| Il coraggio della libertà di Alberto Mingardi
 
 Il brano che segue è un estratto dell'introduzione a "Il coraggio 
              della libertà. Saggi in onore di Sergio Ricossa", a cura di Enrico 
              Colombatto e Alberto Mingardi.
 
 Dedicare a Sergio Ricossa un volume che raccogliesse contributi di 
              amici ed estimatori, in occasione del suo settantacinquesimo 
              compleanno, è stato - quasi - un atto dovuto. Non si tratta però 
              di un omaggio formale, ossequiosamente confezionato secondo le 
              regole non scritte dell'accademia: semmai di un'iniziativa 
              spontanea, genuina. Nata col solo obiettivo di rendere un giusto 
              tributo a una persona che è stata tanto importante per il 
              liberalismo, e per i liberali, in Italia. Per molto tempo, dopo la 
              morte di Luigi Einaudi e la prematura scomparsa di Bruno Leoni, 
              Ricossa è stato l'unica voce autenticamente liberale (e quindi 
              anche "liberista") ad alzarsi in questo paese. Egli ha tenuto 
              accesa la fiaccola del liberalismo in un periodo per molti versi 
              oscuro, nel quale ben altre erano le idee dominanti e l'élite 
              culturale ostentava una presuntuosa indifferenza verso un pensiero 
              sbrigativamente liquidato come l'insostenibile eredità di certi 
              "economisti settecenteschi".
 
 Nato a Torino il 6 giugno 1927, Sergio Ricossa cresce in una 
              famiglia dai mezzi modesti, modestissimi. Per mantenersi agli 
              studi, lavora a tempo pieno durante gli anni dell'Università - 
              eppure sin da giovanissimo mostra una spiccata propensione 
              intellettuale: "forse oggi i giovani sono più precoci, ma ai miei 
              tempi è verso i diciott'anni che si sceglieva la propria 
              filosofia, la propria visione del mondo. Poi, maturando, c'era chi 
              la cambiava e chi come me si limitava ad affinarla. Probabilmente 
              dentro di noi esisteva una predisposizione, che si faceva chiara a 
              noi stessi con la maieutica di qualche maestro incontrato più o 
              meno per caso. Fui fortunato, di maestri ne ebbi subito almeno 
              tre: l'ultimo docente di economia all'istituto tecnico commerciale 
              (Francesco Palazzi Trivelli), il primo datore di lavoro (Augusto 
              Bargoni) e l'autore del primo libro non scolastico che lessi 
              (Arrigo Cajumi)". Altrettanto importante dell'insegnamento di 
              Palazzi Trivelli, risulta per la formazione di Ricossa la sua 
              stessa esperienza di vita. Come egli ha scritto in una pagina del 
              suo diario: "Il proprietario del magazzino di carbone è un 
              capitalista. Mio padre operaio è un proletario. I due sono 
              amiconi, niente lotta di classe, per la comune passione della 
              pesca. L'Internazionale dei pescatori. Vi sono, o Marx, più cose 
              in cielo e in terra di quante la tua filosofia possa immaginare". 
              E' di qui, da questo essere cresciuto fra i ranghi della "classe 
              oppressa" che viene quella radicata diffidenza verso il marxismo, 
              che in seguito caratterizzerà il pensiero dell'economista 
              torinese. Si tratta di una sorta di vaccino contro l'invidia di 
              classe, da una parte, e contro quel medesimo sentimento di colpa 
              sapientemente inoculato nella borghesia "sfruttatrice", 
              dall'altra. "Ecco perché non subisco il ricatto del socialismo. 
              Non ho sensi di colpa verso il proletariato".
 
 Ricossa diventa professore incaricato di politica economica e 
              finanziaria nel 1961 e nel 1962 l'incarico viene esteso a economia 
              politica I e II corso. Nel 1963 è "ternato" (assieme a Luigi 
              Spaventa e Veniero Del Punta) nel concorso per la cattedra di 
              politica economica e finanziaria nell'Università di Catania. 
              Preferisce aspettare un anno ed entrare in ruolo direttamente a 
              Torino. Qui una delle sue prime iniziative sarà il conferimento di 
              una laurea ad honorem a Jan Tinbergen (nel 1965), testimonianza di 
              un interesse maiuscolo per una tradizione di pensiero molto 
              diversa da quella cui approderà poi. Non a caso Ricossa è 
              all'epoca direttore di "Note econometriche", rivista sin dal nome 
              orientata ad un'economia dichiaratamente "matematizzata". E' 
              coordinatore delle ricerche presso il Centro Luigi Einaudi, e 
              gioca un ruolo importante nella nascita della rivista "Biblioteca 
              della libertà", oggi diretta da Angelo M. Petroni. E' di quegli 
              anni anche l'incontro - decisivo - con la Mont Pèlerin Society: 
              Ricossa viene introdotto a questa "internazionale dei liberali" da 
              Bruno Leoni e fa in tempo a partecipare al meeting di Torino nel 
              1961, quello in cui Luigi Einaudi tiene il suo ultimo discorso 
              prima di morire, di lì a pochi mesi. In quell'occasione, egli fa 
              parte del drappello di studiosi invitati da Einaudi a Dogliani, 
              per visitarne la casa e (soprattutto) la maestosa biblioteca (nel 
              gruppo, tra gli altri, Ludwig von Mises). L'esperienza di Ricossa 
              nella Mont Pèlerin Society è coronata dal suo ingresso nel Board 
              of Directors nel 1976 (presidente George Stigler), funzione che 
              abbandonerà nel 1982 cedendo il posto ad un altro italiano, 
              Antonio Martino (il quale sarà presidente del prestigioso cenacolo 
              nel biennio 1988-1990).
 
 La forte antipatia di Ricossa per il "feudo pubblico" risale, ad 
              ogni modo, ai suoi inizi come studioso: eppure è certo che si 
              declinava, allora, in modo molto diverso da quanto sarebbe 
              avvenuto poi. In quel periodo, Ricossa era saldamente inserito 
              nella tradizione neoclassica: al punto da paragonare la teoria 
              walrasiana dell'equilibrio generale all'equivalente, nell'universo 
              economico, di ciò che è la legge di Newton per l'universo fisico. 
              E se, come ha giustamente notato Enrico Colombatto, la stessa 
              visione neoclassica rappresenta un approccio ricossianamente "perfettista" 
              all'economia, è pacifico notare come la ricossiana "filosofia 
              dell'imperfezione" sia maturata ancor prima che in un serrato 
              confronto, proprio in una lunga frequentazione con il suo 
              obiettivo polemico. E' la pubblicazione de "La fine dell'economia" 
              che segna la definitiva adesione di Ricossa ai principi della 
              scuola austriaca dell'economia (nella convinzione che "la scuola 
              austriaca fornisce al liberismo il supporto filosofico più solido 
              che esso abbia mai avuto") e il distacco dalla concezione 
              neoclassica "perfettista". Si può sostenere che con questo libro 
              Ricossa completi il suo tragitto anticonformista ed eccentrico 
              rispetto al mainstream dell'economia: un'antipatia dichiarata 
              perlomeno da "I fuochisti della vaporiera", pamphlet polemicamente 
              indirizzato agli "economisti del consenso", che seguono le "mode 
              economiche".
 
 Già in quell'occasione, egli si scagliava contro "gli apostoli 
              della socialità", i quali "hanno talmente stancato con la loro 
              querula e ipocrita predicazione, o peggio con la loro sovversione 
              violenta, che il meno che si dovrebbe fare sarebbe di dire con 
              l'abate Galiani: "Tous plaident pour le Daily grand bien du 
              prochain. Pest soit du prochain. Il n'y a pas de prochain. Dites 
              ce qu'il vous faut; ou taisez-vous". Ma bisogna pazientare, e non 
              rassegnarsi. Concedere il minimo inevitabile al secolo "sociale". 
              Non concedere nulla, però, all'eurocomunismo, ultima e più 
              incalzante pescagione nel mare popolare. Tante mode sono passate; 
              chissà che non passi presto anche questa. Più pericolosa, eppur 
              curabile con l'unico e medesimo specifico per tutte le mode 
              passate, presenti e future: pensare con la propria testa". 
              Pensando con la propria testa, il professore torinese scrisse "La 
              fine dell'economia - che riprende ed amplifica quest'appello: 
              unendo la critica della socialità coatta al dileggio del "perfettismo". 
              Per "perfettismo", Ricossa intende "ogni dottrina che predichi un 
              regno mondano di perfezione, senza il dominio dell'economico"- un 
              movimento di pensiero che a conti fatti "domina nella nostra 
              cultura e costituisce una tradizione ininterrotta da Platone a 
              Keynes".
 
 Tuttavia, i limiti del perfettismo emergono immediatamente in un 
              rapido confronto con la realtà: "l'universo creato ha bisogno di 
              una spiegazione e giustificazione perché è già di per sé una 
              caduta nell'imperfetto. Infatti, se creato e mutevole, esso 
              implica il tempo e il cambiamento". Ecco perché anche 
              "l'equilibrio nel senso di Walras, un equilibrio generale di piena 
              occupazione, che si addice a un inesistente mercato di concorrenza 
              'perfetta', ma non alla realtà capitalistica" rientra nella 
              categoria del perfettismo. Caratteristica del perfettismo è negare 
              la natura delle cose, la sua è una lotta contro il reale: esso è 
              "contro l'economia", "contro il lavoro", "contro il denaro", 
              "contro la proprietà", "contro il commercio", "contro la 
              borghesia" (come recitano i titoli dei primi sei capitoli del 
              libro di Ricossa). Il perfettismo è socialista se, come ha 
              sottolineato Maffeo Pantaleoni, "gran parte del favore che il 
              socialismo trova è dovuta alla speranza che riesca a creare 
              condizioni più stabili, a burocratizzare la vita, ad assicurare 
              pensioni, a eliminare la rivoluzione perpetua che la concorrenza 
              produce in ogni situazione". Non a caso i socialisti, scrive 
              Ricossa, sognano "un mondo non troppo turbato dalle pazzie degli 
              inventori e dei tecnici".
 
 Per Ricossa, il soggetto dell'economia è l'uomo e l'uomo non è un 
              ente le cui azioni obbediscano inevitabilmente ai pretesi 
              equivalenti economici della legge di gravità. Questa prospettiva 
              potrebbe essere giudicata sbrigativamente come una visione 
              pessimistica dell'uomo (incapace di prevedere il proprio domani) 
              ed invece, esattamente all'opposto, è una visione esaltante 
              dell'esperienza umana. L'economia imperfettistica non è una 
              laicizzazione dell'idea di "piano della Provvidenza" ed anzi 
              riconosce l'uomo come faber fortunae suae, nei limiti impostigli 
              dall'esistenza dei suoi simili. Proprio per questo, l'avversario 
              teorico per antonomasia degli imperfettisti è John Maynard Keynes. 
              "L'obiettivo fondamentale di Keynes", infatti, è "liberare gli 
              uomini dalle necessità economiche (...) Non dobbiamo perdere di 
              vista il Keynes che si ispira al Vangelo di Matteo (VI, 24-34), 
              per proporre a modello gli uccelli dell'aria e i gigli dei campi, 
              i quali sono sfamati vestiti meglio di Salomone senza aver bisogno 
              di lavorare, posseder moneta, produrre, investire. 'Nella 
              repubblica ideale agli uomini sarebbe insegnato, ispirato e 
              consigliato di non interessarsi affatto alle poste del gioco' 
              (Teoria generale, libro sesto, cap. XXIV, par. I), ossia di non 
              badare al profitto, di non essere avidi".
 
 Il perfettismo di Keynes ha secondo Ricossa un "forte carattere 
              messianico e millenaristico". L'economista di Cambridge "non 
              mirava a risanare la congiuntura, mirava a instaurare un mondo 
              nuovo per una nuova umanità, mediante la fine dell'economia, la 
              fine delle scarsità, o quanto meno la fine della scarsità del 
              capitale". "La strada che conduce all'antico sogno di un mondo 
              senza egoismi, senza sfruttamenti, senza cupidità, passava per 
              Keynes attraverso la 'socializzazione' dell'investimento e la fine 
              della scarsità di capitale. Ma perché davvero si potesse sperare, 
              per un futuro prossimo, nella sovrabbondanza di capitale, 
              occorreva qualcosa di più di semplici interventi pubblici di 
              sostegno della domanda effettiva. Occorreva una economia resa 
              'quasi stazionaria' da un assai ridotto ritmo di innovazioni 
              tecnologiche e merceologiche. Se per contro queste innovazioni 
              fossero continuate frequentissime e ampie, mai il capitale sarebbe 
              bastato, la sua scarsità si sarebbe perpetuata, e l'interesse e il 
              profitto avrebbero mantenuto un gran peso fra i redditi".
 
 Viceversa, "il liberismo genuino non ha mai inteso promettere il 
              mercato in equilibrio: al contrario, gli ripugna la condizione di 
              stabilità implicita nell'equilibrio economico, perché la trova 
              innaturale, senza vita, senza libertà. La libertà cara al 
              liberismo è innanzi tutto libertà di innovare, e questo basta per 
              sconvolgere il mercato, la cui funzione è precisamente quella di 
              assicurare in tal modo il progresso tecnologico e merceologico, 
              nonché quello organizzativo. Il liberismo è favorevole al mercato 
              di concorrenza proprio perché intende il mercato come un sistema 
              per squilibrare di continuo l'economia, mediante proposte di nuovi 
              processi produttivi, nuovi prodotti e nuovi istituti economici". 
              L'imperfettismo, oltre che economico, è politico. Vi sono qui 
              alcuni elementi da sottolineare: il primo è che l'anti-perfettismo 
              è, in prima battuta, realismo. Si tratta di un fattore molto 
              importante: un liberalismo che voglia avere solide basi (come pure 
              una teoria economica che voglia avere solide basi) deve partire da 
              una antropologia realista. Come ha scritto Pascal Salin, "il 
              liberalismo è 'vero', nel senso che è fondato su una concezione 
              realistica dell'uomo e delle relazioni sociali".
 
 In secondo luogo, va rimarcato il fatto che a partire da questa 
              antropologia realista non può seguire una qualsiasi forma di 
              fiducia nei confronti dello Stato. Dalla constatazione che non 
              tutti gli uomini sono buoni (e che viceversa tutti gli uomini sono 
              esposti e sensibili alla tentazione), viene il corollario che, di 
              conseguenza, nessuno ci garantisce che coloro i quali si occupino 
              della "cosa pubblica" siano più buoni, o più saggi, degli altri. 
              "Il governo nel fatto è composto di persone che, essendo tutti 
              uomini, sono tutti fallibili" (Rosmini). "L'uomo politico non è di 
              razza superiore, più lungimirante e meno fallibile dell'uomo 
              comune" (Ricossa). Viceversa, sappiamo ormai che gli Stati moderni 
              sviluppano un intricato sistema di incentivi che giunge ad 
              indirizzare semmai personaggi di dubbia morale e nessuna qualità 
              verso il settore pubblico; che la possibilità di controllare il 
              proprio prossimo finisce per attrarre i personaggi più ambigui; 
              che la stessa natura del sistema democratico impone a coloro che 
              vi partecipano di sviluppare i propri peggiori istinti.
 
 Un perfettista pensa all'opposto: confida nella saggezza dei 
              governi e legge nel diritto una creazione delle maggioranze. E' lo 
              Stato l'istituzione preposta ad imporre la perfezione ad un mondo 
              imperfetto. La priorità dell'imperfettismo è la tutela e la 
              salvaguardia della persona, che è fondamento di ogni analisi 
              economica da un lato (l'imperfettismo è alla base 
              dell'individualismo metodologico), ed al tempo è termine di 
              paragone di ogni politica. Per questo, ogni ideale politico perde 
              la propria legittimità nel momento in cui esso utilizza una forma 
              di violenza, di coercizione, per affermarsi. Il fatto che esso si 
              sia affermato attraverso una votazione a maggioranza è di scarsa 
              importanza per l'imperfettista.
 
 Ricossa lo spiega molto bene trattando il tema dell'antisocialismo 
              di Maffeo Pantaleoni, che è "in negativo ciò che l'individualismo 
              è in positivo. E l'individualismo è offeso quando il cittadino è 
              trattato e sopporta di essere trattato da incurable imbécile ad 
              opera dei governanti. Il che avviene, per Pantaleoni, nella 
              democrazia in grado più o meno alto, e in grado massimo nella 
              democrazia totale, che per lui è il regime socialistico o, come 
              ama dire talvolta, il 'bolscevichismo'. Non solo Pareto, ma anche 
              Einaudi e ogni liberale fino a von Hayek e Popper hanno criticato 
              la democrazia, il mito della sovranità popolare, sebbene con 
              sfumature diverse". E' dunque l'iniziazione dell'uso della forza, 
              indipendentemente dal suo essere ammantata o meno di una 
              legittimazione "democratica", il punto critico. Attraverso la 
              democrazia si possono imporre leggi ingiuste: tant'è che nella 
              situazione contemporanea, in regime di welfare state, "non c'è più 
              la giustizia, c'è la non giustizia, c'è la mera volontà politica 
              di togliere agli individui la libertà, i diritti naturali, per 
              fornire ogni potere allo Stato". Come ha acutamente osservato 
              Anthony de Jasay, "le decisioni (collettive) cui si perviene 
              democraticamente risultano nel dominio sulle opzioni individuali e 
              nell'espansione del potere della scelta collettiva, non 
              diversamente dalla 'volontà arbitraria' di una dittatura".
 
 Anzi: "Mai la repressione politica è stata più pericolosa di 
              quella camuffata, 'buonista', e pseudo-democratica: di quella che 
              avviene sotto il manto del bene comune, dello Stato sociale, della 
              difesa dei deboli". Questo genere di considerazioni stona rispetto 
              alle coordinate di certo liberalismo contemporaneo, che si erge a 
              paladino non solo della democrazia, ma anche di una sostanziale 
              "democratizzazione" dell'economico (una trasformazione coatta, 
              cioè, del dinamico in statico, del disuguale in eguale, del 
              privato in statale). Di qui un problema terminologico che Ricossa 
              affronta sin dal 1977, nella prefazione alla fortunata raccolta di 
              saggi di Hayek, Scambio e democrazia: "Liberali o libertari? La 
              parola 'liberale' si è fatta equivoca per il troppo successo. 
              Tutti si dicono liberali: anche i cattolici, i socialisti, i 
              comunisti, o almeno gli eurocomunisti. Si definiscono liberali 
              progressisti, liberals alla americana, e si contrappongono ai 
              liberali conservatori (...) Nessuno vuole ammettere di rifiutare 
              quel bene primario, che è la libertà, e a essa si paga volentieri 
              un omaggio verbale. Per accrescere la confusione, esistono dei 
              partiti liberali con oscillanti intenzioni politiche. Chi intende 
              identificare nettamente il gruppo di Hayek, accantoni il vocabolo 
              'liberale'. 'Libertario' va meglio".
 
 Al professore torinese poco importa dell'accusa, sovente rivolta 
              all'anarchismo individualista, di essere "impraticabile" e niente 
              affatto pragmatico. Tale accusa non scalfisce l'anarchico, perché, 
              scrive Ricossa delineando la posizione dei libertari, "noi non 
              siamo al governo e mai ci saremo. Siamo contro il potere politico, 
              ogni potere politico. Non abbiamo un governo-ombra, non abbiamo un 
              programma di governo alternativo. Noi abbaiamo contro ogni 
              governo". Ricossa non è nemmeno tentato dalla possibilità di fare 
              uso di mezzi politici per raggiungere i propri fini. "A noi 
              (libertari) basta salvarci l'anima, essere schierati per la 
              libertà a oltranza, avere indicato inequivocabilmente i nemici 
              eterni della libertà. Noi non chiediamo altro che ciò che è già 
              nostro ab origine: essere noi responsabili della nostra vita, 
              disporre noi dei frutti del nostro lavoro, consociarci come 
              vogliamo e di comune accordo col nostro prossimo". Quanto allo 
              Stato, nelle parole di Pascal Salin "lo Stato non può avere un 
              ruolo legittimo, in quanto, molto semplicemente, lo Stato si 
              definisce come il manipolatore della costrizione organizzata e la 
              costrizione è ai nostri occhi illegittima".
 
 Inoltre, ha sicuramente ragione Hans-Hermann Hoppe quando 
              evidenzia come, "una volta che la premessa del governo è stata 
              accettata, i liberali sono rimasti senza argomenti quando i 
              socialisti hanno sviluppato questa premessa fino al suo logico 
              fine. Se il monopolio è giusto, allora anche una maggiore 
              tassazione è giusta, e quindi giustificata, se la tassazione è 
              giusta, allora la centralizzazione è giusta. E se l'uguaglianza 
              democratica è giusta, allora espropriare diritti personali di 
              proprietà è cosa giusta (mentre non è giusta la proprietà 
              privata)". Insomma, l'adesione, quand'anche parziale, al paradigma 
              dello Stato scivola nell'accettazione di ogni proposta volta ad 
              ampliarne la sfera. Stabilire una chiara linea di demarcazione che 
              divida Stato minimo (liberale) e Stato massimo (illiberale) 
              diventa impossibile, nel momento in cui le premesse dello Stato 
              minimo collassano: anche uno Stato volto alla mera tutela dei 
              diritti di proprietà, per funzionare da "agenzia di protezione" ha 
              bisogno di risorse. Uno Stato è Stato (e non semplicemente 
              un'impresa privata) proprio perché ottiene le risorse di cui 
              dispone attraverso la tassazione - cioè infrangendo quei diritti 
              di proprietà che dovrebbe proteggere, derubando quegli individui 
              che dovrebbe preservare dal furto. Non solo: anche ammettendo che 
              vi sia un "minimo" di tassazione che i cittadini sarebbero 
              disposti ad accettare volontariamente (all'unanimità), è perlomeno 
              irrealistico pensare che i politici (per i quali aumentare la 
              sfera d'influenza dello Stato significa aumentare la propria sfera 
              d'influenza) non cederebbero alla tentazione di far lievitare il 
              proprio potere. Lo Stato minimo, e dunque lo stesso liberalismo 
              classico, si rivelano utopici e perfettisti: convinti, in 
              particolar modo, che ai politici dello Stato minimo (e chissà 
              perché non anche ai politici dello Stato massimo) "spuntino le ali 
              da angelo". Convinti della perfezione dei propri strumenti di 
              ingegneria costituzionale per contenere il potere (a dispetto 
              dell'evidenza storica).
 
 Sergio Ricossa è un uomo che, alle soglie dei settant'anni, ha 
              avuto il coraggio di rimettersi in gioco, di abbandonare posizioni 
              consolidate, per abbracciare la teoria libertaria. A inizio 
              secolo, l'economista Irving Fisher aveva ricordato la singolare 
              profezia del suo antico maestro, William Graham Sumner: "arriverà 
              un tempo in cui vi saranno due grandi classi, i socialisti e gli 
              anarchici. Gli anarchici vogliono che il governo sia nulla, ed i 
              socialisti vogliono che il governo sia tutto. Bene, arriverà un 
              tempo in cui ci saranno soltanto questi due grandi partiti, gli 
              anarchici che rappresenteranno la dottrina del laissez faire, e i 
              socialisti che incarneranno la visione estremista sull'altro lato 
              della barricata". Sumner puntualizzava poi che "allora io sono un 
              anarchico", e questo aneddoto si ritaglia alla perfezione addosso 
              a Sergio Ricossa. Che, vivendo in quello scorcio di storia che ha 
              visto assieme il trionfo dello Stato e la sua crisi, l'epoca in 
              cui "la democrazia celebra il culto dell'umanità su una piramide 
              di crani" (Gómez Dávila), non può non avvertire come un 
              insostenibile compromesso una dottrina che tenti di coniugare 
              liberalismo e statualità, annullando nella seconda il primo. La 
              vera contrapposizione, se pure visibile solo in controluce, è 
              quella enunciata da Sumner: da una parte, quanti ammettono la 
              legittimità dello Stato (e dunque si scoprono, come ricordato da 
              Hoppe, incapaci di opporsi alla sua espansione) e dall'altra 
              coloro che invece la negano. L'ultimo Ricossa rientra 
              orgogliosamente nella seconda categoria.
 
 13 settembre 2002
 
 Il coraggio della libertà. Saggi in onore di Sergio Ricossa, a 
              cura di Enrico Colombatto e Alberto Mingardi, Soveria Mannelli, 
              Rubbettino, 2002, pp. 578, € 30.
 
 amingardi@email.it
 
 
 Per una panoramica sul pensiero di Sergio Ricossa:
 
 1966
 S. Ricossa, "L'economista ispirato", presentazione di L. Lenti, 
              Torino, Edizioni dell'Albero.
 
 1977
 S. Ricossa, "Prefazione a Hayek, Scambio e democrazia", Milano, 
              Edizioni dello Scorpione.
 
 1980
 S. Ricossa, "Straborghese", Milano, Editoriale Nuova.
 
 1986
 S. Ricossa, "La fine dell'economia. Saggio sulla perfezione", 
              Milano, SugarCo.
 
 1988
 S. Ricossa, "Concentrazione economica, legislazione antimonopolio, 
              trasparenza dell'informazione", Milano, Giuffré .
 
 1991
 S. Ricossa, "Cento trame di classici dell'economia", Milano, 
              Rizzoli.
 
 1991
 S. Ricossa, voce "Capitalismo" in Enciclopedia delle scienze 
              sociali vol. I, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana.
 
 1993
 S. Ricossa, "I pericoli della solidarietà. Epistole sul dosaggio 
              di una virtù", Milano, Rizzoli.
 
 1994
 S. Ricossa, "Impariamo l'economia", Milano, Biblioteca Universale 
              Rizzoli.
 
 1994
 S. Ricossa, Introduzione a Bastiat e De Molinari, Contro lo 
              statalismo, a cura di C. Lottieri, Macerata, Liberilibri.
 
 1995
 S. Ricossa, "Come si manda in rovina un Paese. Cinquant'anni di 
              malaeconomia", Milano, Rizzoli.
 
 1996
 S. Ricossa, "Maledetti economisti. Le idiozie di una scienza 
              inesistente", Milano, Rizzoli.
 
 1997
 S. Ricossa, "Dov'è la scienza nell'economia?", Roma: Di Renzo 
              Editore.
 
 1998
 S. Ricossa, "Dizionario di economia. Terza edizione aggiornata e 
              ampliata", Torino: Utet.
 
 1998
 S. Ricossa, "Elogio della cattiveria", Torino, Cidas.
 
 1999
 S. Ricossa, "Da liberale a libertario. Cronache di una 
              conversione", a cura di A. Mingardi, Treviglio: Leonardo Facco 
              Editore.
 
 1999
 S. Ricossa, "Scrivi che ti passa", con prefazione di I. Montanelli, 
              Torino: Fògola.
 
 
 
 
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