| Arte e politica. 
				
              Triennale, privilegiare il pubblico intervista a Davide Rampello
 
 La Triennale nasce a Monza nel 1923 come Prima Biennale delle 
				arti decorative e dal 1933 ha sede a Milano nel Palazzo 
				dell’Arte: dodicimila metri quadrati tra spazi espositivi 
				permanenti e temporanei, aree di servizio e ristoro. Una 
				utilizzazione progettata dello spazio, per rendere gli edifici 
				della Triennale un punto d’incontro permanente della vita 
				culturale milanese. È proprio quest’idea della fruizione libera 
				e aperta dell’arte che ispira l’attività dell’Istituzione 
				lombarda sotto la guida del suo nuovo presidente, Davide 
				Rampello. A capo del Consiglio d’Amministrazione della 
				Triennale, Rampello vanta una carriera di lungo corso nel mondo 
				della comunicazione: oggi insegna Teorie e tecniche della 
				promozione d’immagine all’Università di Padova, ma fino a ieri 
				ha svolto la sua attività in questo settore specifico così come 
				nell’organizzazione di mostre e di eventi, ex regista televisivo 
				e manager Mediaset. Si definisce un umanista e guarda all’arte 
				come ad un modo di approcciare in senso alto la vita, di 
				considerare l’attività umana nel suo complesso e nella sua 
				varietà dandole un valore aggiunto. “Parlare di arte – afferma – 
				significa parlare dell’incontro tra l’opera dell’uomo e la sua 
				creatività. L’architettura è arte, il design è arte così come è 
				arte l’artigianato, lo sono le arti applicate ed ogni altra 
				attività umana. Ma il discorso è complesso”.
 
 Cerchiamo di semplificarlo, guardando all’Istituzione che 
				presiede...
 La Triennale milanese è famosa nel mondo per l’attenzione che 
				rivolge in particolare a due ambiti dell’attività umana: 
				l’architettura e il design. Ora, si può guardare ad entrambi in 
				maniera multiforme. Si può, ad esempio, ammirare un progetto di 
				architettura dal punto di vista scientifico o lo si può fare con 
				un approccio diverso, guardando all’aspetto creativo, alla sua 
				capacità di suscitare emozione, alle sue qualità artistiche. 
				Fino a qualche anno fa esisteva un senso comune del design che 
				si riferiva alla produzione di oggetti. Oggi il design non solo 
				è entrato nell’immaginario collettivo, ma è entrato a far parte 
				dello stile di vita diffuso. Parlare di design rimandava 
				immediatamente alla progettazione e creazione di oggetti 
				d’arredamento. E parlarne riferendosi esclusivamente all’arredo 
				è divenuto riduttivo. La gente si avvicina al design in misura 
				sempre più vasta, pensiamo anche solo ai telefoni cellulari, ai 
				computer o a quello che si chiama web designer.
 
 Si può parlare allora di una cultura del 
				design?
 
 Un concetto va chiarito, ed è quello di cultura: credo che 
				parlare di cultura significhi parlare dell’uomo in tutta la sua 
				complessità. E che la cultura sia la capacità dell’uomo di 
				possedere una visione alta della vita. Il design è la cultura 
				dell’ideazione e del progetto, poiché il designer è artista 
				nella sua fase ideativa e creativa, ma l’attività artistica non 
				si ferma lì. A fare arte oggi sono anche il momento della 
				produzione vera e propria, della comunicazione e alle strategie 
				di marketing che stanno intorno alla promozione dell’oggetto, 
				perfino della sua commercializzazione. E tutte queste fasi 
				dovrebbero essere vissute in maniera innovativa e quindi 
				creativa. La propensione creativa dev’essere di chi progetta ma 
				anche di chi comunica e di chi commercializza. Tutto questo 
				significa qualità. Questo è lo stile. Ed è lo stile che dovrebbe 
				rappresentare il Made in Italy nel mondo. Un modo di agire che 
				dovrebbe investire tutta la produzione italiana: 
				dall’agro-alimentare al design, per l’appunto, passando per la 
				moda e arrivando all’editoria, alla cinematografia, alla 
				produzione di impianti elettrici. Per fare solo qualche 
				paradossale esempio, ovviamente. Più di ogni altro paese siamo 
				testimoni di arti e mestieri che si incarnano nelle piccole 
				botteghe artigianali. Si tratta di Beni culturali viventi che 
				non possiamo far scomparire, che vanno rivalorizzati, anche 
				attraverso le nostre istituzioni culturali.
 
 Arte e comunicazione vanno di pari passo?
 
 La comunicazione può essere interpretata come scienza, e allora 
				va studiata, ma può anche essere considerata un’arte, e allora 
				va goduta. La comunicazione è un momento fondamentale, che si 
				lega, però, ad altre fasi della creazione di uno stile. 
				Comunicare oggi significa mettere insieme mondi separati, 
				rendere ibridi codici distinti, inventare metafore vive a cui la 
				gente faccia riferimento. L’importanza del momento comunicativo 
				è strettamente legata ad un’innovazione che oggi è sempre più 
				costante. Da qui, certo, una creatività costantemente rinnovata, 
				come richiede il mercato, ma anche un modo di comunicare sempre 
				nuovo.
 
 Tutto ciò si lega realmente alla 
				produzione artistica o forse sono discorsi più consoni al mondo 
				aziendale?
 
 Per un retaggio culturale illuministico e occidentale abbiamo 
				l’idea che il mondo della cultura sia un insieme di mondi 
				separati: fatto dagli artisti, dagli scienziati, dai letterati. 
				Ognuno con un suo codice, ognuno con un suo specifico pubblico 
				di riferimento; quindi mondi impermeabili uno all’altro, 
				incomunicabili, per l’appunto, fra loro. Comunicare significa 
				mettere insieme discipline diverse, creare un mondo nuovo. 
				Aggiungo poi che aldilà degli strumenti che possiamo utilizzare, 
				si comunica fortemente quando si ha una grande idea. Un grande 
				evento si comunica da solo.
 
 Come si coniuga la sua concezione 
				umanistica del mondo con la presidenza di una delle istituzioni 
				culturali più rappresentative d’Italia?
 
 Quando la Triennale è nata e fino a qualche tempo fa annoverava 
				tra i suoi protagonisti grandi nomi: da Sironi a Vittorini a 
				Eco... Oggi praticamente vi sono solamente architetti e 
				designer, con un enorme limite che è rappresentato dalla 
				settorialità. Uno dei primi provvedimenti che ho intenzione di 
				adottare dovrà essere volto proprio a limitare quanto più 
				possibile una visione univoca delle cose. Non mi interessa solo 
				sentire un grande architetto, mi interessa sentire un grande 
				filosofo che parla di architettura o un grande storico che 
				discute del problema del paesaggio o un teologo. Tutto questo 
				per dire che ad interessarmi non è la professione in senso 
				stretto, è la qualità professionale. Non parlando un linguaggio 
				attinente alla disciplina di cui si vuol parlare ma attraverso 
				la trasmissione di codici condivisi. E per far questo è 
				necessario che ci sia una armonia di quelle fratture “culturali” 
				di cui dicevo e che il senso comune ha creato. Dobbiamo operare 
				secondo una costante reinvenzione della narrazione delle cose: 
				l’uomo costruisce se stesso narrandosi. Lo fa attraverso i più 
				diversi strumenti: dalle parole alla materia, ma è esattamente 
				lo stesso.
 
 Tornando alla Triennale?
 
 Vorrei che si modificasse in parte lo Statuto per dare spazio 
				anche a quelli che comunemente vengono chiamati i “non addetti 
				ai lavori”, inserendo, per esempio, nel comitato scientifico un 
				antropologo piuttosto che un filosofo. Solo in questo modo è 
				possibile creare un comitato che dia indirizzi o proponga 
				progetti di ampio respiro. Solo in questo modo quello 
				diventerebbe un luogo dove si crea in prima istanza dibattito, 
				dove si articolano pensieri. Non è solo laddove si ideano 
				mostre, dunque, ma diverrebbe il cuore pulsante da cui vengono 
				prodotti sempre nuovi stimoli, lanciati verso gli ambiti più 
				vari. Perché è vero che il nostro “cliente” è il pubblico, la 
				società, ma chi può negare che il nostro pubblico di riferimento 
				possano essere anche le imprese, per esempio? È mia intenzione 
				coinvolgere nelle attività di Triennale le Università milanesi, 
				incontrare gli imprenditori, discutere con loro di che cosa può 
				fare la nostra istituzione per loro. Bisogna cambiare 
				l’atteggiamento nei confronti del privato. Anche perché da qui 
				possono nascere nuove idee.
 
 E per il pubblico?
 
 Esistono diversi pubblici di riferimento, da qui la necessità di 
				una articolazione delle esposizioni e delle attività. Basta 
				mostre di architettura impraticabili ai più, basta con i 
				virtuosismi intellettuali, troppo spesso autoreferenziali. È 
				necessario che chi idea e produce una mostra riesca ad 
				esprimerne l’anima, che significa poi, esclusivamente suscitare 
				emozione. Gli allestimenti sono solo strumenti che devono 
				accrescere la sensibilità individuale. Solo attraverso le 
				emozioni c’è l’apprendimento. Questa è una Fondazione che deve 
				parlare all’uomo, non all’architetto o al critico d’arte. Deve 
				parlare a tutta la società, ai giovani e ai meno giovani.
 
 Ecco un punto fondamentale: i giovani. Che 
				fa la Triennale per loro?
 
 Dobbiamo lavorare per loro, sia come pubblico sia come artisti. 
				Abbiamo già in programma di organizzare mostre celebrative per 
				scoprire nuovi talenti. È proprio per arrivare ai giovani che 
				abbiamo allestito il coffee design, un luogo destinato al relax, 
				dove trovano posto più di cinquanta differenti sedute di design, 
				produzioni di arredo di differenti epoche storiche, da godere 
				liberamente. E quello è divenuto oggi un punto d’incontro 
				significativo per i giovani milanesi, che anche in questo modo 
				godono l’arte.
 
 Questo significa vivere di un’Istituzione 
				culturale fino ad oggi apparsa quasi inviolabile?
 
 L’intento è esattamente questo, e stiamo provvedendo ad una 
				ulteriore valorizzazione del luogo. Per esempio organizzando 
				eventi di diversa natura: concerti, momenti di lettura. Stiamo 
				realizzando i lavori di restauro del Palazzo dell’Arte, 
				potenziando tutti quei servizi interni che ci permettono un 
				continuo interscambio e dialogo con i nostri utenti. Tra un anno 
				e mezzo sarà pronto il Museo del design.
 
 In tutto questo la politica quanto conta, 
				e soprattutto, che cosa può fare per incentivare e potenziare lo 
				sviluppo dell’arte italiana?
 
 La politica, in quanto tale, non esiste: esistono gli uomini, 
				con le loro passioni, i loro interessi, o anche i loro 
				disinteressi. Esistono uomini sensibili, attenti e intelligenti, 
				con cui è possibile dialogare, ed altri privi di queste qualità. 
				E tutto ciò non ha a che fare con la destra o la sinistra, ha a 
				che fare con la passione e la visione ampia del mondo del 
				singolo. Certo, sarebbe bene che ci fosse l’uomo giusto al posto 
				giusto, ma questo è un altro discorso. (c.v.)
 
 16 gennaio 2004
 
 (da Ideazione 1-2004, gennaio-febbraio)
 
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