Arte e politica. La Biennale di Venezia ieri e oggi
di Beatrice Buscaroli
Centodieci anni fa gli organizzatori della prima Biennale di
Venezia che aprì nel 1895, decisero di escludere dall’invito gli
“artisti veneziani, veneti, o italiani dimoranti a Venezia” che
avrebbero dovuto “assoggettarsi al verdetto della Giuria
d’accettazione” per venire ammessi. Passa un secolo: il curatore
della Biennale del 2003 Francesco Bonami dichiara di preferire
la parola Painting alla parola Pittura: “Il titolo di questo
saggio è Pittura o Painting? Con un punto interrogativo.
L’interrogativo riflette la mia indecisione come curatore, che
pensa sia in italiano che in inglese, sul fatto di intitolare
una delle mostre presenti nella Biennale Pittura o Painting. Ma
questo interrogativo si riferisce anche all’attuale condizione
della pittura. Pittura suona come una parola morta, mentre
Painting sembra aperta, come se fosse ancora in movimento, in
tensione, come un’insidia per la nostra epoca contemporanea
caratterizzata dalla realtà virtuale e dalla tecnologia
inarrestabile. Pittura suona come un rifiuto del presente, il
rifiuto del presente che Rauschenberg sfidò nel 1964”.
I primi “si astenevano dal rivolgere speciale invito agli
artisti veneziani” per timore di sembrare provinciali: ora si
rinuncia addirittura all’intera dizione Pittura, “parola morta”,
per aggrapparsi alla sua traduzione inglese, fatto che in sé non
smuove tutto quel carico di significati che il curatore intende,
al di fuori del suo personale e autobiografico accostamento
linguistico. Bandito il veneziano; bandito l’italiano.
Democrazia, apertura, mondo globalizzato, nuovi linguaggi e
nuovi paesi: la prima volta del Kenya e dell’Iran, una invadente
e rumorosissima Corea, con l’Italia sparsa e sonnacchiosa che
sopravvive frammentata e sfrattata dal suo Padiglione. La
cinquantesima Biennale di Venezia è aperta: “Sogni e conflitti:
la dittatura dello spettatore” è il titolo della mostra curata
personalmente dal direttore Francesco Bonami, come la sezione
“Clandestini” e la mostra di pittura del Museo Correr
“Pittura/Painting: da Rauschenberg a Murakami, 1964-2003”,
undici sono i co-curatori, 550 gli artisti partecipanti, sei
milioni e trecentomila euro i costi. Per la prima volta la
Biennale diventa mostra itinerante e si trasferisce a 5 milioni
di euro “al Sud” nell’estate del 2004, “per promuovere e
diffondere l’arte contemporanea nel Mezzogiorno”.
E' stata un’edizione attesa, questa, perché è la Biennale del
governo Berlusconi, perché Vittorio Sgarbi ha contestato e
osteggiato la nomina del direttore, decisione del presidente
Franco Bernabè e poi si è dimesso. Da parte sua, Francesco
Bonami, quarantottenne fiorentino che vive e lavora negli Stati
Uniti, non ha dubbi sulle ragioni che hanno portato Bernabè a
decidere il suo nome: “da bravo manager Bernabè aveva comunque
capito una cosa: che esistevano nel mondo persone informate,
capaci di fornirgli una serie di informazioni necessarie e
sufficienti per scegliere con criterio. E così ha fatto”. Le
recensioni sui giornali, prima immediata risposta di quel popolo
dei seimila “accreditati” che assediano gli uffici stampa nei
primi giorni della mostra, sono piuttosto monocordi: la Biennale
“di sinistra” del governo Berlusconi non suscita simpatie
particolari né da una parte né dall’altra. Pochissimi approvano,
con tante riserve e distinzioni; la maggior parte contesta
l’impostazione, le scelte e le esclusioni: i toni sono piuttosto
monocordi né l’appartenenza politica del curatore (“di
sinistra?” “No, liberale” risponde lui al Corriere della Sera)
serve a risparmiargli il dissenso della critica allineata.
Ironia e sarcasmo affiancano le descrizioni dei padiglioni e dei
performer come in ogni manifestazione d’arte contemporanea: tra
incredulità e noia le parole dei critici s’affannano a tener
dietro alla descrizione delle tecnologie teoricamente nuove o
ritenute tali e a folle ammonticchiate di objets trouvés la cui
comprensione, in questo caso, si affida ai testi di didascalie
che, affiancate alle installazioni spaziali, a quelle sonore,
alle proiezioni video, alla pletora di foto, gesti, moniti,
avvisi, gommepiume e palloni, fosse comuni e malati di
Parkinson, vecchie cinesi e ventilatori rotti, servono sul
piatto estratti di banalità seriosa e scolastica, che traducono
gli shock visivi in aggiustate linee di facile estetica. Così
l’installazione di Damien Hirst con 18.000 pillole ordinatamente
sistemate su scaffali metallici significa che “l’armadio viene
utilizzato come cornice o contenitore, al fine di eliminare
espressioni emotive o sentimentali”; il lavoro di Cartsen
Hoeller alla stessa mostra invita il pubblico a chiedersi “come
e perché prendiamo certe decisioni. Perché giriamo a destra
anziché a sinistra”.
Poca la pittura, affiorante qua e là, completamente negletta
oppure protetta come specie estinta, cui è riservata una mostra
storica al Museo Correr, contestata anche questa dai critici -
per gli autori, per i singoli pezzi, per le provenienze - che in
realtà avrebbe un valore più documentario che provocatorio
dovendo testimoniare quali sono stati gli artisti più importanti
della pittura a Venezia negli ultimi quarant’anni. Natalia
Aspesi su La Repubblica, come Duccio Trombadori su il Giornale
contestano la mostra con toni che non si direbbero provenire da
due testate di opposta impostazione ideologica. Anzi. “Deve
esser proprio perché oggi tutto può essere arte, che tanti
giovani destinati o alla disoccupazione o al precariato,
diventano artisti e tante signore allestiscono mostre
spensierate nei loro giardini”, commenta la Aspesi ne La
Repubblica del 13 giugno 2003. “[…] Che siano italiani o
lituani, inglesi o iraniani, dimostrano che l’arte non ha
confini, contrariamente alla politica e che con la guerra e con
la pace, gli artisti fan tutti le stesse cose: video e film, di
cui sono spesso protagonisti, o sculture che sono accumulo di
cose uscite da negozi di giocattoli o di oggetti da regalo: e
poi, con fotografie possibilmente fatte da altri e tutte
tagliuzzate, e persino quadri, quelli vecchi dipinti coi colori,
come pareva dovessero farli solo i piccini delle elementari”.
Duccio Trombadori su il Giornale dice la stessa cosa, con più
violenza (da uomo che, proveniendone, conosce la cultura di
sinistra): “Chiaro come il sole che questa è una Biennale di
sinistra per mentalità, intenzioni, proposte e argomenti. Chiaro
come il sole che una simile mostra di sinistra è destinata
fortunatamente a smentire chi - da noi come in Europa - ce la
mette tutta per accreditare l’immagine di un centro-destra
“imbavagliatore del dissenso” nel campo della cultura […].
Chiaro infine che questa Biennale è ancora più “di sinistra”
delle precedenti perché guarda al futuro ammiccando quasi alla
visione global-marxista di Toni Negri e un po’ a quella
predicatoria e terzomondista di Vittorio Agnoletto. Ne risulta a
conti fatti un’ennesima opportunità mancata […]” (13 giugno
2003).
S’ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno
squillo: stessi toni, stesso dissenso. “L’asfissiante
ammucchiata della Biennale di Venezia”, aggiunge Franco Fanelli
su il Giornale dell’Arte (luglio-agosto 2003), “è il risultato
di una contraddizione in termini, cioè dell’avanguardia venduta
come fenomeno di massa […]. La spettacolarizzazione del
contemporaneo esplode in uno spaventoso “rave party” di oltre
500 artisti: il festival buonista, no-global, new age e
politically-correct, dove, sotto le bandiere dell’arte come
esperienza collettiva, si dà al visitatore l’illusione di poter
saltare sul palco da un momento all’altro perché, gli fanno
credere, l’arte non è così difficile, tutti la possono fare e
non importa capire ma partecipare”.
Fruibilità di massa dell’arte
contemporanea
“Diciamolo con sincerità: il pubblico è stanco delle solite
esposizioni farraginose […] è indispensabile che al senso di
sbalordimento, di fatica, talvolta di tedio, prodotto dalla
moltitudine affastellata delle opere, sottentri la convinta
ammirazione che desta in noi una scelta parca e sagace di lavori
squisitamente originali”, questi furono gli intenti della prima
Biennale. Passa un secolo, il curatore della Biennale 2003
Francesco Bonami dichiara: “Se da un lato sono un convinto
sostenitore del fatto che l’arte contemporanea debba essere resa
accessibile a un crescente numero di persone, dall’altro credo
che lo spettatore stia cercando, chiedendo e meritando
un’esperienza qualitativa, non banalizzata da un atteggiamento
populista: entrare in una mostra è una scelta, non un obbligo”.
Affermazione curiosa soprattutto per un’edizione intitolata “La
dittatura dello spettatore”: questa Biennale ha uno spettatore
privilegiato, despota e colto: in suo onore tutto è concesso: si
fa appello alla sua preparazione e lo si blandisce: ehi,
viaggiatore, dicevano le lapidi medievali ai pellegrini eletti,
quelli che, semplicemente, potevano leggere.
Lo spettatore di Bonami “esce dalla nebulosa dell’audience e
ritrova la sua posizione individuale davanti all’opera,
un’esperienza singola e non di gruppo. Lo spettatore che ritorna
a essere dittatore del proprio tempo e delle proprie
esperienze”.
Alcune affermazioni sbalordiscono: non si capisce quale possa
essere l’esperienza di gruppo davanti all’opera, in che cosa
possa differenziarsi dall’esperienza singola, e la “dittatura
del proprio tempo” suona ben più banale (tempo libero?) di
quanto non fosse l’idea di una dittatura ideologica o estetica.
La penalizzazione dell’arte italiana
Il divorzio tra arte e spettatore si è consumato da tempo.
Arnold Hauser lo faceva risalire addirittura all’Impressionismo:
il movimento che, rinunciando per la prima volta a categorie
secolari quali la prospettiva, l’uso del contorno, l’illusione
della terza dimensione - rinnegati in favore di una
bidimensionalità scorrevole e luminosa, ideologicamente molto
più semplice di un paesaggio di Claude Poussin, per esempio - la
durata e l’affermazione sostituite dalla temporalità e dalla
soggettività, immise nella storia dell’arte il principio della
personale interpretazione dell’artista, attento all’attimo, al
suo stesso stato d’animo, a quell’inesprimibile quid che sottrae
a poco a poco l’arte da qualsiasi idea di verità universale.
“Non c’era forse mai stata scissione così profonda tra gli
ambienti ufficiali e gli artisti della nuova generazione, né mai
era stato così forte nel pubblico il senso di esser gabbato”,
spiegò Hauser nel capitolo IV della sua Storia sociale
dell’arte. Da allora è difficile identificare un rapporto tra
arte e spettatore che non ricorra alla sociologia alla
percezione o all’economia. Per questo, al di là dell’attrazione
delle parole del titolo, viene da chiedersi che cosa significhi
in realtà l’espressione “dittatura dello spettatore” in una
rassegna che non si differenzia particolarmente da quelle che
l’hanno preceduta, che non riserva al visitatore trattamenti
speciali se non l’uniformità delle didascalie rassicuranti e
l’imperio di titoli cubitali che dovrebbero indirizzare la
comprensione.
Tutte le Biennali hanno suscitato scandali e critiche: l’Mmm,
Ohh, Ahh che la scozzese Lucy McKenzie (“pittrice in senso
classico”, come la definisce Daniel Birnbaum) ha l’onore di
immortalare in caratteri celtici sulla grande parete bianca
d’ingresso a “Ritardi e Rivoluzioni” del Padiglione Italia ha
decenni di vita, nobili origini, echi persistenti. Numero di
artisti partecipanti e loro nazionalità, regolamenti, acquisti,
premi istituiti e soppressi, direzioni, presidenze, statuti:
tutto nella storia della Biennale fu polemica, prima durante e
dopo la mostra, dal mongoloide di Gino De Dominicis del 1972
all’edizione del centenario di Jean Clair, dall’apparizione
dell’informale a quella di Internet.
E' oggetto di polemica, ancora, il numero degli artisti italiani
presenti in mostra che variano dallo 0,45 per cento della prima
edizione a una media compresa tra 0,30 e 0,40 degli anni Dieci e
Venti, all’aumento negli anni del fascismo (ma la percentuale di
italiani è quasi uguale nel 1942, nel 1948 e nel 1950), fino al
calo costante dei nostri tempi: nel 1997 - come spiega Marilena
Vecco elaborando i dati numerici della Biennale di Venezia e
confrontandoli con quelli di Documenta di Kassel - si è
registrato il valore più basso. La Biennale di Bonami rivela una
percentuale dello 0,58.
Gli italiani. Ma perché gli inglesi al padiglione inglese, i
francesi a quello francese, e tutte le nazioni insieme al
Padiglione Italia? Forse a ulteriore conferma che la
penalizzazione dei nostri artisti, già mortificati dalla
politica dei musei d’arte contemporanea di tutto il mondo, per
ragioni di diversa natura, debba venir ribadita dall’eccentrica
decisione di estrometterci da soli dal nostro Padiglione?
Atteggiamento discriminatorio, ingiustificato: deve continuare
in futuro? Forse perché Bonami non è riuscito, come si era
prefissato, a ottenerne uno per il nuovo Stato palestinese? Che
cosa c’è di malcelato, sotterraneo, ipocritamente silenzioso
nell’accettazione di uno sfratto ridicolo, immotivato,
criticamente e storicamente non sostenibile? La paura di parole
come “nazionalista”, “conservatore”, o peggio “fascista”?
L’Italia lascia sempre una traccia precisa. Arte Povera e
Transavanguardia sono il segno di una originalità artistica
indubbia, primigenia, scaturigine di molteplici percorsi
critico-espositivi.
Quando Marcel Duchamp provoca il mondo con la sua Ruota di
bicicletta, nel 1913, Umberto Boccioni ha già passato gli Stati
d’animo e realizza capolavori di pittura e di scultura, Picasso
entra nel cubismo sintetico, Auguste Renoir svetta alla IX
Biennale del 1910 con i trentasette lavori che ammaliarono
Giorgio Morandi, Constantin Brancusi concepisce con Danaide
l’idea di una forma assoluta. Altro che morte dell’arte. In
realtà l’idea di Bonami ha mezzo secolo di vita, da quel 1957 in
cui Duchamp dichiarò che “sono gli spettatori che fanno il
quadro”, affermazione lapidaria e lampante, più efficace della
presunta e incomprensibile dittatura dello spettatore. E ancora,
l’anno dopo, lo stesso artista ribadì la superiorità
dell’immaginazione artistica sostenendo che “mai nulla di
importante è stato fatto da un gruppo”: straordinario
atteggiamento contraddittorio che assegna all’artista e
all’unicità dell’opera una supremazia assoluta, travestita da
pacata possibilità di confronto con lo spettatore.
La lettura della storia dell’“esposizione internazionale arte”
nata sull’ispirazione di analoghe avventure straniere, in
particolare quella di Monaco di Baviera dalla quale la Biennale
mutuò addirittura alcune voci del regolamento, rivela infatti
che tutto è già successo ben prima d’arrivare al fatidico
appuntamento dell’edizione numero 50. Già la prima edizione del
1895 vide lo scandalo di un dipinto considerato blasfemo che
spinse il patriarca di Venezia a vietare ai suoi fedeli la
visita alla mostra: il Supremo convegno di Giacomo Grosso
inscenava in chiesa un compianto di femmine nude sulla bara di
Don Giovanni. Ciò successe di nuovo nel 1964 - come si vede oggi
all’entrata del Museo Correr dove i giornali dell’epoca sono
ampiamente riprodotti e ingranditi - quando l’Arte Pop giunse in
massa dall’America e il clero fu invitato a non visitare la
mostra.
Fu questo un anno chiave nella storia dell’istituzione: con lo
sbarco degli americani la Biennale partecipò in prima linea alla
promozione - e non solo alla diffusione - della Popular Art
comparsa negli Stati Uniti da qualche anno: nel 1964 si
traversava l’Oceano ancora con timidezza in cerca di una
consacrazione nell’Olimpo dell’arte contemporanea che era ancora
in Europa, in Italia. Oggi sembra incredibile. Il premio dato a
Rauschenberg alla Biennale dopo la sua personale a Roma nel 1959
e la presenza di Jasper Johns alla Biennale del 1958 avvallò la
nuova ricerca d’oltreoceano.
Negli anni Ottanta alcuni operai rimisero a nuovo un’opera di
Marcel Duchamp che sembrava (ed era) una porta vecchia, 11, rue
Larrey, Paris: l’impossibilità di distinguere un’opera d’arte da
un pezzo di legno crea uno scandalo e una causa che diventa un
gesto d’ironia duchampiana: 133 milioni costa l’involontaria
messa a punto dell’opera del primo disobbediente dell’arte. Il
più ciarliero.
Lo stesso principio favorisce oggi l’aggiunta di ombrelli agli
stiliti dell’installazione del tedesco Christoph Schlingensief,
Church of Fear, alti sui tronchi d’albero al limitare dei
Giardini delle Vergini. 7 stiliti “disoccupati e senza casa”,
“nondenominational persons of various nationalities and
religious backgrounds” che per 48 minuti al giorno, a turno per
una settimana affrontano la loro “seduta sul palo”. Gli ombrelli
parasole sono stati semplicemente aggiunti perché era troppo
caldo: ma non turbano in nulla l’identità dell’opera: tutto è
arte, niente è arte.
“In un certo senso” dichiara a Flash Art Carlos Basualdo
(giugno-luglio 2003), uno dei curatori che affiancano Bonami
nell’ideazione di questa Biennale, “la possibilità di fare una
differenza tra il mondo dell’arte e quello sociale - e di
identificarli come campi differenti - è estremamente ideologica
[…]. Ma se osservi come le persone usano l’estetica per
esprimersi, capisci che l’arte è sempre parte integrante della
vita”. Stupiscono le dichiarazioni dei curatori; come le
didascalie in mostra e i saggi in catalogo. Il rapporto
arte-vita è rovesciato e l’arte diventa un possibile inciampo,
un casuale accidente, un caso fortuito, presente - chissà -
dentro la vita.
Lo stesso Basualdo, autore della sezione “La struttura della
crisi”, ha dovuto ammettere che “alcuni dei lavori in mostra non
sono neanche arte, o comunque non sono stati realizzati con
questo scopo”. Puro Duchamp eletto a sistema, storicizzato e
assurto a ideologo costante di ottant’anni di oggetti gettati
nell’avello di un museo inventato e teoricamente irriverente:
ottant’anni dopo la ruota di bicicletta, dopo lo scolabottiglie,
dopo l’orinatorio gli azzeramenti d’avanguardia degli inizi del
secolo scorso dettano ancora legge: “Non era altro che humour.
Niente altro che humour” proclamava Marcel Duchamp. Eppure...
“La ruota non ha nessuno scopo se non quello di liberarmi
dall’aspetto convenzionale dell’opera d’arte […]. Volevo farla
finita col concetto di creazione di opere d’arte”. In un
panorama dove l’arte non si distingue più dalle cose - più che
dalla vita stessa - dove gli stessi critici hanno il dubbio se
la vernice sulle panchine il giorno d’inaugurazione è
manutenzione ordinaria o installazione è il vessillo di Duchamp
che svetta alto. “Ho finalmente dipinto una Bmw, in nero con
fiori rosa. Forse ci troveranno un significato recondito. Me lo
auguro”, aggiungerebbe Andy Warhol.
Il paradosso dell’arte contemporanea è che l’azzeramento voluto
e appoggiato dalle avanguardie d’inizio secolo ha rovesciato
tutti i canoni annullando la differenza tra vita e arte ma ha
perduto la sola cosa che gl’inventori non perdettero mai:
l’ironia. L’ironia è un principio che rovescia, un’aggiunta che
corrode, un taglio che consente tutto, in fondo. E invece
servirebbe l’ironia a spiegare per quale motivo l’artista
giapponese cui Bonami affida l’arduo compito di significare il
crollo di “tutte le regole della storia e di tutta la morale
dell’uomo”, alla fine del percorso storico della pittura al
Correr sia lo stesso Takashi Murakami che disegna borse per la
Louis Vuitton. Nipote di Keith Haring, il graffitista americano
che inventò sui muri il suo bamboccio a quattro zampe e poi lo
trasferì sulle magliette di tutto il mondo, il contestatore che
partì dalla protesta e dai disegni in strada per lanciare l’idea
del prodotto d’artista da vendere nei book-shop dei musei,
aprendo addirittura un suo negozio a New York, il Pop Shop.
L’uno e l’altro, sola ironia involontaria, assediati dalla
rivincita della strada e della truffa: dalle false magliette e
dalle false borsette vendute sui tappeti. Un cerchio che si
chiude a dispetto dei protagonisti, rivincita veramente popular
di una merce evocata come tale, usata a sua volta e tornata pura
merce, falsa e massificata. Destra e sinistra non c’entrano più.
L’arte è questa, Bonami o non Bonami e fa sorridere il vecchio
moralismo veteromarxista di chi conteggia ancora quanti sono gli
artisti della Biennale presenti nei cataloghi delle aste d’arte
contemporanea della fine di giugno, dopo Venezia e prima della
mostra mercato di Basilea. “Tutti in conclusione sono chiamati a
essere integrati nel circuito”, scrive Jean Baudrillard nelle
feroci e infine addolorate interviste raccolte sotto il titolo
de Il complotto dell’arte che annulla le differenze tra destra e
sinistra e sostiene trattarsi “piuttosto di integralismo”.
“L’arte (moderna) ha potuto essere compresa nella parte
maledetta quando era una sorta di alternativa drammatica alla
realtà, quando traduceva l’irruzione dell’irrealtà nella realtà.
Ma che cosa può ancora significare l’arte in un mondo già
iperrealista, cool, trasparente, pubblicitario? Che cosa può
significare il porno in un mondo già pornografico? […] L’arte
che mette in atto la propria sparizione e quella del suo oggetto
era ancora operazione di una certa grandezza. Ma l’arte che si
limita a riciclarsi indefinitamente facendo man bassa della
realtà? Ora, la maggior parte dell’arte contemporanea si dedica
proprio a questo: ad appropriarsi della banalità, della
mediocrità, eleggendoli a valore e ideologia […]. Tutta la
duplicità dell’arte contemporanea sta proprio in questo:
rivendicare la nullità, l’insignificanza, il nonsenso, mirare
alla nullità essendo già nulla. Mirare al nonsenso essendo già
insignificante”.
Il principio di un’arte abbassata e ridotta a non distinguersi
più dal resto del mondo è sentito come il dramma dell’arte
contemporanea, esatto contrario di quel che vien fuori dalle
opinioni dei curatori della Biennale, come si è visto, che
eleggono a opere d’arte “lavori che non erano neppure nati con
questo scopo”. “Da tempo la vita ha abbandonato il corpo
dilaniato dell’arte”, scrive Jean Clair nel 1983, storico
dell’arte e già organizzatore della Biennale del 1993, nelle sue
Considerazioni sullo stato delle Belle Arti che nelle
conseguenze coincidono perfettamente con le opinioni del
sociologo francese.
Che l’arte sia diventata una Babele di linguaggi inversi, puro
manierismo che prolunga all’infinito le negazioni d’inizio
secolo - ironia, dissimulazione, pornografia, contaminazioni,
denuncia sociale - non è una novità, né un’opinione di “destra”
o di “sinistra”. Né si può continuare a dire che la pittura e la
scultura sono di destra e i linguaggi nuovi sono di sinistra:
Burri bruciava la plastica ed era stato fascista, Guttuso
onorava la realtà ed era comunista; le fondazioni private di
origine industriale che hanno musei o premi adoperano per prime
i curatori politicamente allineati al sistema generale (Re
Rebaudengo, Trussardi, Furla). Forse la borghesia industriale
del nuovo secolo deve indossare i panni della rinuncia per
riciclarsi come onesta committente e negare, almeno nei suoi
musei, le intenzioni capitalistiche e consumistiche per
abbracciare una forma d’arte che dichiara di voler combattere in
primo luogo il capitalismo, la borghesia, la tradizione, la
realtà, la bellezza. È sicuramente di sinistra l’azzeramento
mortificante, l’apparente uguaglianza tra le forme, i linguaggi
e i significati, che annulla la differenza tra la cosa e l’arte,
e fa chiedere allo spettatore se quegli oggetti appoggiati siano
opera d’arte o negligenza di addetti alle pulizie in un
“circuito” che azzera le distinzioni, la conoscenza, la
tradizione e considera la cultura una torre d’avorio da
espugnare.
Eppure è proprio Francesco Bonami che introduce l’attesa di uno
spettatore colto, libero e cosciente delle sue scelte…
Contraddizioni continue, una sull’altra, una dentro l’altra,
contraddizioni tra artistico e sociale, tra forme e contenuti,
dichiarazioni e realizzazioni: la scozzese McKenzie, autrice del
graffito celtico col grido di stupore, non è affatto una
“pittrice in senso classico”, come, tra i pochissimi presenti in
Biennale lo resta invece Roman Opalka nel suo sublime soliloquio
alla ricerca del bianco e di un altro azzeramento, concettuale e
pittorico, fatto di pure luci e puri valori tonali.
Una mostra all’insegna della
globalizzazione
1895: la Biennale di Venezia è dedicata all’anniversario delle
Nozze d’argento dei sovrani d’Italia Umberto e Margherita di
Savoia, il cui arrivo è atteso e previsto. Gran trovata
pubblicitaria, come i biglietti ridotti per le ferrovie. Passa
un secolo. 2003: La Regina di Norvegia calpesta i
contestatissimi vialetti dei Giardini e inaugura la Biennale in
un drappello di guardie e curatori. Dove la nostalgia e
l’attrazione per il re di turno, nel sovvertimento totale di
tutti i valori all’insegna della democrazia, della
globalizzazione, degli annullamenti programmatici, resta un
gesto inspiegabile; non so se di destra o di sinistra,
certamente davvero duchampiano.
16 gennaio 2004
(da
Ideazione 5-2003, settembre-ottobre)
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