”, questi furono gli intenti della prima Biennale. Passa un secolo, il curatore della Biennale 2003 Francesco Bonami dichiara: “Se da un lato sono un convinto sostenitore del fatto che l’arte contemporanea debba essere resa accessibile a un crescente numero di persone, dall’altro credo che lo spettatore stia cercando, chiedendo e meritando un’esperienza qualitativa, non banalizzata da un atteggiamento populista: entrare in una mostra è una scelta, non un obbligo”. Affermazione curiosa soprattutto per un’edizione intitolata “La dittatura dello spettatore”: questa Biennale ha uno spettatore privilegiato, despota e colto: in suo onore tutto è concesso: si fa appello alla sua preparazione e lo si blandisce: ehi, viaggiatore, dicevano le lapidi medievali ai pellegrini eletti, quelli che, semplicemente, potevano leggere.

Lo spettatore di Bonami “esce dalla nebulosa dell’audience e ritrova la sua posizione individuale davanti all’opera, un’esperienza singola e non di gruppo. Lo spettatore che ritorna a essere dittatore del proprio tempo e delle proprie esperienze”.
Alcune affermazioni sbalordiscono: non si capisce quale possa essere l’esperienza di gruppo davanti all’opera, in che cosa possa differenziarsi dall’esperienza singola, e la “dittatura del proprio tempo” suona ben più banale (tempo libero?) di quanto non fosse l’idea di una dittatura ideologica o estetica.

La penalizzazione dell’arte italiana

Il divorzio tra arte e spettatore si è consumato da tempo. Arnold Hauser lo faceva risalire addirittura all’Impressionismo: il movimento che, rinunciando per la prima volta a categorie secolari quali la prospettiva, l’uso del contorno, l’illusione della terza dimensione - rinnegati in favore di una bidimensionalità scorrevole e luminosa, ideologicamente molto più semplice di un paesaggio di Claude Poussin, per esempio - la durata e l’affermazione sostituite dalla temporalità e dalla soggettività, immise nella storia dell’arte il principio della personale interpretazione dell’artista, attento all’attimo, al suo stesso stato d’animo, a quell’inesprimibile quid che sottrae a poco a poco l’arte da qualsiasi idea di verità universale.

“Non c’era forse mai stata scissione così profonda tra gli ambienti ufficiali e gli artisti della nuova generazione, né mai era stato così forte nel pubblico il senso di esser gabbato”, spiegò Hauser nel capitolo IV della sua Storia sociale dell’arte. Da allora è difficile identificare un rapporto tra arte e spettatore che non ricorra alla sociologia alla percezione o all’economia. Per questo, al di là dell’attrazione delle parole del titolo, viene da chiedersi che cosa significhi in realtà l’espressione “dittatura dello spettatore” in una rassegna che non si differenzia particolarmente da quelle che l’hanno preceduta, che non riserva al visitatore trattamenti speciali se non l’uniformità delle didascalie rassicuranti e l’imperio di titoli cubitali che dovrebbero indirizzare la comprensione.

Tutte le Biennali hanno suscitato scandali e critiche: l’Mmm, Ohh, Ahh che la scozzese Lucy McKenzie (“pittrice in senso classico”, come la definisce Daniel Birnbaum) ha l’onore di immortalare in caratteri celtici sulla grande parete bianca d’ingresso a “Ritardi e Rivoluzioni” del Padiglione Italia ha decenni di vita, nobili origini, echi persistenti. Numero di artisti partecipanti e loro nazionalità, regolamenti, acquisti, premi istituiti e soppressi, direzioni, presidenze, statuti: tutto nella storia della Biennale fu polemica, prima durante e dopo la mostra, dal mongoloide di Gino De Dominicis del 1972 all’edizione del centenario di Jean Clair, dall’apparizione dell’informale a quella di Internet.

E' oggetto di polemica, ancora, il numero degli artisti italiani presenti in mostra che variano dallo 0,45 per cento della prima edizione a una media compresa tra 0,30 e 0,40 degli anni Dieci e Venti, all’aumento negli anni del fascismo (ma la percentuale di italiani è quasi uguale nel 1942, nel 1948 e nel 1950), fino al calo costante dei nostri tempi: nel 1997 - come spiega Marilena Vecco elaborando i dati numerici della Biennale di Venezia e confrontandoli con quelli di Documenta di Kassel - si è registrato il valore più basso. La Biennale di Bonami rivela una percentuale dello 0,58.

Gli italiani. Ma perché gli inglesi al padiglione inglese, i francesi a quello francese, e tutte le nazioni insieme al Padiglione Italia? Forse a ulteriore conferma che la penalizzazione dei nostri artisti, già mortificati dalla politica dei musei d’arte contemporanea di tutto il mondo, per ragioni di diversa natura, debba venir ribadita dall’eccentrica decisione di estrometterci da soli dal nostro Padiglione? Atteggiamento discriminatorio, ingiustificato: deve continuare in futuro? Forse perché Bonami non è riuscito, come si era prefissato, a ottenerne uno per il nuovo Stato palestinese? Che cosa c’è di malcelato, sotterraneo, ipocritamente silenzioso nell’accettazione di uno sfratto ridicolo, immotivato, criticamente e storicamente non sostenibile? La paura di parole come “nazionalista”, “conservatore”, o peggio “fascista”?

L’Italia lascia sempre una traccia precisa. Arte Povera e Transavanguardia sono il segno di una originalità artistica indubbia, primigenia, scaturigine di molteplici percorsi critico-espositivi.
Quando Marcel Duchamp provoca il mondo con la sua Ruota di bicicletta, nel 1913, Umberto Boccioni ha già passato gli Stati d’animo e realizza capolavori di pittura e di scultura, Picasso entra nel cubismo sintetico, Auguste Renoir svetta alla IX Biennale del 1910 con i trentasette lavori che ammaliarono Giorgio Morandi, Constantin Brancusi concepisce con Danaide l’idea di una forma assoluta. Altro che morte dell’arte. In realtà l’idea di Bonami ha mezzo secolo di vita, da quel 1957 in cui Duchamp dichiarò che “sono gli spettatori che fanno il quadro”, affermazione lapidaria e lampante, più efficace della presunta e incomprensibile dittatura dello spettatore. E ancora, l’anno dopo, lo stesso artista ribadì la superiorità dell’immaginazione artistica sostenendo che “mai nulla di importante è stato fatto da un gruppo”: straordinario atteggiamento contraddittorio che assegna all’artista e all’unicità dell’opera una supremazia assoluta, travestita da pacata possibilità di confronto con lo spettatore.

La lettura della storia dell’“esposizione internazionale arte” nata sull’ispirazione di analoghe avventure straniere, in particolare quella di Monaco di Baviera dalla quale la Biennale mutuò addirittura alcune voci del regolamento, rivela infatti che tutto è già successo ben prima d’arrivare al fatidico appuntamento dell’edizione numero 50. Già la prima edizione del 1895 vide lo scandalo di un dipinto considerato blasfemo che spinse il patriarca di Venezia a vietare ai suoi fedeli la visita alla mostra: il Supremo convegno di Giacomo Grosso inscenava in chiesa un compianto di femmine nude sulla bara di Don Giovanni. Ciò successe di nuovo nel 1964 - come si vede oggi all’entrata del Museo Correr dove i giornali dell’epoca sono ampiamente riprodotti e ingranditi - quando l’Arte Pop giunse in massa dall’America e il clero fu invitato a non visitare la mostra.

Fu questo un anno chiave nella storia dell’istituzione: con lo sbarco degli americani la Biennale partecipò in prima linea alla promozione - e non solo alla diffusione - della Popular Art comparsa negli Stati Uniti da qualche anno: nel 1964 si traversava l’Oceano ancora con timidezza in cerca di una consacrazione nell’Olimpo dell’arte contemporanea che era ancora in Europa, in Italia. Oggi sembra incredibile. Il premio dato a Rauschenberg alla Biennale dopo la sua personale a Roma nel 1959 e la presenza di Jasper Johns alla Biennale del 1958 avvallò la nuova ricerca d’oltreoceano.
Negli anni Ottanta alcuni operai rimisero a nuovo un’opera di Marcel Duchamp che sembrava (ed era) una porta vecchia, 11, rue Larrey, Paris: l’impossibilità di distinguere un’opera d’arte da un pezzo di legno crea uno scandalo e una causa che diventa un gesto d’ironia duchampiana: 133 milioni costa l’involontaria messa a punto dell’opera del primo disobbediente dell’arte. Il più ciarliero.

Lo stesso principio favorisce oggi l’aggiunta di ombrelli agli stiliti dell’installazione del tedesco Christoph Schlingensief, Church of Fear, alti sui tronchi d’albero al limitare dei Giardini delle Vergini. 7 stiliti “disoccupati e senza casa”, “nondenominational persons of various nationalities and religious backgrounds” che per 48 minuti al giorno, a turno per una settimana affrontano la loro “seduta sul palo”. Gli ombrelli parasole sono stati semplicemente aggiunti perché era troppo caldo: ma non turbano in nulla l’identità dell’opera: tutto è arte, niente è arte.

“In un certo senso” dichiara a Flash Art Carlos Basualdo (giugno-luglio 2003), uno dei curatori che affiancano Bonami nell’ideazione di questa Biennale, “la possibilità di fare una differenza tra il mondo dell’arte e quello sociale - e di identificarli come campi differenti - è estremamente ideologica […]. Ma se osservi come le persone usano l’estetica per esprimersi, capisci che l’arte è sempre parte integrante della vita”. Stupiscono le dichiarazioni dei curatori; come le didascalie in mostra e i saggi in catalogo. Il rapporto arte-vita è rovesciato e l’arte diventa un possibile inciampo, un casuale accidente, un caso fortuito, presente - chissà - dentro la vita.

Lo stesso Basualdo, autore della sezione “La struttura della crisi”, ha dovuto ammettere che “alcuni dei lavori in mostra non sono neanche arte, o comunque non sono stati realizzati con questo scopo”. Puro Duchamp eletto a sistema, storicizzato e assurto a ideologo costante di ottant’anni di oggetti gettati nell’avello di un museo inventato e teoricamente irriverente: ottant’anni dopo la ruota di bicicletta, dopo lo scolabottiglie, dopo l’orinatorio gli azzeramenti d’avanguardia degli inizi del secolo scorso dettano ancora legge: “Non era altro che humour. Niente altro che humour” proclamava Marcel Duchamp. Eppure... “La ruota non ha nessuno scopo se non quello di liberarmi dall’aspetto convenzionale dell’opera d’arte […]. Volevo farla finita col concetto di creazione di opere d’arte”. In un panorama dove l’arte non si distingue più dalle cose - più che dalla vita stessa - dove gli stessi critici hanno il dubbio se la vernice sulle panchine il giorno d’inaugurazione è manutenzione ordinaria o installazione è il vessillo di Duchamp che svetta alto. “Ho finalmente dipinto una Bmw, in nero con fiori rosa. Forse ci troveranno un significato recondito. Me lo auguro”, aggiungerebbe Andy Warhol.

Il paradosso dell’arte contemporanea è che l’azzeramento voluto e appoggiato dalle avanguardie d’inizio secolo ha rovesciato tutti i canoni annullando la differenza tra vita e arte ma ha perduto la sola cosa che gl’inventori non perdettero mai: l’ironia. L’ironia è un principio che rovescia, un’aggiunta che corrode, un taglio che consente tutto, in fondo. E invece servirebbe l’ironia a spiegare per quale motivo l’artista giapponese cui Bonami affida l’arduo compito di significare il crollo di “tutte le regole della storia e di tutta la morale dell’uomo”, alla fine del percorso storico della pittura al Correr sia lo stesso Takashi Murakami che disegna borse per la Louis Vuitton. Nipote di Keith Haring, il graffitista americano che inventò sui muri il suo bamboccio a quattro zampe e poi lo trasferì sulle magliette di tutto il mondo, il contestatore che partì dalla protesta e dai disegni in strada per lanciare l’idea del prodotto d’artista da vendere nei book-shop dei musei, aprendo addirittura un suo negozio a New York, il Pop Shop.

L’uno e l’altro, sola ironia involontaria, assediati dalla rivincita della strada e della truffa: dalle false magliette e dalle false borsette vendute sui tappeti. Un cerchio che si chiude a dispetto dei protagonisti, rivincita veramente popular di una merce evocata come tale, usata a sua volta e tornata pura merce, falsa e massificata. Destra e sinistra non c’entrano più. L’arte è questa, Bonami o non Bonami e fa sorridere il vecchio moralismo veteromarxista di chi conteggia ancora quanti sono gli artisti della Biennale presenti nei cataloghi delle aste d’arte contemporanea della fine di giugno, dopo Venezia e prima della mostra mercato di Basilea. “Tutti in conclusione sono chiamati a essere integrati nel circuito”, scrive Jean Baudrillard nelle feroci e infine addolorate interviste raccolte sotto il titolo de Il complotto dell’arte che annulla le differenze tra destra e sinistra e sostiene trattarsi “piuttosto di integralismo”.

“L’arte (moderna) ha potuto essere compresa nella parte maledetta quando era una sorta di alternativa drammatica alla realtà, quando traduceva l’irruzione dell’irrealtà nella realtà. Ma che cosa può ancora significare l’arte in un mondo già iperrealista, cool, trasparente, pubblicitario? Che cosa può significare il porno in un mondo già pornografico? […] L’arte che mette in atto la propria sparizione e quella del suo oggetto era ancora operazione di una certa grandezza. Ma l’arte che si limita a riciclarsi indefinitamente facendo man bassa della realtà? Ora, la maggior parte dell’arte contemporanea si dedica proprio a questo: ad appropriarsi della banalità, della mediocrità, eleggendoli a valore e ideologia […]. Tutta la duplicità dell’arte contemporanea sta proprio in questo: rivendicare la nullità, l’insignificanza, il nonsenso, mirare alla nullità essendo già nulla. Mirare al nonsenso essendo già insignificante”.

Il principio di un’arte abbassata e ridotta a non distinguersi più dal resto del mondo è sentito come il dramma dell’arte contemporanea, esatto contrario di quel che vien fuori dalle opinioni dei curatori della Biennale, come si è visto, che eleggono a opere d’arte “lavori che non erano neppure nati con questo scopo”. “Da tempo la vita ha abbandonato il corpo dilaniato dell’arte”, scrive Jean Clair nel 1983, storico dell’arte e già organizzatore della Biennale del 1993, nelle sue Considerazioni sullo stato delle Belle Arti che nelle conseguenze coincidono perfettamente con le opinioni del sociologo francese.

Che l’arte sia diventata una Babele di linguaggi inversi, puro manierismo che prolunga all’infinito le negazioni d’inizio secolo - ironia, dissimulazione, pornografia, contaminazioni, denuncia sociale - non è una novità, né un’opinione di “destra” o di “sinistra”. Né si può continuare a dire che la pittura e la scultura sono di destra e i linguaggi nuovi sono di sinistra: Burri bruciava la plastica ed era stato fascista, Guttuso onorava la realtà ed era comunista; le fondazioni private di origine industriale che hanno musei o premi adoperano per prime i curatori politicamente allineati al sistema generale (Re Rebaudengo, Trussardi, Furla). Forse la borghesia industriale del nuovo secolo deve indossare i panni della rinuncia per riciclarsi come onesta committente e negare, almeno nei suoi musei, le intenzioni capitalistiche e consumistiche per abbracciare una forma d’arte che dichiara di voler combattere in primo luogo il capitalismo, la borghesia, la tradizione, la realtà, la bellezza. È sicuramente di sinistra l’azzeramento mortificante, l’apparente uguaglianza tra le forme, i linguaggi e i significati, che annulla la differenza tra la cosa e l’arte, e fa chiedere allo spettatore se quegli oggetti appoggiati siano opera d’arte o negligenza di addetti alle pulizie in un “circuito” che azzera le distinzioni, la conoscenza, la tradizione e considera la cultura una torre d’avorio da espugnare.

Eppure è proprio Francesco Bonami che introduce l’attesa di uno spettatore colto, libero e cosciente delle sue scelte…
Contraddizioni continue, una sull’altra, una dentro l’altra, contraddizioni tra artistico e sociale, tra forme e contenuti, dichiarazioni e realizzazioni: la scozzese McKenzie, autrice del graffito celtico col grido di stupore, non è affatto una “pittrice in senso classico”, come, tra i pochissimi presenti in Biennale lo resta invece Roman Opalka nel suo sublime soliloquio alla ricerca del bianco e di un altro azzeramento, concettuale e pittorico, fatto di pure luci e puri valori tonali.

Una mostra all’insegna della globalizzazione

1895: la Biennale di Venezia è dedicata all’anniversario delle Nozze d’argento dei sovrani d’Italia Umberto e Margherita di Savoia, il cui arrivo è atteso e previsto. Gran trovata pubblicitaria, come i biglietti ridotti per le ferrovie. Passa un secolo. 2003: La Regina di Norvegia calpesta i contestatissimi vialetti dei Giardini e inaugura la Biennale in un drappello di guardie e curatori. Dove la nostalgia e l’attrazione per il re di turno, nel sovvertimento totale di tutti i valori all’insegna della democrazia, della globalizzazione, degli annullamenti programmatici, resta un gesto inspiegabile; non so se di destra o di sinistra, certamente davvero duchampiano.

16 gennaio 2004

(da Ideazione 5-2003, settembre-ottobre)
 
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