| Alle radici della tradizione americana di Luca Pesenti
 
 "Il bisogno di avere radici è forse il più importante e il meno 
              conosciuto dell'anima umana. Difficile definirlo. L'essere umano 
              ha le sue radici nella concreta partecipazione, attiva e naturale 
              all'esistenza di una comunità che conservi vivi certi tesori del 
              passato e certi presentimenti dell'avvenire". Simone Weil scrisse 
              queste righe nel 1943, epoca in cui i bisogni profondi dell'uomo 
              sembravano soccombere di fronte al furore dello scatenamento 
              totalitario. Eppure oggi, mezzo secolo e passa più tardi, quel 
              bisogno profondo di radici sembra essere più attuale che mai, 
              tanto che secondo Zygmund Bauman, grande vecchio della sociologia 
              americana, i nostri anni segnano una vera e propria "era della 
              comunità", o almeno del suo rinascente bisogno. Negli anni Ottanta 
              furono i cosiddetti "neo-comunitaristi" a rilanciare il problema. 
              I loro nomi sono poi diventati famosi: Alasdair McIntyre, Charles 
              Taylor, Michael Sandel, Amitai Etzioni. Tutti sostenitori di una 
              concezione della comunità come parte integrante dell'identità 
              individuale, superando in un colpo decenni di contrapposizione 
              forzata tra individualisti e collettivisti.
 
 In questo processo, non tutti sembrano ricordare l'autore che con 
              maggior forza e precisione seppe riproporre il tema sin dopo la 
              seconda guerra mondiale. Ovvero Robert Nisbet, storico della 
              sociologia e delle idee politiche, intellettuale schivo e per 
              questo estraneo alla notorietà, difficile da inchiodare in 
              categorie preconfezionate grazie a un pensiero articolato e 
              composito. Il suo libro più famoso, The Quest for Community, è 
              stato interpretato come un testo neo-tocquevilliano, pluralista e 
              liberale nella forma e nella sostanza, seppur con venature (più 
              visibili nell'opera più matura) che rimandano a quel 
              conservatorismo che è tutto americano e che risulta quasi 
              intraducibile dalle nostre parti. Il pensiero, naturalmente, va a 
              quella traduzione italiana pubblicata (con un titolo prudentemente 
              risolto in "La comunità e lo Stato") da quel fautore del 
              "liberalismo comunitario" che risponde al nome di Adriano Olivetti, 
              il quale lasciò al curatore Franco Ferrarotti il compito di 
              sostenere, nell'introduzione, che "la comunità è una realtà 
              vivente e può fornirci una via d'uscita, forse la sola soluzione 
              possibile, di fronte al potere politico nelle sue forme odierne di 
              concentrazione oppressiva". Forse per questo suo sfuggire a ogni 
              categoria sintetica nessuno in Italia se l'è più sentita di 
              riproporre questo fondamentale testo, fuori commercio da molti 
              anni e mai più ristampato. Cosa che invece è già accaduta più 
              volte negli States, dove comunque il pensiero nisbettiano si è 
              avventurato non solo negli ambienti new conservative, ma si è 
              spinto ad essere accolto con interesse anche da autori di 
              estrazione new left, figli di una certa tradizione repubblicana, 
              primo tra tutti il Cristopher Lasch de La cultura del narcisismo. 
              Sempre negli Stati Uniti, il pensiero comunitario di Nisbet resta 
              tra i riferimenti di autori libertarians di matrice cattolica4, 
              che da lui traggono la necessità di mantenere rigorosamente 
              separati lo Stato e la società civile, le istituzioni volontarie e 
              quelle coercitive, l'autorità (attributo della comunità) e il 
              potere (attributo dello Stato).
 
 A volerlo a tutti i costi definire (arte non eccelsa ma talvolta 
              necessaria), potremmo azzardare che Nisbet fu un "libertario 
              anti-individualista", o forse anche un "comunitarista libertario". 
              Certamente la sua ipotesi mal si presta a essere interpretata 
              secondo lo schema destra-sinistra, o ancora di più seguendo il 
              crinale che distingue conservatori e progressisti. Lo scrive in 
              molte parti della sua opera, con insistenza apparentemente 
              maniacale ma, se letta in profondità, motivata dall'ampiezza della 
              sua impostazione, che non cede a tentazioni passatiste o 
              reazionarie (a dispetto della sua più volte asserita adesione alla 
              destra del Partito repubblicano, i cosiddetti new conservatives, 
              come ricostruisce il contributo di Charles Forcey) e non esagera 
              mai i toni nella critica, spesso motivata, all'idea di progresso e 
              alle sue rappresentazioni. Fu certamente un critico appassionato 
              dell'individualismo moderno, ma non cadde mai nella tentazione di 
              spingersi sul versante opposto, collettivista o statalista. Fu al 
              tempo stesso un nemico giurato del materialismo e dello 
              statalismo, attento com'era a criticare a fondo le tentazioni 
              totalitarie sotto qualunque forma esse si presentassero. In questo 
              senso le sue opere principali sono tutte apertamente critiche 
              verso la matrice giacobina e rousseauiana della modernità, per 
              dimostrare come statalismo burocratico e individualismo atomistico 
              non fossero due fronti opposti e inconciliabili, ma facce opposte 
              della stessa medaglia. Come tali, continuamente compresenti nella 
              storia moderna e passibili di ripresentarsi anche nell'ambito 
              delle democrazie liberali occidentali, troppo attente alla 
              liberazione dell'individuo da ogni legame e per questo esposte a 
              processi di disgregazione sociale assai pericolosi. In fondo, 
              ricorda Nisbet, il Leviatano di Hobbes non era altro che questo: 
              la costruzione di un quadro neutrale burocratico, entro cui gli 
              individui, liberi da ogni legame, dovrebbero poter perseguire i 
              propri interessi.
 
 Da realista cristiano, da pluralista nemico di ogni forma di 
              monismo, il suo nemico principale fu lo Stato. Lo Stato colpevole 
              ai suoi occhi di aver costretto a deperimento le forme comunitarie 
              - i corpi intermedi - tipiche della società americana, dalla 
              famiglia fino alle importantissime comunità locali, senza riuscire 
              a proporre nulla di alternativo, se non astratti meccanismi 
              neutralizzanti e impersonali. Ma la sua critica anti-statalista 
              mise in luce molto di più. In The Twilight of Authority e ancor 
              più in The Present Age, testi più maturi pubblicati tra la fine 
              degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta, la critica a 
              quello che definisce "il Leviatano politico-militare" tocca corde 
              decisamente prossime a quello che si sarebbe poi chiamato, per 
              l'appunto, libertarismo. L'America di Wilson e Eisenhower, 
              l'America in guerra continua, l'America delle oltre duecento 
              guerre dall'anno della sua fondazione, restringeva già allora, 
              secondo Nisbet, gli spazi di libertà dei suoi cittadini. Rileggere 
              alcuni brani in cui denuncia la progressiva centralizzazione del 
              potere politico e la crescita della burocrazia federale, a tutto 
              discapito della corretta distribuzione del potere tipica di un 
              sistema federalista, richiama alla mente identiche denunce che, in 
              anni più recenti, sono venute dagli ambienti intellettuali più 
              diversi: Cristopher Lasch, i libertarians, Paul Piccone e il 
              gruppo che si raccoglie attorno alla rivista Telos.
 
 La sua America è invece quella di Alexis Tocqueville, come si 
              desume anche dall'articolo sul tema della rivoluzione americana 
              che pubblichiamo in questo dossier. Se le due grandi rivoluzioni 
              europee, quella francese e quella sovietica, esplosero per 
              costruire un potere monolitico interpretato dallo Stato 
              provvidenziale, quella americana si sviluppò per il motivo 
              contrario: sfuggire alle maglie del potere oppressivo, costruire 
              un sistema di libertà e di pluralismo. Ma, ammonisce ancora Nisbet, 
              la libertà dallo Stato non è la soluzione al problema della 
              felicità umana. Se al posto della burocrazia statale sostituiamo 
              quella, altrettanto impersonale, del corporate business e del 
              management aziendale, otteniamo sempre individui solitari, 
              tendenze centraliste, atomismo sociale. Ancora in The Quest, 
              Nisbet scriveva: "La libertà economica non può poggiare sull'atomismo 
              morale o grandi enti impersonali. Non lo ha mai potuto fare. La 
              libertà economica ha prosperato e continua a prosperare soltanto 
              in aree e sfere nelle quali è stata abbinata a una fiorente vita 
              associativa. La libertà economica non si può scindere dai contesti 
              non individualistici di associazione e di comunanza di intento 
              morale. Il capitalismo si è maggiormente indebolito laddove queste 
              risorse sociali sono diventate deboli, senza che alcuna nuova 
              forma di associazione e alcun simbolismo sia venuto a sostituire 
              quelli del passato". Oggi tutti lo chiamano, prudentemente e 
              neutralmente, "capitale sociale", ma il problema rimane sempre 
              quello del tempo di Nisbet: senza comunità non c'è progresso e 
              neppure vera libertà.
 
 10 maggio 2002
  
              
              (da Ideazione 2-2002, marzo-aprile)  
              
 
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