| L'era Reagan e la sconfitta del vecchio 
              ordine liberal di Alberto Mingardi
 
 Neppure l'11 settembre è riuscito a farci rivalutare Ronald Reagan. 
              L'orgia di bandiere a stelle-e-strisce, il "siamo tutti 
              americani", l'ai-do-spik-inglisc d'ordinanza s'ispirano al JFK 
              tirato a lucido dalla più sfrenata apologetica hollywoodiana, agli 
              sbrodolamenti retorici di Franklin Delano Roosevelt, all'umanità 
              circoncisa di Bill Clinton. Persino al new world order di George 
              Bush. Ma per Reagan non c'è posto nel tempietto dei nuovi eroi 
              americani, l'intellettuale organico snobba il reaganismo come 
              l'episodio più increscioso di un decennio da dimenticare - quegli 
              anni Ottanta così indigesti, così rozzi, così "commerciali". Ecco 
              perché questo libro di Steven Hayward, appena uscito negli States 
              ed accolto favorevolmente dal grosso della critica, risulta tanto 
              prezioso. Hayward azzarda una sintesi, parziale certo, eppure 
              efficace, dell' "educazione di un leader", se vogliamo chiamarla 
              così. Sono i sedici anni (1964-1980) che separano i due momenti 
              più alti della carriera di Reagan. Nel 1964, la candidatura di 
              Barry Goldwater si arena sugli scogli del conformismo. Gli volta 
              le spalle metà del suo partito, e l'intellighenzia della East 
              Coast ha gioco facile nel farlo a pezzi come una bambolina voodoo. 
              Fioccano gli insulti: "fascista" è il più gentile. Sicuri della 
              sconfitta, i dirigenti del Grand Old Party cercano di salvare la 
              faccia, e organizzano una maratona televisiva per raccogliere i 
              fondi necessari per chiudere la campagna elettorale "in pari", 
              evitando se non altro la bancarotta. Sul piccolo schermo appare 
              Reagan, e pronuncia un discorso storico, The Speech lo chiameranno 
              poi, dove riassume e sviluppa gli argomenti di Goldwater.
 
 E' un piccolo trionfo. Reagan sarà, poi, governatore della 
              California, affronterà, perdendole, le primarie del dopo-Nixon, 
              fino a conquistare, gaffes dopo gaffes, la nomination 
              presidenziale e poi la Casa Bianca nel 1980. Al Reagan gaffeur 
              Hayward dedica una certa attenzione: e risulta evidente, dalla sua 
              ricostruzione minuziosa, come più che di "papere" si trattasse 
              semplicemente di affermazioni che l'élite intellettuale non poteva 
              digerire. Ad esempio: nel 1979, in piena campagna elettorale, 
              Reagan se ne uscì paragonando il New Deal al fascismo. Uno 
              scivolone secondo i media di mezzo mondo - non però per l'ex 
              governatore della California, che anziché rimangiarsi 
              prudentemente quanto aveva detto, si soffermò sul concetto. 
              Reminiscenza, senz'altro, della lettura de La via della schiavitù 
              di Hayek - ma non solo. Hayward curiosamente non lo ricorda in 
              queste sue pagine appassionanti, ma Reagan nei primi anni Settanta 
              venne ingaggiato per fare lo "speaker" di una serie di 
              trasmissioni radiofoniche, finanziate da un'associazione di 
              imprenditori con l'obiettivo di ingaggiare un duello in onde medie 
              contro i soliti critici dell'economia di mercato. Il bollettino si 
              basava, perlopiù, sulla lettura di testi pubblicati dalla 
              Foundation for Economic Education, decana fra i think-tank 
              statunitensi: editore di Henry Hazlitt, Ludwig von Mises e 
              soprattutto di Frédéric Bastiat.
 
 Ci sono buone ragioni per ritenere che (malgrado Hayward documenti 
              un suo costante interesse per la pubblicistica conservatrice e 
              libertaria), Reagan dovesse le proprie convinzioni in gran parte 
              alle lettura di Frédéric Bastiat (curiosamente, secondo il suo 
              speech-writer Alfred Sherman, Bastiat era anche l'autore più 
              apprezzato da Margaret Thatcher). Il filo rosso che nega la sonora 
              sconfitta di Goldwater, e la speranzosa alba del reaganismo, si 
              riassume bene con questa illuminante battuta di George Will: "non 
              è vero che Goldwater nel 1964 perse le elezioni - solo, ci sono 
              voluti 16 anni per contare i voti". Perdente sul piano politico, 
              Goldwater aveva restituito ai repubblicani (secondo l'allora 
              giovane Bob Dole) la forza di smascherare a voce alta e chiara le 
              truffe del welfare state. Reagan sicuramente ha avuto un impatto 
              incredibile sulla retorica politica, costringendo persino i 
              personaggi più improbabili a riesumare il valore eterno della 
              libertà. Quanto la sua azione sia stata efficace a livello pratico 
              è, purtroppo, tutt'altra faccenda.
 
 7 giugno 2002
  
               
              
              Steven F. Hayward, "The Age of Reagan: the Fall of the Old Liberal 
              Order 1964 -1980", Forum, New York, 2001, pp. 848 - € 35,00
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