| Hannah Arendt e la Rivoluzione americana di Robert Nisbet
 
 E' ampiamente - se non universalmente - riconosciuto che Sulla 
              rivoluzione di Hannah Arendt è un classico del pensiero politico. 
              Un lavoro che è stato ammirato non solo nel campo - in cui 
              ovviamente ricade - degli studi comparativi sulla rivoluzione, ma 
              anche nelle aree della filosofia sociale, della teoria politica e, 
              non ultimo, delle teorie della modernità. Come tutti i lettori del 
              libro sanno, la Arendt costruì il suo libro attorno a un'inchiesta 
              e ad alcune conclusioni sulle tre grandi rivoluzione della moderna 
              storia occidentale: quella americana, quella francese e quella 
              russa, anche se vi sono riferimenti ad altre esplosioni 
              rivoluzionarie dei tempi moderni. Non è mia intenzione in questo 
              articolo descrivere o analizzare i temi principali di questo 
              libro. E' sufficiente dire che mi trovo d'accordo praticamente con 
              tutto, in particolare con ciò che riguarda la rivoluzione francese 
              e quella russa. Mi limiterò in questa sede soltanto a taluni 
              aspetti del modo con cui la Arendt tratta la rivoluzione 
              americana. Anche in questo caso, voglio subito chiarire che il mio 
              accordo con le linee dominanti della sua trattazione della 
              rivoluzione americana è sostanziale, ed è solo a partire da questa 
              trattazione che ho cominciato ad essere consapevole di alcuni 
              elementi che reputo importanti e interessanti. Ne farò menzione a 
              tempo debito. In ogni caso, nonostante la mia completa ammirazione 
              per la sua trattazione del tema, ci sono alcuni punti sui quali mi 
              sembra possibile un rispettoso dissenso.
 
 "La questione sociale"
 
 Il primo problema riguarda l'apparente sicurezza della Arendt sul 
              fatto che la rivoluzione americana fosse talmente rivolta alla 
              libertà e alla costruzione di uno stabile sistema di limitazione 
              dei poteri, da non ottenere nessun effetto sull'Europa del tempo o 
              sulle altre parti del mondo in cui fosse predominante una 
              "questione sociale". Con il termine "questione sociale" la Arendt 
              si riferisce principalmente alla percezione popolare della povertà 
              e delle differenze di classe e di ricchezza. Scoprì che questa 
              percezione era assai diffusa nella Francia del 1789, nella Russia 
              del 1917, ma non nelle colonie americane del 1776 o nei decenni 
              immediatamente successivi. Il seguente passaggio è illuminante: 
              l'indirizzo della rivoluzione americana rimase rivolto alla 
              fondazione della libertà e di istituzioni durature, e a quelli che 
              agivano in questa direzione non fu permesso nulla che si ponesse 
              al di fuori dall'area della legge civile. L'indirizzo della 
              rivoluzione francese fu deviato sin dall'inizio da questa rotta 
              per la contiguità del dolore; fu determinata dalle esigenze di 
              liberazione non dalla tirannia ma dalla necessità, e fu messa in 
              atto dall'illimitata immensità della miseria delle persone e dalla 
              pietà che ispirava questa miseria1.
 
 Ora, c'è una certa dose di verità in questa differenza tra le 
              rivoluzioni americana e francese. Senza dubbio i leader della 
              rivoluzione francese erano dominati da una concezione del potere 
              il cui scopo era quello di "rifare" il carattere morale e sociale 
              della Francia. Se fu invocata la libertà, fu la libertà dalle 
              istituzioni tradizionali - famiglia, comunità locale, chiesa - 
              piuttosto che la libertà dal potere in quanto tale. Come il 
              Rousseau del Terzo discorso o del famoso capitolo su "Il 
              Legislatore" nel Contratto sociale, intelligenze come quelle di 
              Robespierre e Saint-Just poterono guardare al potere assoluto come 
              a una forza di redenzione, purché derivato dalla virtù e radicato 
              nella "volontà generale" del popolo. E senza dubbio, la fondazione 
              di questa concezione del potere, e anche la sua ricezione da parte 
              di un significativo numero di francesi durante la rivoluzione e 
              anche in seguito, fu ciò che la Arendt definisce "questione 
              sociale". Proprio per il fatto che l'aristocrazia era così odiata, 
              che a partire dalle idee di Rousseau sull'idea di eguaglianza 
              quest'odio si era ancora più infiammato, e che la povertà era 
              molto estesa in Francia, particolarmente nelle città, a un livello 
              sconosciuto per le colonie americane, la "questione sociale" 
              assunse la precedenza sul resto e divenne la base del potere 
              politico più vasto e penetrante nella vita e nella mente che sia 
              mai stato conosciuto sotto i Borboni. Tutto questo è corretto e 
              non verrà messo in discussione in questo saggio.
 
 Eppure mi sembra che, a forza di rimarcare le differenze tra la 
              rivoluzione americana e quella francese, la Arendt si sia spinta a 
              omettere, almeno parzialmente, l'esistenza di una "questione 
              sociale" nelle colonie e poi negli stati americani che vennero 
              ufficialmente creati dalla Costituzione. Benché le differenze di 
              classe non fossero così evidenti nelle colonie come invece lo 
              erano nell'Ancien Regime; benché la povertà fosse meno diffusa e 
              meno intensa rispetto a quanto accadeva in altri paesi del mondo, 
              comprese Inghilterra e Francia; e benché le tensioni sociali ed 
              economiche fossero minori e più moderate, resta il fatto che una 
              componente rilevante di studiosi americani ci hanno mostrato 
              un'America del diciottesimo secolo che non trova riscontro negli 
              scritti di Hannah Arendt. Non vorrei dare l'impressione che nei 
              suoi scritti ci possa essere l'ingenua convinzione, un tempo assai 
              diffusa, che tutti gli americani nel diciottesimo secolo fossero 
              middle class, ricchi e interessati - anche nelle frange radicali - 
              unicamente alla liberazione politica dalla Gran Bretagna, al 
              cambiamento di una consorteria di governanti con un'altra, per 
              niente trasportati dalla parola "rivoluzione". La Arendt è 
              un'analista sociale troppo sofisticata e troppo erudita in campo 
              storico per sottostare a questo stereotipo. Egualmente, non penso 
              che dalla sua trattazione delle colonie americane e della 
              "questione sociale" si possa derivare granché di quanto alcune 
              ricerche contemporanee hanno dimostrato essere la situazione reale 
              nelle colonie, per quanto riguarda i problemi sociali, le 
              strutture e le tensioni.
 
 Da storici come Carl Bridenbaugh, Jackson Turner Main, Bernard 
              Bailyn, Robert R. Palmer e Richard Morris, per citarne solo 
              alcuni, abbiamo acquisito una descrizione piuttosto diversa della 
              storia sociale della rivoluzione americana rispetto a quella 
              comunemente accettata. Effettivamente questi storici stanno 
              costruendo sulla traccia dei lavori seminali di J. Franklin 
              Jameson e Allan Nevins, scritti nella metà degli anni Venti. 
              Un'attenzione particolare deve essere posta su The American 
              Revolution Considered as a Social Movement, pubblicato nel 1926 da 
              Jameson, un libretto minuto nel formato ma grande nelle 
              implicazioni e nell'influenza. Ma almeno lo stesso rispetto deve 
              essere accordato anche ad Allan Nevins, che pubblicò il suo studio 
              più importante (The American States During and After the 
              Revolution, 1775 - 1789) immediatamente dopo. Uno studio che per 
              la prima volta ci ha dato la piena consapevolezza di quanto sia 
              inadeguata qualunque concezione della rivoluzione americana che 
              presti attenzione esclusivamente al Congresso continentale e al 
              Governo federale, senza tener conto degli eventi accaduti nelle 
              assemblee e nelle legislature delle tredici colonie. Come hanno 
              sottolineato Jameson e Nevins, è soprattutto negli atti delle 
              assemblee di ogni colonia e nelle legislazioni statali che si 
              svolse la rivoluzione sociale nell'ambito della guerra per 
              l'indipendenza politica.
 
 Lo spazio a mia disposizione non mi permette un trattamento 
              dettagliato della consistenza e dell'estensione della "questione 
              sociale" negli Stati Uniti. Voglio solo elencare rapidamente ciò 
              che le ricerche storiche, a partire dai lavori classici di Jameson 
              e Nevins, hanno dimostrato essere vero e che invece non si può 
              dedurre dalla trattazione arendtiana della rivoluzione americana. 
              Innanzitutto, nonostante un ancora profondamente radicato mito 
              sostenga il contrario, l'America ha conosciuto qualcosa di simile 
              a una fase feudale. Nonostante l'assenza di castelli, cavalieri o 
              grandi baroni e duchi nella sua terra, resta il fatto che quando 
              ci occupiamo della vita sociale delle persone prima della 
              rivoluzione, ritroviamo molti elementi feudali. La primogenitura e 
              l'eredità inalienabile esistevano in ogni colonia, e quando 
              scoppiò la rivoluzione, soltanto due colonie avevano già abolito 
              la primogenitura, soltanto una l'eredità inalienabile. Ed è un 
              fatto incontestabile che nel decennio in cui fu ratificata la 
              Dichiarazione d'Indipendenza, tutti gli Stati (tranne due) 
              abolirono l'eredità inalienabile e nel giro di altri cinque anni 
              tutti resero illegale la primogenitura. Appare difficilmente 
              concepibile che le azioni legislative, che hanno coinvolto tredici 
              distinte legislature, abbiano potuto susseguirsi in modo così 
              rapido e uniforme se questi due costumi, eminentemente di tipo 
              feudale, non fossero già stati largamente avversati. Non possiamo 
              neppure trascurare l'esistenza di distinte classi sociali 
              nell'America pre rivoluzionaria. Al vertice vi erano i grandi 
              proprietari terrieri, alcuni dei quali davvero molto grandi 
              perfino per gli standard inglesi. Come ha dimostrato Richard 
              Morris, il patrimonio feudale di certe famiglie come i Fairfaxes 
              della Virginia e i Van Rensselaers di New York era governato 
              sostanzialmente dalle stesse norme e dagli stessi organismi 
              feudali che erano esistiti già in Inghilterra e in altre parti 
              dell'Europa occidentale. Sotto i proprietari terrieri c'erano 
              altre classi: i mercanti, gli artigiani, i lavoratori non 
              specializzati, i servitori a contratto e, non bisogna 
              dimenticarlo, i neri, sia quelli in condizione di schiavitù sia 
              quelli del Nord, in condizione di libertà ma comunque di classe 
              sociale bassa. Queste classi erano reali e reali erano le tensioni 
              tra loro. Come ci ha detto Jackson Turner Main in The Social 
              Structure of Revolutionary America, la tendenza di lungo periodo 
              nelle colonie andava "verso la più grande diseguaglianza, con 
              marcate distinzioni di classe".
 
 Ci sono anche altre caratteristiche feudali, o neo feudali, 
              dell'America coloniale, ma ne menzionerò soltanto una: 
              l'establishment religioso. Praticamente in tutte le colonie, 
              l'establishment religioso era predominante: il Congregazionalismo 
              nel Massachusetts, nel New Hampshire e nel Connecticut; la Chiesa 
              d'Inghilterra negli altri stati. Qualcuno potrebbe pensare che non 
              si produssero profondi attriti creati dalle leggi volute dai 
              luterani, dai battisti, dai metodisti e altri per pagare le tasse 
              a sostegno di una religione totalmente aliena? E anche se la 
              separazione tra Stato e Chiesa non avvenne immediatamente in tutti 
              i nuovi stati, il processo si avviò improvvisamente subito dopo la 
              firma della Dichiarazione. Per sintetizzare questa parte della mia 
              tesi: a dispetto dell'implicazione più importante di Hannah Arendt 
              relativa all'assenza del genere di malessere sociale che fu invece 
              così evidente prima in Francia e un secolo dopo in Russia, 
              l'evidenza suggerisce che questo malessere era presente in 
              America, anche se a un grado più modesto, e fu il combustibile 
              della rivoluzione sociale che prese piede nel nostro paese passo 
              dopo passo durante, o subito dopo, la guerra per la liberazione 
              politica dalla Gran Bretagna. Naturalmente è ancora oggetto di 
              dibattito se questo malessere sociale, basato sulle differenze di 
              ricchezza e sulle diseguaglianze di classe, avrebbe potuto 
              raggiungere proporzioni rivoluzionarie se le colonie non avessero 
              combattuto con l'Inghilterra. Ma va notato che tanto la 
              rivoluzione francese quanto quella russa debbono essere valutate 
              nel contesto della guerra. La guerra ha sempre avuto un effetto 
              catalizzatore sui processi implicati nella rivoluzione sociale. 
              L'unico punto importante, qui, è comunque che una "questione 
              sociale" è realmente esistita in America, prima e dopo la 
              rivoluzione.
 
 La Arendt è naturalmente nel giusto quando sottolinea la grande 
              differenza esistente tra la rivoluzione americana e le altre due, 
              relativamente al fanatismo, all'uso del terrore, allo spettacolo 
              della rivoluzione che divora se stessa. Dimenticare la moderazione 
              della rivoluzione americana significherebbe dimenticare il suo 
              principale carattere distintivo. Ci furono significative 
              espropriazioni di proprietà, così come nelle rivoluzioni russa e 
              francese, ma quelle che avvennero in America furono limitate 
              interamente alle proprietà dei Tories che si erano opposti, in un 
              modo o nell'altro, alla guerra con l'Inghilterra. Per quale motivo 
              la rivoluzione americana mantenne sempre uno spirito di 
              moderazione, malgrado le ineguaglianze sociali e i conflitti cui 
              ho fatto riferimento? Non è una domanda a cui si possa facilmente 
              rispondere, ma sono incline a pensare che alcuni fattori furono 
              importanti. Innanzitutto il fatto che la nostra rivoluzione 
              sociale si diffuse tra le tredici colonie e stati, a differenza di 
              quelle europee centrate su Parigi o Mosca. In secondo luogo, 
              benché l'America avesse una classe di pensatori estremamente 
              preparati e brillanti - Jefferson, Madison, Adams, Hamilton e 
              altri - non si costituì una classe intellettuale paragonabile a 
              quella che l'Europa ha conosciuto dal Rinascimento in poi, una 
              classe sradicata, antagonista rispetto all'ordine costituito, dal 
              temperamento cronicamente conflittuale e senza riferimenti 
              all'ordine sociale. Il terzo punto è la pura e semplice forza 
              dell'impegno religioso, un impegno religioso plurale in America: 
              la gran parte di ciò che avrebbe potuto facilmente diventare 
              passione politica fu contenuta nelle strutture religiose. Infine, 
              penso che lo sviluppo di associazioni volontarie in America abbia 
              determinato una situazione tale da non spingere il potere politico 
              allo stesso assolutismo che tendeva ad esserci in Europa, 
              specialmente nell'epoca delle rivoluzioni.
 
 Un evento di importanza locale
 
 Il mio secondo punto di dissenso con l'interpretazione di Hannah 
              Arendt della rivoluzione americana ha a che fare con la 
              controversa questione dell'attuale influenza di questa rivoluzione 
              in altre parti del mondo. Cito ancora da Sulla rivoluzione: Fu la 
              rivoluzione francese e non quella americana che infuocò il mondo, 
              e conseguentemente fu dagli eventi francesi, e non dal corso degli 
              eventi in America o dagli atti dei Padri fondatori, che il nostro 
              attuale utilizzo della parola "rivoluzione" ha assunto la sua 
              connotazione ei suoi sottintesi ovunque, non esclusi gli Stati 
              Uniti [...]. La triste verità sull'argomento è che la rivoluzione 
              francese, che finì con un disastro, ha fatto la storia del mondo, 
              mentre la rivoluzione americana, così trionfalmente riuscita, è 
              rimasto un evento di importanza poco più che locale. La Arendt è 
              tra coloro che, in successione diretta con Edmund Burke, hanno 
              capito come la fuga da ciò che Burke ha chiamato "potere 
              arbitrario" fu l'obiettivo supremo della rivoluzione americana e 
              che, in quella francese, il fattore decisivo fu invece 
              l'imposizione del potere, un potere più implacabile e costrittivo 
              di qualunque altro conosciuto nell'Europa occidentale. E sarebbe 
              ozioso fingere che la rivoluzione francese, almeno all'inizio, non 
              abbia fatto presa sulle menti di moltissime persone, a vario 
              titolo colpite dall'espansione dei suoi princìpi attraverso 
              l'avanzata delle armate rivoluzionarie, e quindi napoleoniche, e 
              dallo spettacolo che procurò a tantissime intelligenze, in 
              maggioranza giovani, in Francia, Germania e altri paesi europei. 
              Per più di un secolo la rivoluzione si dimostrò essere forse 
              l'unico grande problema della politica francese. La rivoluzione e 
              le sue conseguenze furono il punto di partenza per decine di 
              libri, saggi e trattati in Francia e altre parti del continente. 
              La Arendt giustamente enfatizza il modello che fu fornito dalla 
              rivoluzione francese al tipo di spirito rivoluzionario che si 
              diffuse e si sviluppò durante il diciannovesimo secolo, segnando 
              notevolmente, come lei dimostra, Marx e i suoi seguaci e 
              culminando nel leninismo e nella rivoluzione bolscevica. La Arendt 
              è completamente nel giusto quando dichiara che la passione della 
              rivoluzione francese per la ricostruzione sociale, economica, 
              morale e intellettuale della nazione, attraverso l'utilizzo di un 
              potere assoluto, ebbe un'influenza decisiva sulla formazione di un 
              complesso di idee, atti e strategie rivoluzionarie che è giunto 
              fino a noi, oggi visibile in decine di paesi.
 
 Ma ancora sulla base della più valida ricerca storica, è 
              necessario riconoscere alla rivoluzione americana che il suo 
              impatto rivoluzionario non ha riguardato solo gli americani, ma 
              anche altri popoli del mondo. La rivoluzione americana non è 
              rimasta - usando le parole della Arendt - "un evento di importanza 
              poco più che locale". Negare alla rivoluzione americana lo status 
              rivoluzionario per la mancanza del fanatismo, del terrore e della 
              persecuzione che ritroviamo nella rivoluzione francese e in quella 
              russa sarebbe come negare lo status di guerra a un conflitto 
              armato semplicemente perché sono state commesse poche o nessuna 
              atrocità. Per cominciare, tutti i Padri fondatori, praticamente 
              senza eccezioni, vedevano - ed erano molto orgogliosi di questo - 
              la loro guerra contro l'Inghilterra come la cornice per una 
              genuina rivoluzione. Le parole di Thomas Jefferson a John Adams 
              riflettono l'universalità che molti dei leader della rivoluzione 
              americana videro negli eventi e nei cambiamenti iniziati nel 1776: 
              "Le fiamme accese il 4 luglio 1776 - scriveva Jefferson - si sono 
              propagate in troppa parte del mondo per poter essere spente dalla 
              debole energia del dispotismo". Nessuno storico contemporaneo ha 
              dedicato più ricerche alla questione dell'influenza della 
              rivoluzione americana sul mondo quanto Richard B. Morris, il 
              quale, in una serie di libri e articoli, ha confutato l'idea che 
              la rivoluzione sia stato solo, o principalmente, un evento di 
              importanza locale. È una parodia - scrive Morris - "per ignorare 
              le correnti libertarie che l'avvenimento fece fiorire in tutto il 
              mondo". Non solo in Europa, quasi immediatamente, ma anche in 
              America Latina e in alcune parti del mondo asiatico, si diffusero 
              le novità dei grandi avvenimenti del 1776 e degli anni seguenti. 
              L'evidenza di ciò, come ha dimostrato abilmente Morris, è 
              semplicemente troppo grande e troppo dettagliatamente documentata 
              perché l'idea contraria possa essere mantenuta con successo.
 
 Passiamo al classico studio di Robert Palmer non solo sulla 
              rivoluzione americana e francese, ma su tutte le rivoluzioni e le 
              esplosioni rivoluzionarie avvenute nel diciottesimo secolo, The 
              Age of the Democratic Revolutions. È interessante come il primo 
              volume di questo lavoro sia stato pubblicato proprio nell'anno 
              (1959) in cui si tenne il seminario su "Gli Stati Uniti e lo 
              spirito rivoluzionario", alla presenza di Hannah Arendt, e che fu, 
              come lei stessa ammette, lo sfondo del suo Sulla rivoluzione. C'è 
              una grande differenza tra le interpretazioni della rivoluzione 
              francese e di quella americana proposte dalla Arendt e da Palmer. 
              Confesso che non posso essere d'accordo con l'idea di Palmer che 
              "le rivoluzioni americana e francese "procedettero dallo stesso 
              principio"" (le parole finali sono di John Quincy Adams, citate da 
              Palmer), e resto in compagnia sempre più stretta di Hannah Arendt. 
              Ma ciò a cui sono più interessato qui non sono le possibili 
              somiglianze e differenze tra le due rivoluzioni, quanto il 
              problema dell'influenza mondiale della rivoluzione americana e 
              l'ipotesi arendtiana della sua esiguità. Su questo aspetto del 
              problema, sono obbligato a seguire in pieno Robert Palmer e 
              Richard Morris. La seconda metà del primo volume di Palmer è 
              incentrata sugli effetti della rivoluzione americana in Olanda, 
              Belgio, Svizzera e Polonia, come in Francia, Germania e 
              Inghilterra. "Il primo e più grande effetto della rivoluzione 
              americana in Europa - scrive Palmer - fu di far credere, o 
              piuttosto sentire spesso in modo emozionale, agli europei che 
              stavano vivendo un periodo raro di importantissimi cambiamenti. Si 
              accorsero di una sorta di dramma dei continenti". Anche ammesso 
              che ci siano stati paesi in cui l'impatto positivo fu 
              relativamente ridotto rispetto all'impatto che ebbe in 
              Inghilterra, Irlanda e nelle province olandesi, e che ci siano 
              state intelligenze cristalline che guardarono gli avvenimenti 
              americani con una certa apprensione, se non con avversione, gli 
              effetti complessivi della rivoluzione americana sulle intelligenze 
              europee fu davvero sostanziale. Dopotutto, ci stiamo occupando, in 
              Europa, dell'epoca dell'Illuminismo e della glorificazione della 
              libertà e della ragione. Molti dei Padri fondatori erano stati 
              essi stessi educati da dottrine che erano state partorite da 
              intelligenze europee, ed è quindi molto strano che si sia creato 
              in Europa, per dirla con Palmer, "un mito americano, o un 
              miraggio, o un sogno".
 
 Gli europei erano venuti a conoscenza della rivoluzione americana 
              e della sua importanza in molti modi, come sottolinea Palmer: 
              attraverso la stampa europea dell'epoca, che stava vivendo 
              un'espansione straordinariamente rapida; attraverso le discussioni 
              negli innumerevoli club di lettura; attraverso i racconti dei 
              soldati di ritorno, racconti avidamente raccolti e diffusi, spesso 
              ingigantiti e distorti; e anche attraverso gli alberghi Masonic, 
              le cui filiali durante il diciottesimo secolo erano sparse tra 
              Europa e America britannica. I racconti dei soldati di ritorno 
              sono particolarmente interessanti. Si tenga presente che i soldati 
              che andarono nelle colonie americane provenivano da molti paesi 
              europei: Polonia, Germania, Francia, naturalmente Inghilterra. È 
              facile credere che un gran numero di questi soldati, molti dei 
              quali inevitabilmente provenienti da famiglie contadine, vedessero 
              la loro terra, i ranghi dell'aristocrazia sopra di loro, i loro 
              villaggi tradizionali e la povertà, in una maniera sostanzialmente 
              alterata, come risultato dei loro mesi o anni di combattimento in 
              America ma anche, necessariamente, di osservazione di differenti e 
              attraenti modelli di vita. Ma la documentazione e il dettaglio non 
              appartengono a un articolo come questo. Conta il punto centrale, e 
              non c'è modo migliore di ricordarlo che attraverso un'altra 
              citazione di Robert Palmer: "Gli effetti della rivoluzione 
              americana furono incalcolabili ma certamente molto grandi. Ispirò 
              il senso di una nuova epoca. Diede nuovi contenuti alla concezione 
              del progresso. Diede una dimensione interamente nuova alle idee di 
              libertà e di eguaglianza rese famigliari dall'Illuminismo […]. 
              Detronizzò l'Inghilterra e fece dell'America un modello per i 
              cercatori di un mondo migliore. Insomma, con tutto il rispetto per 
              Hannah Arendt e il suo profondo acume sulla rivoluzione americana 
              e le sue differenze con quella francese e quella russa, non è 
              possibile concludere, come lei fa, che la rivoluzione americana fu 
              "un evento di importanza poco più che locale". Vedere la 
              rivoluzione americana in questa luce significa perdere buona parte 
              della storia internazionale dei decenni immediatamente successivi 
              al 1776.
 
 10 maggio 2002
  
              
              (da Ideazione 2-2002, marzo-aprile, traduzione dall'inglese di 
              Luca Pesenti)  
              
 
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