| Arte e politica. La Biennale di Venezia ieri e oggi di Beatrice Buscaroli
 
 Centodieci anni fa gli organizzatori della prima Biennale di 
				Venezia che aprì nel 1895, decisero di escludere dall’invito gli 
				“artisti veneziani, veneti, o italiani dimoranti a Venezia” che 
				avrebbero dovuto “assoggettarsi al verdetto della Giuria 
				d’accettazione” per venire ammessi. Passa un secolo: il curatore 
				della Biennale del 2003 Francesco Bonami dichiara di preferire 
				la parola Painting alla parola Pittura: “Il titolo di questo 
				saggio è Pittura o Painting? Con un punto interrogativo. 
				L’interrogativo riflette la mia indecisione come curatore, che 
				pensa sia in italiano che in inglese, sul fatto di intitolare 
				una delle mostre presenti nella Biennale Pittura o Painting. Ma 
				questo interrogativo si riferisce anche all’attuale condizione 
				della pittura. Pittura suona come una parola morta, mentre 
				Painting sembra aperta, come se fosse ancora in movimento, in 
				tensione, come un’insidia per la nostra epoca contemporanea 
				caratterizzata dalla realtà virtuale e dalla tecnologia 
				inarrestabile. Pittura suona come un rifiuto del presente, il 
				rifiuto del presente che Rauschenberg sfidò nel 1964”.
 
 I primi “si astenevano dal rivolgere speciale invito agli 
				artisti veneziani” per timore di sembrare provinciali: ora si 
				rinuncia addirittura all’intera dizione Pittura, “parola morta”, 
				per aggrapparsi alla sua traduzione inglese, fatto che in sé non 
				smuove tutto quel carico di significati che il curatore intende, 
				al di fuori del suo personale e autobiografico accostamento 
				linguistico. Bandito il veneziano; bandito l’italiano. 
				Democrazia, apertura, mondo globalizzato, nuovi linguaggi e 
				nuovi paesi: la prima volta del Kenya e dell’Iran, una invadente 
				e rumorosissima Corea, con l’Italia sparsa e sonnacchiosa che 
				sopravvive frammentata e sfrattata dal suo Padiglione. La 
				cinquantesima Biennale di Venezia è aperta: “Sogni e conflitti: 
				la dittatura dello spettatore” è il titolo della mostra curata 
				personalmente dal direttore Francesco Bonami, come la sezione 
				“Clandestini” e la mostra di pittura del Museo Correr 
				“Pittura/Painting: da Rauschenberg a Murakami, 1964-2003”, 
				undici sono i co-curatori, 550 gli artisti partecipanti, sei 
				milioni e trecentomila euro i costi. Per la prima volta la 
				Biennale diventa mostra itinerante e si trasferisce a 5 milioni 
				di euro “al Sud” nell’estate del 2004, “per promuovere e 
				diffondere l’arte contemporanea nel Mezzogiorno”.
 
 E' stata un’edizione attesa, questa, perché è la Biennale del 
				governo Berlusconi, perché Vittorio Sgarbi ha contestato e 
				osteggiato la nomina del direttore, decisione del presidente 
				Franco Bernabè e poi si è dimesso. Da parte sua, Francesco 
				Bonami, quarantottenne fiorentino che vive e lavora negli Stati 
				Uniti, non ha dubbi sulle ragioni che hanno portato Bernabè a 
				decidere il suo nome: “da bravo manager Bernabè aveva comunque 
				capito una cosa: che esistevano nel mondo persone informate, 
				capaci di fornirgli una serie di informazioni necessarie e 
				sufficienti per scegliere con criterio. E così ha fatto”. Le 
				recensioni sui giornali, prima immediata risposta di quel popolo 
				dei seimila “accreditati” che assediano gli uffici stampa nei 
				primi giorni della mostra, sono piuttosto monocordi: la Biennale 
				“di sinistra” del governo Berlusconi non suscita simpatie 
				particolari né da una parte né dall’altra. Pochissimi approvano, 
				con tante riserve e distinzioni; la maggior parte contesta 
				l’impostazione, le scelte e le esclusioni: i toni sono piuttosto 
				monocordi né l’appartenenza politica del curatore (“di 
				sinistra?” “No, liberale” risponde lui al Corriere della Sera) 
				serve a risparmiargli il dissenso della critica allineata.
 
 Ironia e sarcasmo affiancano le descrizioni dei padiglioni e dei 
				performer come in ogni manifestazione d’arte contemporanea: tra 
				incredulità e noia le parole dei critici s’affannano a tener 
				dietro alla descrizione delle tecnologie teoricamente nuove o 
				ritenute tali e a folle ammonticchiate di objets trouvés la cui 
				comprensione, in questo caso, si affida ai testi di didascalie 
				che, affiancate alle installazioni spaziali, a quelle sonore, 
				alle proiezioni video, alla pletora di foto, gesti, moniti, 
				avvisi, gommepiume e palloni, fosse comuni e malati di 
				Parkinson, vecchie cinesi e ventilatori rotti, servono sul 
				piatto estratti di banalità seriosa e scolastica, che traducono 
				gli shock visivi in aggiustate linee di facile estetica. Così 
				l’installazione di Damien Hirst con 18.000 pillole ordinatamente 
				sistemate su scaffali metallici significa che “l’armadio viene 
				utilizzato come cornice o contenitore, al fine di eliminare 
				espressioni emotive o sentimentali”; il lavoro di Cartsen 
				Hoeller alla stessa mostra invita il pubblico a chiedersi “come 
				e perché prendiamo certe decisioni. Perché giriamo a destra 
				anziché a sinistra”.
 
 Poca la pittura, affiorante qua e là, completamente negletta 
				oppure protetta come specie estinta, cui è riservata una mostra 
				storica al Museo Correr, contestata anche questa dai critici - 
				per gli autori, per i singoli pezzi, per le provenienze - che in 
				realtà avrebbe un valore più documentario che provocatorio 
				dovendo testimoniare quali sono stati gli artisti più importanti 
				della pittura a Venezia negli ultimi quarant’anni. Natalia 
				Aspesi su La Repubblica, come Duccio Trombadori su il Giornale 
				contestano la mostra con toni che non si direbbero provenire da 
				due testate di opposta impostazione ideologica. Anzi. “Deve 
				esser proprio perché oggi tutto può essere arte, che tanti 
				giovani destinati o alla disoccupazione o al precariato, 
				diventano artisti e tante signore allestiscono mostre 
				spensierate nei loro giardini”, commenta la Aspesi ne La 
				Repubblica del 13 giugno 2003. “[…] Che siano italiani o 
				lituani, inglesi o iraniani, dimostrano che l’arte non ha 
				confini, contrariamente alla politica e che con la guerra e con 
				la pace, gli artisti fan tutti le stesse cose: video e film, di 
				cui sono spesso protagonisti, o sculture che sono accumulo di 
				cose uscite da negozi di giocattoli o di oggetti da regalo: e 
				poi, con fotografie possibilmente fatte da altri e tutte 
				tagliuzzate, e persino quadri, quelli vecchi dipinti coi colori, 
				come pareva dovessero farli solo i piccini delle elementari”.
 
 Duccio Trombadori su il Giornale dice la stessa cosa, con più 
				violenza (da uomo che, proveniendone, conosce la cultura di 
				sinistra): “Chiaro come il sole che questa è una Biennale di 
				sinistra per mentalità, intenzioni, proposte e argomenti. Chiaro 
				come il sole che una simile mostra di sinistra è destinata 
				fortunatamente a smentire chi - da noi come in Europa - ce la 
				mette tutta per accreditare l’immagine di un centro-destra 
				“imbavagliatore del dissenso” nel campo della cultura […]. 
				Chiaro infine che questa Biennale è ancora più “di sinistra” 
				delle precedenti perché guarda al futuro ammiccando quasi alla 
				visione global-marxista di Toni Negri e un po’ a quella 
				predicatoria e terzomondista di Vittorio Agnoletto. Ne risulta a 
				conti fatti un’ennesima opportunità mancata […]” (13 giugno 
				2003).
 
 S’ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno 
				squillo: stessi toni, stesso dissenso. “L’asfissiante 
				ammucchiata della Biennale di Venezia”, aggiunge Franco Fanelli 
				su il Giornale dell’Arte (luglio-agosto 2003), “è il risultato 
				di una contraddizione in termini, cioè dell’avanguardia venduta 
				come fenomeno di massa […]. La spettacolarizzazione del 
				contemporaneo esplode in uno spaventoso “rave party” di oltre 
				500 artisti: il festival buonista, no-global, new age e 
				politically-correct, dove, sotto le bandiere dell’arte come 
				esperienza collettiva, si dà al visitatore l’illusione di poter 
				saltare sul palco da un momento all’altro perché, gli fanno 
				credere, l’arte non è così difficile, tutti la possono fare e 
				non importa capire ma partecipare”.
 
 Fruibilità di massa dell’arte 
				contemporanea
 
 “Diciamolo con sincerità: il pubblico è stanco delle solite 
				esposizioni farraginose […] è indispensabile che al senso di 
				sbalordimento, di fatica, talvolta di tedio, prodotto dalla 
				moltitudine affastellata delle opere, sottentri la convinta 
				ammirazione che desta in noi una scelta parca e sagace di lavori 
				squisitamente originali”, questi furono gli intenti della prima 
				Biennale. Passa un secolo, il curatore della Biennale 2003 
				Francesco Bonami dichiara: “Se da un lato sono un convinto 
				sostenitore del fatto che l’arte contemporanea debba essere resa 
				accessibile a un crescente numero di persone, dall’altro credo 
				che lo spettatore stia cercando, chiedendo e meritando 
				un’esperienza qualitativa, non banalizzata da un atteggiamento 
				populista: entrare in una mostra è una scelta, non un obbligo”. 
				Affermazione curiosa soprattutto per un’edizione intitolata “La 
				dittatura dello spettatore”: questa Biennale ha uno spettatore 
				privilegiato, despota e colto: in suo onore tutto è concesso: si 
				fa appello alla sua preparazione e lo si blandisce: ehi, 
				viaggiatore, dicevano le lapidi medievali ai pellegrini eletti, 
				quelli che, semplicemente, potevano leggere.
 
 Lo spettatore di Bonami “esce dalla nebulosa dell’audience e 
				ritrova la sua posizione individuale davanti all’opera, 
				un’esperienza singola e non di gruppo. Lo spettatore che ritorna 
				a essere dittatore del proprio tempo e delle proprie 
				esperienze”.
 Alcune affermazioni sbalordiscono: non si capisce quale possa 
				essere l’esperienza di gruppo davanti all’opera, in che cosa 
				possa differenziarsi dall’esperienza singola, e la “dittatura 
				del proprio tempo” suona ben più banale (tempo libero?) di 
				quanto non fosse l’idea di una dittatura ideologica o estetica.
 
 La penalizzazione dell’arte italiana
 
 Il divorzio tra arte e spettatore si è consumato da tempo. 
				Arnold Hauser lo faceva risalire addirittura all’Impressionismo: 
				il movimento che, rinunciando per la prima volta a categorie 
				secolari quali la prospettiva, l’uso del contorno, l’illusione 
				della terza dimensione - rinnegati in favore di una 
				bidimensionalità scorrevole e luminosa, ideologicamente molto 
				più semplice di un paesaggio di Claude Poussin, per esempio - la 
				durata e l’affermazione sostituite dalla temporalità e dalla 
				soggettività, immise nella storia dell’arte il principio della 
				personale interpretazione dell’artista, attento all’attimo, al 
				suo stesso stato d’animo, a quell’inesprimibile quid che sottrae 
				a poco a poco l’arte da qualsiasi idea di verità universale.
 
 “Non c’era forse mai stata scissione così profonda tra gli 
				ambienti ufficiali e gli artisti della nuova generazione, né mai 
				era stato così forte nel pubblico il senso di esser gabbato”, 
				spiegò Hauser nel capitolo IV della sua Storia sociale 
				dell’arte. Da allora è difficile identificare un rapporto tra 
				arte e spettatore che non ricorra alla sociologia alla 
				percezione o all’economia. Per questo, al di là dell’attrazione 
				delle parole del titolo, viene da chiedersi che cosa significhi 
				in realtà l’espressione “dittatura dello spettatore” in una 
				rassegna che non si differenzia particolarmente da quelle che 
				l’hanno preceduta, che non riserva al visitatore trattamenti 
				speciali se non l’uniformità delle didascalie rassicuranti e 
				l’imperio di titoli cubitali che dovrebbero indirizzare la 
				comprensione.
 
 Tutte le Biennali hanno suscitato scandali e critiche: l’Mmm, 
				Ohh, Ahh che la scozzese Lucy McKenzie (“pittrice in senso 
				classico”, come la definisce Daniel Birnbaum) ha l’onore di 
				immortalare in caratteri celtici sulla grande parete bianca 
				d’ingresso a “Ritardi e Rivoluzioni” del Padiglione Italia ha 
				decenni di vita, nobili origini, echi persistenti. Numero di 
				artisti partecipanti e loro nazionalità, regolamenti, acquisti, 
				premi istituiti e soppressi, direzioni, presidenze, statuti: 
				tutto nella storia della Biennale fu polemica, prima durante e 
				dopo la mostra, dal mongoloide di Gino De Dominicis del 1972 
				all’edizione del centenario di Jean Clair, dall’apparizione 
				dell’informale a quella di Internet.
 
 E' oggetto di polemica, ancora, il numero degli artisti italiani 
				presenti in mostra che variano dallo 0,45 per cento della prima 
				edizione a una media compresa tra 0,30 e 0,40 degli anni Dieci e 
				Venti, all’aumento negli anni del fascismo (ma la percentuale di 
				italiani è quasi uguale nel 1942, nel 1948 e nel 1950), fino al 
				calo costante dei nostri tempi: nel 1997 - come spiega Marilena 
				Vecco elaborando i dati numerici della Biennale di Venezia e 
				confrontandoli con quelli di Documenta di Kassel - si è 
				registrato il valore più basso. La Biennale di Bonami rivela una 
				percentuale dello 0,58.
 
 Gli italiani. Ma perché gli inglesi al padiglione inglese, i 
				francesi a quello francese, e tutte le nazioni insieme al 
				Padiglione Italia? Forse a ulteriore conferma che la 
				penalizzazione dei nostri artisti, già mortificati dalla 
				politica dei musei d’arte contemporanea di tutto il mondo, per 
				ragioni di diversa natura, debba venir ribadita dall’eccentrica 
				decisione di estrometterci da soli dal nostro Padiglione? 
				Atteggiamento discriminatorio, ingiustificato: deve continuare 
				in futuro? Forse perché Bonami non è riuscito, come si era 
				prefissato, a ottenerne uno per il nuovo Stato palestinese? Che 
				cosa c’è di malcelato, sotterraneo, ipocritamente silenzioso 
				nell’accettazione di uno sfratto ridicolo, immotivato, 
				criticamente e storicamente non sostenibile? La paura di parole 
				come “nazionalista”, “conservatore”, o peggio “fascista”?
 
 L’Italia lascia sempre una traccia precisa. Arte Povera e 
				Transavanguardia sono il segno di una originalità artistica 
				indubbia, primigenia, scaturigine di molteplici percorsi 
				critico-espositivi.
 Quando Marcel Duchamp provoca il mondo con la sua Ruota di 
				bicicletta, nel 1913, Umberto Boccioni ha già passato gli Stati 
				d’animo e realizza capolavori di pittura e di scultura, Picasso 
				entra nel cubismo sintetico, Auguste Renoir svetta alla IX 
				Biennale del 1910 con i trentasette lavori che ammaliarono 
				Giorgio Morandi, Constantin Brancusi concepisce con Danaide 
				l’idea di una forma assoluta. Altro che morte dell’arte. In 
				realtà l’idea di Bonami ha mezzo secolo di vita, da quel 1957 in 
				cui Duchamp dichiarò che “sono gli spettatori che fanno il 
				quadro”, affermazione lapidaria e lampante, più efficace della 
				presunta e incomprensibile dittatura dello spettatore. E ancora, 
				l’anno dopo, lo stesso artista ribadì la superiorità 
				dell’immaginazione artistica sostenendo che “mai nulla di 
				importante è stato fatto da un gruppo”: straordinario 
				atteggiamento contraddittorio che assegna all’artista e 
				all’unicità dell’opera una supremazia assoluta, travestita da 
				pacata possibilità di confronto con lo spettatore.
 
 La lettura della storia dell’“esposizione internazionale arte” 
				nata sull’ispirazione di analoghe avventure straniere, in 
				particolare quella di Monaco di Baviera dalla quale la Biennale 
				mutuò addirittura alcune voci del regolamento, rivela infatti 
				che tutto è già successo ben prima d’arrivare al fatidico 
				appuntamento dell’edizione numero 50. Già la prima edizione del 
				1895 vide lo scandalo di un dipinto considerato blasfemo che 
				spinse il patriarca di Venezia a vietare ai suoi fedeli la 
				visita alla mostra: il Supremo convegno di Giacomo Grosso 
				inscenava in chiesa un compianto di femmine nude sulla bara di 
				Don Giovanni. Ciò successe di nuovo nel 1964 - come si vede oggi 
				all’entrata del Museo Correr dove i giornali dell’epoca sono 
				ampiamente riprodotti e ingranditi - quando l’Arte Pop giunse in 
				massa dall’America e il clero fu invitato a non visitare la 
				mostra.
 
 Fu questo un anno chiave nella storia dell’istituzione: con lo 
				sbarco degli americani la Biennale partecipò in prima linea alla 
				promozione - e non solo alla diffusione - della Popular Art 
				comparsa negli Stati Uniti da qualche anno: nel 1964 si 
				traversava l’Oceano ancora con timidezza in cerca di una 
				consacrazione nell’Olimpo dell’arte contemporanea che era ancora 
				in Europa, in Italia. Oggi sembra incredibile. Il premio dato a 
				Rauschenberg alla Biennale dopo la sua personale a Roma nel 1959 
				e la presenza di Jasper Johns alla Biennale del 1958 avvallò la 
				nuova ricerca d’oltreoceano.
 Negli anni Ottanta alcuni operai rimisero a nuovo un’opera di 
				Marcel Duchamp che sembrava (ed era) una porta vecchia, 11, rue 
				Larrey, Paris: l’impossibilità di distinguere un’opera d’arte da 
				un pezzo di legno crea uno scandalo e una causa che diventa un 
				gesto d’ironia duchampiana: 133 milioni costa l’involontaria 
				messa a punto dell’opera del primo disobbediente dell’arte. Il 
				più ciarliero.
 
 Lo stesso principio favorisce oggi l’aggiunta di ombrelli agli 
				stiliti dell’installazione del tedesco Christoph Schlingensief, 
				Church of Fear, alti sui tronchi d’albero al limitare dei 
				Giardini delle Vergini. 7 stiliti “disoccupati e senza casa”, 
				“nondenominational persons of various nationalities and 
				religious backgrounds” che per 48 minuti al giorno, a turno per 
				una settimana affrontano la loro “seduta sul palo”. Gli ombrelli 
				parasole sono stati semplicemente aggiunti perché era troppo 
				caldo: ma non turbano in nulla l’identità dell’opera: tutto è 
				arte, niente è arte.
 
 “In un certo senso” dichiara a Flash Art Carlos Basualdo 
				(giugno-luglio 2003), uno dei curatori che affiancano Bonami 
				nell’ideazione di questa Biennale, “la possibilità di fare una 
				differenza tra il mondo dell’arte e quello sociale - e di 
				identificarli come campi differenti - è estremamente ideologica 
				[…]. Ma se osservi come le persone usano l’estetica per 
				esprimersi, capisci che l’arte è sempre parte integrante della 
				vita”. Stupiscono le dichiarazioni dei curatori; come le 
				didascalie in mostra e i saggi in catalogo. Il rapporto 
				arte-vita è rovesciato e l’arte diventa un possibile inciampo, 
				un casuale accidente, un caso fortuito, presente - chissà - 
				dentro la vita.
 
 Lo stesso Basualdo, autore della sezione “La struttura della 
				crisi”, ha dovuto ammettere che “alcuni dei lavori in mostra non 
				sono neanche arte, o comunque non sono stati realizzati con 
				questo scopo”. Puro Duchamp eletto a sistema, storicizzato e 
				assurto a ideologo costante di ottant’anni di oggetti gettati 
				nell’avello di un museo inventato e teoricamente irriverente: 
				ottant’anni dopo la ruota di bicicletta, dopo lo scolabottiglie, 
				dopo l’orinatorio gli azzeramenti d’avanguardia degli inizi del 
				secolo scorso dettano ancora legge: “Non era altro che humour. 
				Niente altro che humour” proclamava Marcel Duchamp. Eppure... 
				“La ruota non ha nessuno scopo se non quello di liberarmi 
				dall’aspetto convenzionale dell’opera d’arte […]. Volevo farla 
				finita col concetto di creazione di opere d’arte”. In un 
				panorama dove l’arte non si distingue più dalle cose - più che 
				dalla vita stessa - dove gli stessi critici hanno il dubbio se 
				la vernice sulle panchine il giorno d’inaugurazione è 
				manutenzione ordinaria o installazione è il vessillo di Duchamp 
				che svetta alto. “Ho finalmente dipinto una Bmw, in nero con 
				fiori rosa. Forse ci troveranno un significato recondito. Me lo 
				auguro”, aggiungerebbe Andy Warhol.
 
 Il paradosso dell’arte contemporanea è che l’azzeramento voluto 
				e appoggiato dalle avanguardie d’inizio secolo ha rovesciato 
				tutti i canoni annullando la differenza tra vita e arte ma ha 
				perduto la sola cosa che gl’inventori non perdettero mai: 
				l’ironia. L’ironia è un principio che rovescia, un’aggiunta che 
				corrode, un taglio che consente tutto, in fondo. E invece 
				servirebbe l’ironia a spiegare per quale motivo l’artista 
				giapponese cui Bonami affida l’arduo compito di significare il 
				crollo di “tutte le regole della storia e di tutta la morale 
				dell’uomo”, alla fine del percorso storico della pittura al 
				Correr sia lo stesso Takashi Murakami che disegna borse per la 
				Louis Vuitton. Nipote di Keith Haring, il graffitista americano 
				che inventò sui muri il suo bamboccio a quattro zampe e poi lo 
				trasferì sulle magliette di tutto il mondo, il contestatore che 
				partì dalla protesta e dai disegni in strada per lanciare l’idea 
				del prodotto d’artista da vendere nei book-shop dei musei, 
				aprendo addirittura un suo negozio a New York, il Pop Shop.
 
 L’uno e l’altro, sola ironia involontaria, assediati dalla 
				rivincita della strada e della truffa: dalle false magliette e 
				dalle false borsette vendute sui tappeti. Un cerchio che si 
				chiude a dispetto dei protagonisti, rivincita veramente popular 
				di una merce evocata come tale, usata a sua volta e tornata pura 
				merce, falsa e massificata. Destra e sinistra non c’entrano più. 
				L’arte è questa, Bonami o non Bonami e fa sorridere il vecchio 
				moralismo veteromarxista di chi conteggia ancora quanti sono gli 
				artisti della Biennale presenti nei cataloghi delle aste d’arte 
				contemporanea della fine di giugno, dopo Venezia e prima della 
				mostra mercato di Basilea. “Tutti in conclusione sono chiamati a 
				essere integrati nel circuito”, scrive Jean Baudrillard nelle 
				feroci e infine addolorate interviste raccolte sotto il titolo 
				de Il complotto dell’arte che annulla le differenze tra destra e 
				sinistra e sostiene trattarsi “piuttosto di integralismo”.
 
 “L’arte (moderna) ha potuto essere compresa nella parte 
				maledetta quando era una sorta di alternativa drammatica alla 
				realtà, quando traduceva l’irruzione dell’irrealtà nella realtà. 
				Ma che cosa può ancora significare l’arte in un mondo già 
				iperrealista, cool, trasparente, pubblicitario? Che cosa può 
				significare il porno in un mondo già pornografico? […] L’arte 
				che mette in atto la propria sparizione e quella del suo oggetto 
				era ancora operazione di una certa grandezza. Ma l’arte che si 
				limita a riciclarsi indefinitamente facendo man bassa della 
				realtà? Ora, la maggior parte dell’arte contemporanea si dedica 
				proprio a questo: ad appropriarsi della banalità, della 
				mediocrità, eleggendoli a valore e ideologia […]. Tutta la 
				duplicità dell’arte contemporanea sta proprio in questo: 
				rivendicare la nullità, l’insignificanza, il nonsenso, mirare 
				alla nullità essendo già nulla. Mirare al nonsenso essendo già 
				insignificante”.
 
 Il principio di un’arte abbassata e ridotta a non distinguersi 
				più dal resto del mondo è sentito come il dramma dell’arte 
				contemporanea, esatto contrario di quel che vien fuori dalle 
				opinioni dei curatori della Biennale, come si è visto, che 
				eleggono a opere d’arte “lavori che non erano neppure nati con 
				questo scopo”. “Da tempo la vita ha abbandonato il corpo 
				dilaniato dell’arte”, scrive Jean Clair nel 1983, storico 
				dell’arte e già organizzatore della Biennale del 1993, nelle sue 
				Considerazioni sullo stato delle Belle Arti che nelle 
				conseguenze coincidono perfettamente con le opinioni del 
				sociologo francese.
 
 Che l’arte sia diventata una Babele di linguaggi inversi, puro 
				manierismo che prolunga all’infinito le negazioni d’inizio 
				secolo - ironia, dissimulazione, pornografia, contaminazioni, 
				denuncia sociale - non è una novità, né un’opinione di “destra” 
				o di “sinistra”. Né si può continuare a dire che la pittura e la 
				scultura sono di destra e i linguaggi nuovi sono di sinistra: 
				Burri bruciava la plastica ed era stato fascista, Guttuso 
				onorava la realtà ed era comunista; le fondazioni private di 
				origine industriale che hanno musei o premi adoperano per prime 
				i curatori politicamente allineati al sistema generale (Re 
				Rebaudengo, Trussardi, Furla). Forse la borghesia industriale 
				del nuovo secolo deve indossare i panni della rinuncia per 
				riciclarsi come onesta committente e negare, almeno nei suoi 
				musei, le intenzioni capitalistiche e consumistiche per 
				abbracciare una forma d’arte che dichiara di voler combattere in 
				primo luogo il capitalismo, la borghesia, la tradizione, la 
				realtà, la bellezza. È sicuramente di sinistra l’azzeramento 
				mortificante, l’apparente uguaglianza tra le forme, i linguaggi 
				e i significati, che annulla la differenza tra la cosa e l’arte, 
				e fa chiedere allo spettatore se quegli oggetti appoggiati siano 
				opera d’arte o negligenza di addetti alle pulizie in un 
				“circuito” che azzera le distinzioni, la conoscenza, la 
				tradizione e considera la cultura una torre d’avorio da 
				espugnare.
 
 Eppure è proprio Francesco Bonami che introduce l’attesa di uno 
				spettatore colto, libero e cosciente delle sue scelte…
 Contraddizioni continue, una sull’altra, una dentro l’altra, 
				contraddizioni tra artistico e sociale, tra forme e contenuti, 
				dichiarazioni e realizzazioni: la scozzese McKenzie, autrice del 
				graffito celtico col grido di stupore, non è affatto una 
				“pittrice in senso classico”, come, tra i pochissimi presenti in 
				Biennale lo resta invece Roman Opalka nel suo sublime soliloquio 
				alla ricerca del bianco e di un altro azzeramento, concettuale e 
				pittorico, fatto di pure luci e puri valori tonali.
 
 Una mostra all’insegna della 
				globalizzazione
 
 1895: la Biennale di Venezia è dedicata all’anniversario delle 
				Nozze d’argento dei sovrani d’Italia Umberto e Margherita di 
				Savoia, il cui arrivo è atteso e previsto. Gran trovata 
				pubblicitaria, come i biglietti ridotti per le ferrovie. Passa 
				un secolo. 2003: La Regina di Norvegia calpesta i 
				contestatissimi vialetti dei Giardini e inaugura la Biennale in 
				un drappello di guardie e curatori. Dove la nostalgia e 
				l’attrazione per il re di turno, nel sovvertimento totale di 
				tutti i valori all’insegna della democrazia, della 
				globalizzazione, degli annullamenti programmatici, resta un 
				gesto inspiegabile; non so se di destra o di sinistra, 
				certamente davvero duchampiano.
 
 16 gennaio 2004
 
 (da 
				Ideazione 5-2003, settembre-ottobre)
 
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