| Liberalismo e politica estera di Hans J. Morgenthau
 
 Qual è la concezione liberale degli affari esteri? Con quali 
              strumenti il liberalismo tenta di controllare le relazioni 
              internazionali? Qual è l'essenza della politica estera liberale? 
              Tucidide, Machiavelli, Richelieu, Hamilton o Disraeli concepivano 
              la politica internazionale come un'eterna lotta per la 
              sopravvivenza e per la conquista del potere. Vero è che, anche 
              prima della comparsa sulla scena del pensiero internazionale 
              moderno, tale visione venne costantemente messa sotto accusa: dai 
              Padri della Chiesa fino agli scrittori antimachiavelliani 
              settecenteschi, la politica internazionale fu fatta oggetto di una 
              dura condanna etica. Il pensiero internazionale moderno, tuttavia, 
              si spinge ancora oltre: non soltanto esso contesta la natura 
              morale del potere politico, che si rivela inesistente di fronte ai 
              valori razionali di verità e giustizia, ma nega, se non 
              l'esistenza stessa della politica della forza, perlomeno il suo 
              legame organico e imprescindibile con la vita dell'uomo nella 
              società. Francis Bacon fu il solo a profetizzare che il dominio 
              dell'uomo sulla natura avrebbe sostituito l'imperio dell'uomo 
              sull'uomo: per il pensiero internazionale preminente 
              dell'Ottocento, quella profezia si era avverata. "Le nazioni" 
              sosteneva Bentham, "sono colleghe e non concorrenti nella grande 
              impresa sociale". Una simile concezione degli affari 
              internazionali trovò nella filosofia di Herbert Spencer il suo 
              sviluppo sistematico e nella politica estera di Wilson la sua 
              realizzazione più coerente e diretta.
 
 Le relazioni tra Stati non differiscono in modo sostanziale da 
              quelle tra persone, ma anzi le ricalcano su scala più ampia. "Il 
              rapporto tra comunità" dichiarò Cobden in un discorso pronunciato 
              nel giugno del 1849, "non è altro che il rapporto tra un insieme 
              di individui". E poiché le relazioni tra persone sono 
              essenzialmente pacifiche, disciplinate e razionali, non vi è 
              ragione per cui non lo siano anche quelle tra nazioni. Le 
              relazioni tra persone dovrebbero dunque servire da modello a 
              quelle internazionali, le quali andrebbero assimilate alle prime 
              fino all'annullamento di ogni diversità. "Siamo all'inizio di 
              un'era - affermò Wilson nel messaggio al Congresso il 2 aprile 
              1917 - in cui si insisterà affinché i criteri di comportamento e 
              di responsabilità per le violazioni della legge siano osservati 
              tanto dalle nazioni e dai loro governi quanto dai singoli 
              cittadini degli Stati civili". Finché i residui del feudalesimo 
              faranno della politica estera il loro terreno di gioco, la 
              politica interna peserà più delle questioni internazionali e in 
              particolare le risorse finanziarie di un paese saranno destinate a 
              favorire la prima piuttosto che a incentivare le seconde.
 
 L'opposizione dei liberali britannici, guidati da Cobden e Bright, 
              alla visione palmerstoniana della politica estera e l'avversione 
              del liberalismo britannico in genere nei confronti di qualsiasi 
              politica coloniale attiva, i conflitti - almeno prima del 1866 - 
              tra liberalismo tedesco e Bismarck e la tradizionale riluttanza di 
              tutti i partiti liberali a votare in favore di spese militari, 
              sono altrettanti elementi che affondano le proprie radici 
              intellettuali in un'analoga predilezione per le politiche 
              nazionali e in un conseguente disinteresse nei riguardi degli 
              affari esteri. L'enfasi sulle politiche nazionali a discapito 
              delle questioni internazionali deriva da un'antica e, dal punto di 
              vista di queste ultime, sterile tradizione. Affermando che la 
              questione del potere fosse irrilevante per la valutazione dello 
              Stato, Platone invocava l'apragmosyne, cioè l'inerzia negli affari 
              esteri e la totale rinuncia alla politica estera. "Ciò che più 
              conta per il cittadino" dichiarava Rousseau, "è il rispetto delle 
              leggi nazionali, della proprietà privata e della sicurezza 
              personale. Purché questi tre punti siano garantiti, le autorità 
              avranno libertà di negoziare e di trattare con le potenze 
              straniere: non è da tale direzione che provengono i rischi 
              maggiori". La dichiarazione di Léon Blum del 1932 secondo cui 
              "quanto maggiore è il pericolo nel mondo, tanto più indispensabile 
              è la rinuncia alle armi", come pure il no al riarmo ribadito 
              ancora nel 1938 dal partito laburista britannico, si inseriscono 
              nel solco della medesima tradizione politica e intellettuale.
 
 Una politica estera senza politica
 
 Nell'approccio pratico alle questioni internazionali non meno che 
              nei tentativi teorici di comprendere la natura degli affari 
              esteri, questa scuola di pensiero procede come se l'elemento 
              politico non esistesse o fosse, nel migliore dei casi, un 
              attributo accidentale destinato a scomparire in un futuro 
              prossimo. "La politica, vede, non mi interessa" scriveva il futuro 
              statista Wilhelm von Humboldt a Goethe da Parigi nel 1798. "Alle 
              prossime elezioni" dichiarò Cobden, "i potenziali rappresentanti 
              di elettorati liberi si troveranno forse a dover affrontare la 
              prova del 'no alla politica estera'". Riferisce Paul S. Reinsch 
              che "quando il Portogallo diventò una repubblica, fu avanzata la 
              proposta di abolire tutte le cariche diplomatiche per far 
              amministrare gli affari internazionali da consoli. Ciò avrebbe 
              escluso la politica dalle relazioni estere". Ai nostri giorni, 
              l'opposizione a una politica estera attiva è giustificata 
              dall'urgenza dei problemi interni.
 
 Il liberalismo fu spinto a un tale atteggiamento dalla pratica in 
              ambito nazionale. Giunto a identificare l'ideale di supremazia 
              sull'uomo - l'essenza stessa della politica - con la particolare 
              espressione che questa brama di potere aveva assunto nella sua 
              esperienza storica, ovvero l'egemonia dei nobili sulle classi 
              medie, il liberalismo fece coincidere l'opposizione alla politica 
              aristocratica con l'ostilità a qualsiasi tipo di politica. 
              Dall'altra parte, le classi medie svilupparono un sistema di 
              egemonia indiretta che sostituì al metodo militare della violenza 
              aperta le invisibili catene della dipendenza economica, 
              nascondendo l'esistenza stessa dei rapporti di potere dietro una 
              rete di norme giuridiche all'apparenza egualitarie. Incapace di 
              discernere la natura politica di questi rapporti 
              intellettualizzati, a prima vista radicalmente diversi da ciò che, 
              fino ad allora, era andato sotto il nome di politica, il 
              liberalismo accomunò dunque la manifestazione aristocratica, 
              palese e violenta, della politica stessa alla politica tout court.
 
 La lotta per il potere, negli affari interni come in quelli 
              esteri, era insomma un semplice incidente storico legato alle 
              sorti del governo assoluto e destinato a svanire con esso. I 
              tentativi condotti sul piano nazionale di ridurre le funzioni 
              politiche a funzioni tecniche e i modi nei quali i primi esponenti 
              del liberalismo e molti liberali moderni concepirono e attuarono 
              la politica internazionale di non intervento, furono solo due 
              diverse espressioni della medesima aspirazione: limitare al minimo 
              la sfera politica tradizionalmente intesa sino a farla scomparire 
              del tutto. Se la politica estera del non intervento fu la 
              trasposizione del principio liberista del laissez faire sul piano 
              internazionale, l'ottimistica fiducia nel potere armonizzante del 
              "corso degli eventi", nello "sviluppo naturale" e nelle "leggi 
              della natura" servì da giustificazione all'inerzia sia interna che 
              internazionale.
 
 Il liberalismo pacifista
 
 Da una simile visione generale della politica internazionale 
              discende che il liberalismo è fondamentalmente pacifista e ostile 
              alla guerra, ritenuta la manifestazione evidente e più diretta 
              della brama di potere in campo internazionale. La guerra è sempre 
              stata considerata un flagello, ma nel contesto della filosofia 
              politica del liberalismo tale avversione si arricchisce di una 
              connotazione nuova. Nell'antichità e durante il Medioevo la guerra 
              era ritenuta un male che, con l'ineluttabilità di una catastrofe 
              naturale, distruggeva beni materiali e annientava vite umane. Il 
              liberalismo non si limita a condannare la guerra come oltraggio 
              morale aborrendone il macabro spettacolo, ma la considera 
              un'attività irrazionale e insensata, uno svago per aristocratici o 
              un retaggio totalitaristico che non trova posto in un mondo 
              razionale. La guerra fa parte del passato. Secondo Herbert 
              Spencer, essa appartiene all'era del militarismo e diverrà 
              senz'altro obsoleta con la civiltà industriale "in cui l'uomo può 
              saziare la propria avidità con l'investimento produttivo di 
              capitale". La guerra, insomma, è "morta" e "impossibile". La 
              guerra non risolve i problemi. La guerra non paga, è un 
              investimento improduttivo e, come riconobbe già nel Seicento 
              Eméric Crucé, "non dà frutti". Nessuno ha mai vinto una guerra. La 
              guerra è "la grande illusione". Come scrisse Benjamin Franklin a 
              Josiah Quincy il 17 settembre 1773, "non è mai esistita una guerra 
              buona né una pace cattiva". Persino l'osservazione di Wellington, 
              secondo cui "non vi è nulla di peggio che vincere una guerra a 
              parte perderla", contiene un elemento di pacifismo razionalista.
 
 […] In una società razionale non c'è posto per la violenza. Per 
              questa ragione una delle preoccupazioni fondamentali - tanto 
              pratiche quanto mentali - delle classi medie consiste nell'evitare 
              interferenze esterne, soprattutto se violente, con i delicati 
              meccanismi del sistema economico e sociale, simbolo della 
              razionalità del mondo in senso lato. Elevando tale preoccupazione 
              a postulato politico e filosofico assoluto, il liberalismo non 
              tenne conto della singolarità e dell'eccezionalità dell'esperienza 
              da cui esso fu originato: in politica interna come in politica 
              estera, l'assenza di violenza organizzata per lunghi periodi 
              storici costituisce infatti l'eccezione e non la regola. Inoltre 
              il liberalismo non corre rischi quando contrasta la violenza sul 
              piano nazionale poiché qui, in misura rilevante, ha sostituito al 
              dominio ottenuto per mezzo della forza un sistema di dominio 
              indiretto che trae origine dalle particolari esigenze delle classi 
              medie e pone queste ultime in posizione di vantaggio nella lotta 
              per il potere politico. La politica internazionale, dal canto suo, 
              non ha mai superato lo stadio "preliberale". Anche laddove 
              rapporti giuridici mascherano rapporti di forza, il potere va 
              interpretato in termini di violenza, reale e potenziale, e la 
              violenza potenziale tende sempre a trasformarsi in conflitto 
              reale. La distinzione tra guerra e pace non riguarda la sostanza 
              ma il grado e non implica una preferenza esclusiva, bensì scelte 
              alternative tra diversi strumenti per la conquista del potere. Il 
              passaggio verso una netta distinzione tra guerra e pace 
              internazionale, che nell'Ottocento e nel primo Novecento parve 
              mettere sullo stesso piano la situazione interna e quella 
              internazionale, era di natura tecnica e superficiale; esso 
              corrispondeva a un mutamento nei metodi bellici e nella politica 
              internazionale in genere e non intaccava la minaccia, mai venuta 
              meno, di violenza reale, che nella sfera internazionale è 
              connaturata a ciò che viene definito stato di pace.
 
 Ignari della sostanziale diversità tra politica interna ed estera 
              in epoca liberale, i liberali scambiarono la sempre più delineata 
              distinzione tra guerra e pace per un generale progresso verso la 
              seconda e un allontanamento dalla prima. Tratti in inganno 
              dall'apparente affinità tra pace interna e pace internazionale e 
              indotti a spostare l'esperienza nazionale sul piano 
              internazionale, essi assimilarono la differenza tra guerra e pace 
              a quella tra violenza assolutista e razionalità liberale. Il 
              liberalismo separò dunque dal loro substrato politico le tecniche 
              specifiche che aveva sviluppato come strumenti di dominio 
              nazionale - garanzie legali, apparato giudiziario, transazioni 
              economiche - e le trasferì sul piano internazionale come entità 
              autonome, prive della loro originale funzione politica. Charles H. 
              McIlwain ha dichiarato che la dottrina del laissez faire fu 
              "senz'altro una delle fantasie più stravaganti che abbiano mai 
              screditato la ragione umana". La sua applicazione agli affari 
              internazionali ebbe esiti catastrofici. Giunti a considerare la 
              violenza come il male assoluto e impossibilitati dai loro stessi 
              principi morali a farne uso quando le regole del gioco lo 
              rendevano necessario, i liberali combatterono le proprie battaglie 
              internazionali con le stesse armi utilizzate con successo contro 
              il nemico interno. Sradicate dal loro contesto politico e 
              trasferite nell'arena internazionale dove la violenza regna 
              sovrana, quelle armi divennero spade di legno, balocchi che davano 
              a politici bambini l'illusione di difendersi.
 
 La condanna liberale della guerra, tuttavia, è assoluta soltanto 
              sul piano etico e filosofico e in relazione all'obiettivo politico 
              ultimo. Nell'applicazione politica immediata, essa risulta valida 
              solo per quei conflitti che vanno contro o sono irrilevanti ai 
              fini liberali. Le guerre aristocratiche e totalitarie, dunque, 
              sono necessariamente da biasimare. Ma quando l'uso delle armi è 
              finalizzato a estendere i vantaggi del liberalismo a quei popoli 
              che ancora non ne usufruiscono ovvero a proteggere questi ultimi 
              da aggressioni tiranniche, il fine può giustificare i mezzi 
              altrimenti condannati. Le guerre per l'unificazione nazionale e 
              quelle contro i governi dispotici sono quindi legittime. La loro 
              legittimità deriva direttamente dalle premesse razionaliste della 
              filosofia politica liberale. Perché le due principali 
              manifestazioni di irrazionalità, trascinate dal feudalesimo 
              nell'era liberale, vengono eliminate quando popoli appartenenti 
              alla stessa nazione si liberano dalla dominazione straniera e ai 
              governi dispotici si sostituiscono governi democratici.
 
 "Nessuna pace può, o dovrebbe, durare" dichiarò Wilson nel 
              messaggio al Senato pronunciato il 22 gennaio 1917, "se non 
              riconosce e accetta il principio che i governi traggono i loro 
              legittimi poteri dal consenso dei governati, e che nessuno ha il 
              diritto di trasferire i popoli da un potentato all'altro come 
              fossero una proprietà". Richiamandosi ai "principi che sanciscono 
              il diritto all'autodeterminazione di tutte le nazioni sulla base 
              democratica di elezioni libere e non vincolate", il New York Times 
              del 7 giugno 1946 affermava: "Se tali principi venissero applicati 
              in Europa orientale come è avvenuto in Occidente e le questioni 
              legate alle frontiere fossero risolte attraverso la libera scelta 
              dei popoli coinvolti, molti dei problemi che oggi ostacolano la 
              pace si dissolverebbero". Quando tutte le nazioni saranno unite 
              sotto il proprio governo e tutti i governi saranno soggetti al 
              controllo democratico, la guerra avrà perduto la sua 
              giustificazione razionale e verrà vanificata dal predominio della 
              ragione, che impedirà in campo internazionale quei conflitti 
              sostanziali la cui soluzione richiederebbe una guerra e fornirà 
              gli strumenti attraverso i quali risolvere pacificamente le lotte 
              ancora in corso. La guerra per giungere all'unificazione nazionale 
              e "preparare il mondo alla democrazia" sarà allora, come Wilson 
              dichiarò nel messaggio al Congresso l'8 gennaio 1918, "la guerra 
              cruciale e conclusiva per la libertà dell'uomo", l'"ultima 
              guerra", la "guerra che porrà fine alla guerra".
 
 Alla luce di questa analisi, gli slogan wilsoniani si rivelano, 
              più che un abile strumento propagandistico, l'espressione di una 
              speranza escatologica profondamente radicata nelle fondamenta 
              della politica estera liberale. Questa stessa speranza 
              escatologica, basata sul medesimo processo intellettuale, permea 
              il concetto marxista di guerra rivoluzionaria che sopprimerà una 
              volta per tutte il conflitto di classe e la lotta internazionale 
              che da esso deriva. Quando il marxismo dimostra che il trionfo 
              universale del socialismo è uno dei presupposti per giungere a una 
              pace duratura, esso non fa altro che applicare le categorie 
              liberali alla politica internazionale. Se in linea di principio, 
              infatti, il socialismo si oppone alla guerra in quanto tale, nella 
              pratica politica tale opposizione risulta valida e viene messa in 
              atto solo nei riguardi delle guerre imperialiste del capitalismo. 
              La guerra socialista contro il capitalismo, al contrario, è 
              giustificata. Poiché quest'ultimo si è sostituito al governo 
              aristocratico come fonte di tutti i mali, la sua distruzione 
              universale rappresenta la neutralizzazione del male stesso.
 
 Mentre il liberalismo subordina la scomparsa della guerra 
              all'uniformità dei governi secondo il modello di nazionalismo 
              democratico, il marxismo collega la stessa speranza 
              all'accettazione universale del modello socialista. "Lo 
              sfruttamento di una nazione da parte di un'altra" proclama il 
              Manifesto comunista, "avrà fine quando verrà abolito lo 
              sfruttamento di un individuo da parte di un altro. Insieme 
              all'antagonismo tra le classi all'interno delle nazioni scomparirà 
              anche l'ostilità tra nazioni". L'idea stessa di rivoluzione 
              mondiale come scontro finale volto a porre fine a tutti i 
              conflitti - nazionali e internazionali - è, nella sua astrattezza 
              astorica, il perfetto corrispettivo delle guerre e delle 
              rivoluzioni nazionali e democratiche, il cui esito positivo 
              condurrà a una pace duratura.
 
 L'ideologia contro la politica
 
 La riluttanza a ingaggiare guerra per scopi diversi da quelli 
              previsti dal liberalismo non soltanto rivela quanto fosse 
              selettivo il pacifismo praticato nel periodo eroico, ma indica 
              inoltre il particolare approccio intellettuale nei confronti della 
              realtà politica che contraddistingue il liberalismo in tutte le 
              sue fasi storiche. Tale approccio discende direttamente 
              dall'erronea visione liberale degli affari esteri come fatto 
              essenzialmente razionale in cui la politica svolge il ruolo di una 
              malattia da curare attraverso la ragione. Per questo motivo, il 
              liberalismo può sposare solo obiettivi internazionali 
              giustificabili alla luce della ragione. Poiché la visione 
              razionalista della politica estera non corrisponde tuttavia alla 
              realtà politica, in cui il potere lotta contro il potere per la 
              sopravvivenza e la supremazia, l'approccio liberale alle questioni 
              internazionali è necessariamente di natura ideologica. Il 
              liberalismo esprime i propri obiettivi in campo internazionale non 
              in termini di politica della forza, cioè sulla base della realtà 
              internazionale, ma in accordo con le premesse razionaliste della 
              propria errata visione. Il programma liberale negli affari 
              internazionali risponde a un'ideologia razionalista della politica 
              estera.
 
 "Ciò che obietto al liberalismo" dichiarò Disraeli, "è di aver 
              introdotto nell'attività più pratica che ci sia - la politica - 
              idee filosofiche piuttosto che principi politici". Obiettivi 
              astratti soppiantano questioni concrete, criteri di verità eterna 
              prendono il posto di considerazioni politiche. Durante la crisi 
              etiopica, gli italiani combatterono per instaurare il nuovo impero 
              romano e gli inglesi invocarono l'articolo 16 dello statuto della 
              Società delle Nazioni. Nel corso della prima guerra mondiale, i 
              tedeschi lottarono per garantire alla Germania "un posto al sole" 
              e gli alleati si batterono per la democrazia, l'autodeterminazione 
              dei popoli e una pace duratura. La Germania e il Giappone 
              scatenarono la seconda guerra mondiale per dominare il mondo, 
              mentre i loro rivali democratici imbracciarono le armi per 
              instaurare un nuovo ordine sociale e una federazione di democrazie 
              e garantire "in tutto il mondo" le quattro libertà. Mentre l'Asse 
              combatteva guerre imperialistiche, i liberali si opponevano a 
              qualunque aggressione, indipendentemente da dove, da chi e contro 
              chi fosse lanciata. La nostra preoccupazione per la sorte della 
              democrazia nei Balcani alla fine della seconda guerra mondiale è 
              un altro esempio della tendenza liberale a lottare per slogan 
              astratti piuttosto che per interessi politici.
 
 La differenza tra obiettivi liberali e non liberali in campo 
              internazionale non si basa sul fatto che i primi sono ideologici e 
              i secondi no. L'aspetto ideologico accomuna entrambi, poiché gli 
              uomini sosterranno solo obiettivi politici che trovino, a loro 
              avviso, una giustificazione razionale e morale. Ma mentre concetti 
              politici non liberali quali "impero romano", "nuovo ordine", 
              "spazio vitale", "accerchiamento", "sicurezza nazionale", "ricchi 
              contro poveri" e così via sono direttamente riconducibili a 
              obiettivi politici concreti, concetti liberali come "sicurezza 
              collettiva", "democrazia", "autodeterminazione dei popoli", 
              "giustizia", "pace" sono astrazioni applicabili a qualsiasi 
              situazione politica. Questa distinzione produce conseguenze 
              pratiche di vasta portata. Gli obiettivi non liberali, frutto di 
              una situazione politica concreta, verranno necessariamente 
              sostituiti da altri non appena avranno adempiuto la loro funzione 
              politica temporanea; ciò li renderà relativamente immuni dal 
              rischio di trovarsi in contrasto con la realtà e di cadere dunque 
              in discredito.
 
 Le ideologie liberali, viceversa, per il loro stesso carattere di 
              astrattezza, generalità e presunta validità assoluta, sono 
              destinate a essere mantenute in vita anche dopo aver esaurito la 
              loro utilità politica e a essere sconfessate dalle realtà della 
              politica internazionale, per loro stessa natura concrete, 
              specifiche e relative a un tempo e a un luogo. La sicurezza 
              collettiva, la democrazia universale, una pace giusta e duratura, 
              sono obiettivi supremi e ideali in grado di ispirare i 
              comportamenti dell'uomo e di fornire criteri per giudicare l'etica 
              e la filosofia, ma non si prestano certamente a un'attuazione 
              completa e immediata attraverso l'azione politica. Tra concetti 
              astratti e realtà politica esisterà sempre un divario, che i 
              liberali sono convinti di poter colmare nell'immediato.
 
 La smentita di tale convinzione e l'improvvisa consapevolezza 
              della vera natura dell'ideologia liberale danno origine al 
              processo di "ridimensionamento" che ha corrotto il pensiero 
              liberale e ne ha paralizzato l'azione in campo internazionale. Il 
              riconoscimento che gli obiettivi, in apparenza politici, del 
              liberalismo non fossero attuabili attraverso un'azione politica 
              immediata generò diffidenza nei confronti di qualsiasi ideologia 
              politica. Poiché l'ideologia liberale non aveva mantenuto le 
              promesse e si era dimostrata mera "propaganda", nessuna ideologia 
              in campo internazionale poteva essere degna di fiducia. Poiché 
              inoltre gli obiettivi politici sono ancora largamente 
              razionalizzati alla luce dell'ideologia liberale, essi vengono per 
              questo condannati indipendentemente da una loro eventuale 
              giustificazione in termini di convenienza politica. Se il liberale 
              disilluso non combatteva per Cina, Etiopia, Cecoslovacchia, 
              Danzica e Gran Bretagna perché non credeva più nelle ideologie 
              liberali di sicurezza collettiva, democrazia universale e pace 
              giusta e duratura, il "buon" liberale combatteva per quei paesi 
              perché credeva ancora in quegli slogan. Parlando in termini 
              liberali, in realtà nessuno dei due era in grado di comprendere 
              che il vero problema non erano la Cina, l'Etiopia, la Gran 
              Bretagna o qualsiasi altro paese straniero, e neanche la sicurezza 
              collettiva, la democrazia universale, o la pace giusta e duratura 
              ma piuttosto l'influenza sugli interessi nazionali, espressa in 
              termini di politica della forza e di violenti cambiamenti nello 
              status territoriale di quei paesi. Per questa ragione, anche i 
              nemici di quegli slogan sono comunque vittime dell'errore 
              liberale; dal punto di vista intellettuale, essi rimangono 
              liberali perché riescono a pensare solo in termini liberali. E 
              tuttavia, mentre i delusi si rifiutavano di agire perché qualsiasi 
              azione non si sarebbe rivelata all'altezza degli ideali liberali, 
              il "buon" liberale agiva, anche se talvolta al momento sbagliato, 
              con i metodi sbagliati e sempre per le ragioni sbagliate.
 
 21 giugno 2002
 
 (da Ideazione 3-2002, maggio-giugno 2002, traduzione dall'inglese 
              di Marcella Mancini)
 
 
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