| Considerazioni sul realismo politico di Gianfranco Miglio
 
 Il realismo è un tratto necessario della politologia. Se il 
              politologo opera poi nella condizione tipica italiana, il realismo 
              si presenta come ancor più necessario, perché tutte le 
              motivazioniideologiche, addirittura religiose e comunque derivanti 
              da altri settori del sapere, cedono di fronte al realismo degli 
              italiani i quali, quando accettano di essere governati, lo fanno 
              per fini particolari. Questi ultimi, che poi sono riconducibili a 
              vantaggi personali privati, dei quali i singoli fruiscono, vengono 
              spinti all'eccesso nel caso italiano. Nessun Paese probabilmente, 
              tolti quelli ovviamente in fase arretrata di sviluppo politico ed 
              economico, si presenta come il caso-limite italiano. Di questo mi 
              sono accorto occupandomi dei problemi inerenti lo Stato moderno e 
              le modifiche della sua struttura: mi sono infatti accorto che 
              tutti i tentativi compiuti per modificarne l'apparato urtano in 
              questo paese con questa vocazione degli italiani al realismo, cioè 
              a tradurre in concreto i vantaggi, per cui di fronte ad ogni 
              proposta di riforma delle istituzioni si domandano subito come e 
              per quali vie potrebbero ottenere un loro tornaconto personale.
 
 Questo è il quadro nel quale mi sono mosso ad esempio a partire 
              dall'esperienza del Gruppo di Milano nel campo delle riforme 
              istituzionali. Quel lavoro, destinato per questo a fallire e a 
              risultare superato, era basato infatti sul presupposto di una 
              visione europea dello Stato, non legata cioè alla predominanza 
              dell'interesse individuale. D'altra parte è da Guicciardini in poi 
              che sappiamo quanto sia dominante e determinante in Italia il 
              particulare. In tal modo ho accettato che il realismo 
              "antropologico" degli italiani diventasse la condizione 
              fondamentale del realismo del politologo, il quale deve esser 
              realista in quanto deve tener conto delle motivazioni della gente, 
              che possono essere alla base del fallimento di qualsiasi 
              riformismo. Il realismo è qualcosa di diverso e di opposto 
              rispetto al conservatorismo. Quest'ultimo corrisponde ad una 
              posizione comoda, semplicistica. Paradossalmente il 
              conservatorismo non è che utopismo. Non tiene conto del fatto che 
              tutti i regimi passano storicamente e che non esiste, come ha 
              insegnato uno dei più grandi realisti, Gabriel Naudé, un regime 
              che duri indefinitamente. Il conservatore cerca di congelare i 
              problemi, anche quelli in fieri, in trasformazione (come ad 
              esempio la trasformazione oggi in atto del regime parlamentare o 
              le più macroscopiche trasformazioni del modello dello Stato 
              moderno) e di non riconoscerli. Non è minimamente interessato alla 
              realtà effettuale, allo studio scientifico del mutamento politico 
              e alla sua previsione. Il conservatorismo è l'opposto del 
              realismo: da un lato si rifiuta di prendere atto delle 
              trasformazioni profonde della realtà e dall'altro, quando intuisce 
              la loro presenza e la loro pericolosità per le proprie posizioni 
              di vantaggio personale, resiste al cambiamento. Con il 
              conservatorismo ho dovuto fare i conti all'epoca del Gruppo di 
              Milano e poi in Parlamento. I conservatori di questo attuale 
              regime politico, coloro che non vogliono cambiare nulla e che 
              resistono alle trasformazioni, mi guardano come un guastafeste, 
              perché metto in crisi una quantità di certezze che non hanno 
              fondamento, così come la loro stessa visione conservatrice. Per il 
              realista è indispensabile l'attenzione per la realtà effettuale 
              dei comportamenti politici, senza indulgere ai valori e 
              liberandosi, in un processo costante e ininterrotto, dalle 
              interferenze valoriali che inquinano l'indagine e la previsione.
 
 Scienza e politica
 
 Nel mio realismo ha avuto un ruolo importante il rapporto con le 
              scienze della natura, che può venir scambiato erroneamente, come 
              qualcuno ha fatto, per conservatorismo. Lo studio delle regolarità 
              della politica e la consapevolezza della loro immutabilità non fa 
              però parte del bagaglio del conservatore, il quale ad esse è 
              indifferente, confida in valori immobilizzati una volta per tutte 
              e di fatto è un utopista in merito alla politica e alle sue 
              regolarità. La differenza fra il realista e il conservatore 
              infatti è che il primo si attende il permanere della sostanza 
              sotto il mutare delle forme (i "residui" di Pareto), mentre il 
              secondo vorrebbe impedire il cambiamento delle forme stesse. Nella 
              maggior parte della politologia, in particolare italiana, questo 
              rapporto con le scienze di confine fra la biologia e la politica è 
              stato misconosciuto. Ma oggi lo sviluppo della genetica sta 
              confermando che quella via d'indagine era indispensabile ed 
              estremamente produttiva di conoscenza scientifica. Quando Edward 
              Wilson prevedeva negli anni Sessanta la possibilità di conoscere 
              la struttura limbico-ipotalamica, i meccanismi genetici e di 
              spiegare per questa via molta parte del comportamento politico, 
              non si aspettava una crescita della conoscenza tanto rapida in 
              questo campo. La genetica oggi consente di risolvere problemi che 
              erano già maturi per la soluzione. Il realismo deriva soprattutto 
              dal naturalismo scientifico.
 
 Ho studiato molto e per anni i naturalisti capaci di muoversi sul 
              territorio di confine fra aspetti biologici, zoologici e 
              meccanismi profondi della politica individuabili mediante le 
              tradizionali discipline storico-sociali: i sociobiologi, gli 
              esponenti della ricerca nell'etologia animale e umana (Konrad 
              Lorenz ricevette nella facoltà della quale sono stato preside per 
              trent'anni la laurea honoris causa) e tutti quegli scienziati che 
              hanno dato, con libri aurei, un contributo fondamentale ed 
              essenziale per la crescita della conoscenza realista della 
              politica. Si pensi agli studi che hanno illuminato un'intera 
              faccia del prisma complesso del fenomeno guerra: da Lorenz a 
              Eibl-Eibesfeldt, da Wilson a Frans de Waal. Così come a quegli 
              studi che mettono in rilievo il collegamento profondo frapolitica 
              e biologia (Ardrey, Tiger, Fox) e, ancora, fra dimensione 
              psicologica, comportamento e regolarità di funzionamento nelle 
              relazioni internazionali, con analogie impressionanti fra i gruppi 
              di primati e le aggregazioni umane in comportamenti come quelli di 
              alleanza, di conflitto, di pacificazione. Alcuni comportamenti 
              corrispondono in pieno alla descrizione della realtà effettuale 
              lasciataci da Machiavelli... Sono tutti studi che sono stati 
              ignorati dalla politologia italiana, in questo suo atteggiamento 
              sì arroccata in un conservatorismo di comodo. Politologi di 
              rispetto che non se ne occupino, perdono un nesso fondamentale e 
              di crescita della conoscenza nel campo della politica. L'impatto 
              che le scoperte effettuate nel campo delle discipline 
              naturalistiche esercitano sulle ideologie (si pensi ad esempio al 
              rapporto fra etica, comportamento politico e natura in Wilson) e 
              sulle istituzioni è infatti decisivo. L'esplorazione dei processi 
              fisiologici consente di procedere su un terreno molto più solido 
              per l'individuazione delle regolarità alle quali obbedisce il 
              comportamento politico dell'animale-uomo.
 
 Indubbiamente la politica, come ha insegnato Machiavelli, è 
              qualcosa di indipendente dall'etica. Io non mi sono mai posto il 
              problema di questo nesso, come invece ha fatto gran parte del 
              pensiero politico. Questo però non significa che il politologo non 
              debba tener conto di tutte le altre discipline che possono offrire 
              una chiarificazione nel campo dello studio scientifico della 
              politica. Si pensi ad esempio alla paleontologia, ai problemi che 
              solleva in termini di studio del comportamento politico. Io stesso 
              ho compiuto studi sul comportamento dell'uomo primitivo nella fase 
              neolitica, alla ricerca delle forme elementari di politica. Il 
              politologo non può ignorare questi ambiti, altrimenti si confina 
              nella filosofia della politica, ad un approccio che io per anni ho 
              combattuto strenuamente e che si limita all'interpretazione dei 
              valori inseriti nella politica e alla considerazione della 
              politica come gestione di questi valori. La mia impostazione 
              realista ha sempre astratto dalle posizioni di valore. Avere 
              considerazione per i valori significa negare il realismo politico, 
              che implica l'astrazione dai valori (ad esempio i più estremi, 
              come "libertà" ecc.): guai se le scelte valoriali vengono inserite 
              nello studio scientifico della politica. Domandarsi ad esempio in 
              rapporto all'assolutismo quali valori entrassero nella gestione di 
              governo non spiega nulla. Nel periodo medievale invece, certo la 
              politica era asservita ai valori e in particolare a quelli 
              religiosi. Un Machiavelli non sarebbe nemmeno apparso in quell'epoca. 
              Il processo progressivo di laicizzazione rappresenta una 
              successiva liberazione dai condizionamenti di valore ed è 
              proceduto parallelamente alla critica a livello 
              empirico-conoscitivo (scientifico), che ha distrutto le basi di 
              tutti i valori politici inventati e utilizzati nel corso del 
              processo storico.
 
 Storia e politica
 
 La storia rappresenta il laboratorio di verifica del politologo 
              per il contatto con il problema della storia delle istituzioni 
              politiche, che però è in continua evoluzione e che non va 
              confinata a quella descritta dai grandi manuali divenuti ormai 
              classici (come ad esempio quello di Jacques Ellul, che io stesso 
              adottavo all'università); anche questi grandi manuali danno una 
              visione di comodo, spesso conservatrice, mentre l'indagine storica 
              seria porta continuamente a destabilizzare le vedute date per 
              scontate, ad esempio in rapporto allo Stato moderno. Lo storico 
              delle istituzioni che pone dei punti fissi, fermi, per poi 
              costruire le sue ipotesi, finisce per essere tagliato fuori dalla 
              realtà dell'evoluzione della politica e di rimanere 
              irrimediabilmente indietro. Anche in questo campo l'indagine non è 
              che innovazione continua. L'interpretazione storica serve per 
              capire come evolvono le istituzioni, al di là del conservatorismo 
              e dell'immobilismo, che fossilizza punti di vista che erano veri 
              fino a ieri e che oggi non lo sono più, come ad esempio i principi 
              dello Jus Publicum Europaeum, le sofisticate creazioni concettuali 
              e mitologiche del Diritto pubblico con le quali si è cercato di 
              nobilitare la dura, spesso prosaica e comunque inconfessabile, 
              realtà della politica. Il costituzionalista che studia il sistema 
              parlamentare è certo che deve farvi riferimento, così come a tutta 
              una serie di strumenti che gli fornisce il Diritto pubblico, ma 
              non certo considerarli, per trovare il punto di connessione con la 
              realtà, come assoluti, perché nel momento in cui compie questo 
              passo, sono già superati, cioè non sono più "veri". La 
              consapevolezza di un certo sistema istituzionale avviene inoltre 
              quando esso ha compiuto il suo arco di vita. Così per esempio noi 
              riusciremo a capire il segreto del regime parlamentare solo quando 
              quest'ultimo sarà uscito definitivamente dalla scena storica.
 
 Il realista è poi molto attento all'uomo politico dotato per 
              gestire il potere. Da Machiavelli in poi questa è una costante. Ma 
              Machiavelli era anche colui che scriveva in volgare svelando al 
              popolo, al volgo, gli arcana della gestione del potere. Queste due 
              facce sono pertanto speculari. Il problema del secondo aspetto (un 
              lavoro del politologo "dal basso", dalla parte del popolo, come 
              dice Bobbio) è però dato dal fatto che spiegare il significato di 
              una politica realista e della lotta per il potere al volgo si 
              scontra con il dato di fatto che il popolo nella sua stragrande 
              maggioranza non ne capisce niente, come del resto lo stesso 
              Machiavelli ha sottolineato. Pertanto anche questa posizione del 
              politologo ha poco senso. Certo, se guardo alla mia esperienza 
              professionale di politologo alla ricerca di qualcuno che in questo 
              Paese possedesse le capacità del vero leader politico, devo 
              riconoscere un totale fallimento, ma non per aver avuto la vista 
              corta, bensì semplicemente per l'assoluta assenza di uomini di 
              questo tipo e per la preminenza di personale politico incline a 
              godere esclusivamente e "guicciardinianamente" dei vantaggi 
              personali e materiali del potere, totalmente privo di lungimiranza 
              e di coraggio, conservatore e disinteressato alle riforme del 
              sistema politico. Così è stato con Cefis (esperto solo di finanza 
              e incline a tutelare le sue sostanze), per Craxi (nei confronti 
              del quale mi sono subito accorto che non tollerava nemmeno 
              discorsi sulle riforme costituzionali...), ecc. Questo è coinciso, 
              sull'altro versante (quello del "volgo"), con una prevalenza 
              assoluta di atteggiamenti inclini, come dicevo sopra, a vedere 
              soddisfatte esigenze banali, immediate, vantaggi materiali del 
              potere, derivanti dall'essere nel codazzo di qualcuno che"conta". 
              Così il realista deve riconoscere che questo è anche il Paese 
              peggiore nel quale tentare le riforme e non scommetterebbe nulla 
              sull'avvenire del popolo italiano, ormai narcotizzato, incapace di 
              rispondere a sollecitazioni e rivelazioni di informazioni di tipo 
              machiavellico, sebbene onori continuamente Machiavelli 
              inconsapevolmente, senza conoscerlo. La mia rimane una visione 
              "aristocratica" della politica.
 
 Per quanto concerne la coerenza della mia prospettiva realista, 
              occorre comprendere il nesso che esiste tra la mia impostazione 
              neo-federale e la mia analisi, appunto realista e scientifica, 
              della crisi dello Stato moderno. L'attenzione che in anni recenti 
              ho dedicato al governo direttoriale nell'ambito della mia 
              riflessione sul federalismo è derivata, del tutto 
              conseguentemente, dal rilievo che ho assegnato al problema delle 
              oligarchie ed alla crisi dei sistemi parlamentari. Non c'è stata 
              dunque alcuna frattura, come alcuni credono, nel mio realismo 
              politico. L'impostazione neo-federale coincide con la 
              constatazione del tramonto dello Stato moderno e la crisi delle 
              democrazie, particolarmente di quelle a regime "parlamentare 
              integrale". L'Europa delle città libere possedeva strutture 
              necessariamente ridotte di autorità e, per quanto oligarchiche, 
              costantemente sottoposte al consenso. Questa eredità è stata 
              sviluppata nel sistema elvetico: si pensi al Consiglio federale e 
              al sistema dell'approvazione popolare delle politiche. Le 
              strutture oligarchiche delle città non erano affatto autoritarie. 
              Anche nelle città più strutturate c'erano e contavano le 
              rappresentanze di ceto, così come la fiscalità non era 
              indiscriminata e assoluta come nell'ultima fase, quella attuale, 
              dello Stato moderno. La fase dello Ständestaat è fondamentale per 
              la comprensione del tramonto dei regimi parlamentari e per me ha 
              sempre costituito un oggetto di studio fondamentale. Va riletta 
              tutta la storia dello Stato moderno e dei regimi parlamentari. In 
              una parte della politologia, ad esempio in Sartori, c'è l'idea che 
              il regime parlamentare sia alternativo solo alle dittature, invece 
              i regimi parlamentari hanno una loro evoluzione che è indipendente 
              dalla componente dittatoriale e corrisponde all'evoluzione della 
              vocazione oligarchica, presente ancora nello Ständestaat. Fra la 
              democrazia e la dittatura noi dobbiamo collocare l'oligarchia. Io 
              sono convinto che lo studio delle istituzioni è soprattutto studio 
              del modo di apparire e di evolversi dell'oligarchia. Non si tratta 
              invece dell'alternativa fra democrazia e dittatura. Si tratta di 
              un'impostazione diversa rispetto anche a quella della maggioranza 
              dei costituzionalisti europei, che ritiene di seguire le ultime 
              fasi del regime parlamentare come le fasi di un regime che 
              sopravvive a se stesso e che invece sta tramontando.
 
 Nel modello direttoriale, che racchiude la quintessenza del 
              problema oligarchico e che io sostengo, in realtà non viene meno 
              l'idea del "decisionismo" che prevaleva in alcune mie opere di 
              impostazione più coerente con la logica dello Stato moderno. Non 
              c'è contraddizione, ma un nesso evidente fra quel tipo di 
              "decisionismo" (che si potrebbe definire ancora in senso lato 
              "statalista") e quello di impostazione neo-federale. L'esigenza 
              decisionale è connaturata alla politica. Conservatore è colui che 
              non decide. Ma nel sistema direttoriale le decisioni sono prese in 
              maniera molto diversa rispetto a come vengono prese nei sistemi 
              vigenti. Ad esempio il Consiglio dei ministri (l'importanza del 
              premier era stata ad esempio assunta dal Gruppo di Milano) 
              funziona in modo confuso, ed è costretto a mediare fra interessi 
              particolari. Un presidente del Consiglio non può prendere 
              decisioni di governo in un modo efficace come in un sistema 
              direttoriale, magari alla testa di sette membri. Qui la decisione 
              diventa naturale. Io ho studiato a fondo il modo di governare 
              all'interno del Direttorio, in cui sono sempre uno o due membri a 
              prevalere, per la loro capacità personale che emerge nell'unità 
              del Direttorio stesso in rapporto alla decisione. Il Parlamento è 
              l'esatto contrario della decisione e il Consiglio dei ministri è 
              l'espressione più tipica del sistema parlamentare.
 
 Tutta la tradizione costituzionale dal Seicento in poi è stata 
              basata su una visione semplicistica della politica, coerente con 
              la struttura dello Stato moderno. Il federalismo avanza 
              parallelamente alla crisi di quest'ultimo e travolge le 
              impostazioni semplici che maturarono soprattutto nel XIX secolo. 
              Oggi va tenuto conto anche della vasta letteratura, prodotta 
              soprattutto in ambito anglosassone, che svela la vera natura dello 
              Stato moderno e quindi le ragioni della sua crisi. L'intera 
              dottrina dello Stato moderno sta vertiginosamente traballando. 
              Prima la sua visione era molto semplice, basata su riduzioni 
              estremamente semplificate (la sovranità come evoluzione dal 
              concetto di majestas, la sua efficacia ecc.: si pensi alla 
              semplificata concezione di Cardin Le Bret e ai grandi trattati 
              successivi di Diritto pubblico), mentre oggi si rivela la vera 
              natura della fiscalità, dei sistemi parlamentari, delle strutture 
              portanti dello Stato moderno, la vera storia del quale appare 
              sempre più chiara. Problemi che erano stati dimenticati riemergono 
              e vanno ripresi e indagati in chiave realistica. Del resto quella 
              in cui viviamo è un'era di affermazione del realismo politico. Per 
              gli ideologi e gli individui fortemente ideologizzati la vita è 
              sempre più grama e questo perché il pendolo della storia inclina 
              verso una depoliticizzazione della società. Certo, il realismo è 
              una posizione scomoda. I grandi realisti della politica sono 
              sempre stati personaggi scomodi, irritanti, perché svelano la vera 
              natura delle ideologie, creando seri problemi per coloro che le 
              producono e cercano di accreditarle servendosi di finzioni, 
              aspetti che contraddicono la realtà della politica, formule di 
              legittimazione del potere.
 
 27 settembre 2002
 
 (da Ideazione 5-2002, settembre-ottobre. Trascrizione a cura di 
              Alessandro Vitale e Alessandro Campi, non rivista dall'autore).
 
 
 
 
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