| Alle radici della politica di Alessandro Vitale
 
 Cercare di delineare la figura umana e scientifica di Gianfranco 
              Miglio in poche righe è un'impresa ardua, forse impossibile. Egli 
              infatti è stato uno studioso che non solo ha percorso vastissimi e 
              spesso deserti continenti di ricerca ed esplorato praticamente 
              tutte le dimensioni nelle quali si esplica il fenomeno politico, 
              ma che ha anche vissuto fasi di attività scientifica alterne e 
              all'apparenza poco conciliabili fra loro. Inoltre, la 
              partecipazione diretta all'abortita riforma costituzionale di un 
              Paese refrattario ai cambiamenti, con una netta presa di posizione 
              in favore di una soluzione radicale come quella federale 
              (autentica), rende la figura ancora più complessa, per il 
              sovrapporsi di piani e di dimensioni che sembrano distinte e poco 
              coerenti. Per non parlare di quanto spazio occorrerebbe per 
              affrontare i miti e gli innumerevoli luoghi comuni 
              cristallizzatisi sulla sua figura nel corso dell'ultimo decennio. 
              Quello che è certo è che Miglio è stato uno dei maggiori 
              scienziati della politica, conoscitori di istituzioni e di teoria 
              costituzionale che questo Paese abbia avuto. Il suo lungo percorso 
              scientifico però rimane ancora inesplorato, una strada non ancora 
              battuta, disseminata di ricerche, di scritti frammentari e 
              incompiuti, di lezioni universitarie, interventi, folgoranti messe 
              a punto e precisazioni, scritte di suo pugno o risultanti da 
              innumerevoli interviste che spesso, per la loro portata innovativa 
              e per il rovesciamento che provocano di abitudini mentali o di 
              interi castelli concettuali e teorici senza fondamenta ma dati per 
              scontati, si rivelano più importanti di quanto non lo siano intere 
              parti delle sue più antiche e organiche ricerche.
 
 L'opera di Gianfranco Miglio è una miniera inesauribile di 
              conoscenza sulla politica e sulle sue "regolarità", sullo Stato 
              moderno, la sua ideologia e la sua realtà, così come di intuizioni 
              illuminanti spesso non sviluppate fino in fondo, in campi molto 
              eterogenei, lasciate in sospeso in vista di uno studio 
              approfondito e documentato, ma che aprono subito la vista su 
              sterminati orizzonti conoscitivi. Nonostante la relativa esiguità 
              numerica dei volumi che portano il suo nome (dovuta alla sua 
              ferrea onestà intellettuale, al suo distaccarsi continuamente 
              dalla pagina per limare il pensiero e al fatto che scriveva solo 
              dopo aver raccolto una quantità sterminata di dati capaci di 
              comprovare le sue "ipotesi di regolarità"), la ricchezza 
              sterminata del lavoro di Miglio nel campo della ricerca sulla 
              politica e sui suoi meccanismi, affiora in tutta la sua portata 
              primariamente da una lettura fra le righe, dagli spazi bianchi, da 
              tutte quelle cose lasciate intuire e intravedere a chi ne sviluppi 
              l'andamento logico e il lavoro di conferma empirica, che 
              immancabilmente porta anche il più scettico a dover constatare la 
              verità e l'effettiva manifestazione nella realtà dei fatti di 
              quanto si ritrova descritto o previsto nell'opera dello studioso. 
              Non è un caso se le sue ricerche più brevi e più concise si 
              rivelino le più folgoranti e innovative, quelle che riescono a 
              penetrare più a fondo nel nucleo di un problema scientifico. Come 
              se lo sguardo dello studioso fosse stato dotato di una capacità 
              quasi inspiegabile, se non con i lunghi anni di studio nei campi 
              più disparati ed eterogenei e un'intelligenza acutissima capace di 
              operare collegamenti e scoperte, di vedere dietro i paraventi, 
              spesso durissimi e impenetrabili, dei quali la realtà della 
              politica si serve per rendersi insondabile.
 
 Gianfranco Miglio ha svolto tutta la sua carriera accademica 
              presso l'Università Cattolica di Milano, nella quale, entratovi da 
              laico per le sue brillanti qualità scientifiche, è stato preside 
              della facoltà di Scienze politiche per oltre trent'anni. Con una 
              versatilità impressionante e d'altri tempi, ha insegnato Storia 
              dei trattati e Politica internazionale, Storia delle istituzioni 
              politiche, Dottrina dello Stato, Storia delle dottrine politiche e 
              Scienza della politica. I suoi scritti principali sono dedicati 
              alla teoria pura della politica, alla metodologia scientifica, 
              alla storia delle istituzioni politiche, alla teoria e alla storia 
              dell'amministrazione pubblica, alla storia delle dottrine 
              politiche, alla psicologia politica, alla geografia politica ed 
              economica, alla teoria pura e generale del diritto internazionale, 
              alle relazioni internazionali, alla scienza della politica, al 
              diritto costituzionale e alla teoria e alla storia dello Stato 
              moderno, alla storia politico-istituzionale dell'antichità 
              classica, alla storia istituzionale e politica italiana (in 
              particolare alle contraddizioni dello Stato unitario), alla storia 
              locale e, in ultimo, alla teoria del neo-federalismo, nella quale 
              in Italia rimane il rappresentante indiscusso di maggior rilievo. 
              Se nel 1988 Nicola Matteucci aveva affermato che la presenza di 
              Miglio nella cultura italiana è ben riscontrabile per vie 
              nascoste, sotterranee, discrete, ancor più essa è diventata 
              sensibile, se non prorompente negli anni successivi. Il ventaglio 
              dei suoi interessi scientifici si è rivelato con il passare degli 
              anni di una vastità crescente e sempre più senza confronti. 
              Solitario nella corporazione accademica dei professori di Scienza 
              politica, ha sempre seguito percorsi autonomi di ricerca, 
              gelosamente difesi, molti dei quali colpiscono per il distacco 
              radicale dal dibattito corrente, dalle mode intellettuali 
              contingenti, addirittura per la terminologia innovativa, per i 
              temi di assoluta rilevanza introdotti, per la profondità di 
              analisi e per la diversità di angolo di visuale adottato.
 
 Una delle caratteristiche più macroscopiche della vita di 
              Gianfranco Miglio è stata poi quella del diventare sempre più una 
              persona scomoda, proprio come lo sono tutti i veri scienziati 
              della politica, che non si preoccupano di compiacere chi detiene 
              il potere, né di aderire alle convinzioni più diffuse o di 
              abbellirle con orpelli ideologici o con "omaggi labiali" a 
              princìpi astratti e generalmente diffusi, per essere accettati o 
              osannati dall'opinione pubblica o dal resto della comunità 
              accademica ufficiale. Come ha scritto Angelo Panebianco, i grandi 
              realisti sono sempre personaggi scomodi, irritanti, perché 
              ricordano continuamente quello che dà fastidio sentirsi dire. 
              Quasi sempre poi si imputa loro la responsabilità dell'esistenza 
              di meccanismi e leggi che hanno solo scoperto e che esistono nella 
              realtà. Per questo sono generalmente anche grandi solitari. Una 
              constatazione che anche Edmund Burke (1729-1797), scrivendo di 
              Machiavelli, aveva fatto nella sua Vindication of Natural Society.
 
 Gianfranco Miglio è stato la quintessenza di una persona libera, 
              al servizio di nessuno e di un'indipendenza assoluta. È stato un 
              uomo solitario per il semplice fatto che alle altezze siderali e 
              alle soglie del futuro, alle quali il suo limpido e profondo 
              pensiero si muoveva, nessuno era in grado di seguirlo in modo 
              integrale. Una solitudine e un'indipendenza talmente radicali da 
              produrre anche il grave inconveniente, nonostante i tantissimi 
              semi gettati e fioriti nelle discipline più diverse, di non 
              lasciare una propria scuola strutturata e visibile. Un uomo 
              solitario in questo Paese, poi, anche perché da sempre molto più 
              proiettato verso la cultura, i dibattiti scientifici e le scoperte 
              del mondo germanico e di quello anglosassone, nei quali esiste una 
              comunità scientifica degna di questo nome, che dibatte e fa 
              progredire la conoscenza e non la lascia avvizzire nei soliloqui 
              di chiuse scuole corporate, improduttive e incapaci di comunicare, 
              o nella vacuità-irrilevanza dei temi di studio prescelti, i quali, 
              proprio per l'assenza di confronto, sono i più facili ma anche i 
              più infecondi. Un'analisi esauriente dell'intera opera scientifica 
              di Miglio richiederebbe molti volumi. Sono troppi gli orizzonti, 
              le discipline e i temi che egli ha affrontato ed esplorato. 
              Limitarsi ad alcuni è arbitrario, in quanto si finisce per 
              tralasciare importanti argomenti reciprocamente interrelati. 
              Spesso si è voluto vedere nella sua esperienza scientifica la 
              presenza di discontinuità e di incoerenze e generalmente due 
              periodi nettamente separati: quello precedente alla fine degli 
              anni Ottanta e quello successivo, concomitante con la decisa presa 
              di posizione a favore di un radicale cambiamento costituzionale. 
              Anche se è ancora presto per affermare con decisione definitiva 
              l'esatto contrario, non di meno il problema della continuità 
              logica e teorica del suo lavoro nel campo del realismo politico 
              appare come già oggi largamente risolvibile nel senso della 
              profonda continuità e della coerenza di fondo dell'intera sua 
              opera.
 
 Gianfranco Miglio è stato un gigante del realismo politico in 
              Italia. Tutti i suoi lavori presentano questa impostazione 
              irriducibile. Come egli stesso amava dire, egli faceva parte della 
              scuola "analitica" europea della Scienza della politica, orientata 
              verso un approccio "classico", fatto di studio concettuale (Begriffspolitik), 
              differente rispetto a quella più matematizzante e formale di conio 
              americano1. Le sue radici scientifiche vanno da Tucidide a 
              Machiavelli, da Hobbes a Edmund Burke, da Gabriel Naudé a 
              Joseph-Emmanuel Sieyes a Mosca e Pareto, da Max Weber a Carl 
              Menger e a Carl Schmitt, da Otto Hintze a Otto Brunner, da 
              Ferdinand Tönnies a Henry Sumner Maine, ai maggiori teorici del 
              diritto di ogni Paese e di ogni epoca, agli studiosi germanici 
              dell'amministrazione e del diritto internazionale, ai grandi 
              federalisti, da Johannes Althusius a Otto von Gierke, da Thomas 
              Jefferson a John C. Calhoun. Autori che egli non ha però mai 
              seguito acriticamente (come a volte è stato sostenuto), ma dei 
              quali ha cercato, criticandoli spesso nelle loro inesattezze e 
              insufficienze, nei loro cedimenti ideologici, di svilupparne la 
              lezione fondamentale e di portarla alle estreme conseguenze 
              logiche. In Miglio sarà sempre centrale infatti il tentativo di 
              tenere fuori dalla porta del laboratorio del politologo i valori 
              che inquinano la ricerca, facendo apparire la politica per quello 
              che non è; ha avuto sempre una dedizione assoluta per lo studio 
              freddo, disincantato e oggettivo della "realtà effettuale". E in 
              Italia è stato lo studioso che più ha lavorato per un'autonoma e 
              libera ricerca sul "politico".
 
 Gli argomenti innovativi che ha affrontato (anticipando tendenze 
              di ricerca che solo oggi si affermano) sono estremamente numerosi 
              e riassumibili solo parzialmente: dall'ideologia e il ruolo che 
              essa gioca in politica come "bandiera" di una classe politica, 
              alla teoria del "ciclo politico", a partire da un esame 
              approfondito delle dottrine e istituzioni politiche del mondo 
              classico, ai rapporti fra politica e diritto, politica ed 
              economia, politica e psicologia, allo studio della formazione e 
              della sopravvivenza della gestione pratica del potere 
              (amministrazione), alla storia delle istituzioni politiche 
              condotta con la mirabile capacità di scoprire l'origine di un 
              sistema giuridico-istiuzionale antico e di vederlo operare anche 
              in altre epoche, in un ripudio completo del formalismo giuridico e 
              delle correnti ideologie. Tutto questo in un periodo nel quale la 
              storicità dello Stato moderno, abbellito dal mito del "progresso" 
              e dall'idea dello "Stato come stupenda creazione del diritto", era 
              data per tutt'altro che scontata. La sua opera è stata distruttiva 
              particolarmente per i paradigmi giuridico-formali ancora dominanti 
              negli anni Cinquanta (anche nel diritto internazionale dogmatico), 
              caduti sotto la scure delle sue serrate demolizioni, 
              demistificazioni, smascheramenti. Inoltre, fra i campi esplorati 
              da Miglio vi sono i processi di formazione dell'autorità e del 
              potere, da una parte e le relazioni internazionali dall'altro 
              (anticipando per una via del tutto autonoma tendenze di ricerca 
              che si affermano solo oggi nel tentativo di risolvere complessi 
              problemi), il campo vastissimo dello studio del tempo e dello 
              spazio, il ruolo dei simboli in politica, il carattere irrazionale 
              della politica stessa e così via.
 
 Gli studi su singoli aspetti del "politico" però poggiano tutti 
              sulla sua analisi della realtà profonda di questa dimensione, 
              nella quale è centrale lo studio dell' "obbligazione politica" 
              (sganciata dalle confusioni, presenti anche in campo anglosassone, 
              con la teoria dello Stato) come realtà contrapposta e irriducibile 
              all'obbligazione "contratto-scambio". Il cuore della sua teoria 
              del "politico", ruota infatti tutta attorno al tentativo di 
              mettere in luce le mille facce del "cristallo dell'obbligazione 
              politica": un lavoro condotto particolarmente nelle sue ancora 
              inedite Lezioni di Politica Pura, che implicava lo studio di 
              fenomeni estremamente reali e correlati, quali la "rendita 
              politica" (termine-concetto introdotto da Miglio nella politologia 
              degli anni Sessanta e contrapposto alla "rendita di mercato") nei 
              suoi aspetti teorici e tipologici, la realtà della rappresentanza 
              politica (al di là delle mitologie "democratico-rappresentative") 
              e quella dei partiti politici (macchine per guadagnare le "rendite 
              politiche" e per gestirle): tutto questo in un momento nel quale 
              nella politologia più in voga si disegnavano solo modelli formali 
              e inevitabilmente superficiali ("polarismo-bipolarismo", una 
              concezione ideologica del partito politico e così via), applicati 
              per di più allo sgangherato e poco rilevante caso italiano. Così, 
              ancora, nelle sue esplorazioni va ricordato lo studio 
              dell'amministrazione, guidata dall'abitudine a vedere l'esercizio 
              del potere "dal basso", per svelare la vera storia dello Stato 
              moderno e del suo futuro andando al fondo degli ordinamenti, delle 
              istituzioni e della logica interna del loro funzionamento. Un 
              campo che lo porterà a svelare la realtà storica dell'Italia come 
              "miracolo tecnico" della pura ragion di Stato, al di là 
              dell'ideologia risorgimentale diffusa nella maggior parte degli 
              storici, con una continuità di indagine che vedrà il suo culmine 
              nella ripresa dei suoi studi sul federalismo negli anni Novanta.
 
 Al nome di Miglio viene spesso affiancato quello di Carl Schmitt, 
              scienziato del diritto e della politica di altezza siderale e fra 
              i più fraintesi (ma che dai politologi marxisti italiani, più 
              bisognosi di un bagno di realismo nel momento in cui Miglio lo 
              introdurrà in Italia, verrà compreso in modo singolarmente 
              immediato), che egli ha fatto conoscere in questo Paese all'inizio 
              degli anni Settanta. Quella sua introduzione di Schmitt nella 
              cultura italiana gli valse la fuoriuscita dalla finestra delle 
              chiuse stanze accademiche nostrane e l'assurda definizione di 
              "conservatore": definizioni e ostracismi che verranno però 
              riscattati negli anni seguenti con un rientro dalla porta 
              principale, per aver introdotto in Italia un ormai riconosciuto 
              gigante dell'analisi scientifica del "politico". Tuttavia il 
              realismo di Miglio ha sviluppato la lezione schmittiana 
              spingendosi molto al di là degli orizzonti di declino dello Stato 
              moderno e dello Jus Publicum Europaeum intravisti dallo studioso 
              tedesco. Questo appare già negli studi di Miglio sulla "politica 
              oltre lo Stato", sulla trasformazione della guerra, sul rapporto 
              (reversibile) fra guerra esterna e guerra civile, sulla 
              correlazione fra l'assetto interno delle aggregazioni politiche 
              (fra sfera dell' "obbligazione politica" e area del 
              "contratto-scambio") e la natura dei sistemi internazionali, 
              soggetti ad evoluzione ciclica in base al grado di 
              politicizzazione, sulla relatività assoluta (e loro convertibilità 
              illimitata) dei concetti di "interno" ed "esterno".
 
 Ben oltre Schmitt però Miglio si spingerà ancor più nell'ultimo 
              decennio della sua attività, che è anche il periodo scientifico 
              della sua vita meno conosciuto dagli studiosi, in concomitanza con 
              il crollo del blocco politico-militare orientale e dell'impero 
              sovietico: collasso che secondo Miglio segna una data storica di 
              importanza colossale, che ha prodotto l'inversione di processi 
              politici durati otto secoli. Gli sviluppi epocali di fine secolo 
              erano per lui dati dal fallimento del modello più estremo (e 
              coerente) di Stato moderno (quello collettivista e "amministrato" 
              di tipo sovietico), dall'impossibilità per gli Stati di condurre 
              la guerra "vera" (ricorso ai mezzi ultimi di distruzione), dalla 
              riduzione inevitabile del ceto burocratico (parassitario) estesosi 
              nello Stato a dismisura, deformandolo: crisi e riduzione innescate 
              inesorabilmente dai processi di automazione (accelerazione della 
              gestione delle informazioni) e dall'emergere di un nuovo modo di 
              produzione che fa venire al pettine i nodi della struttura 
              unitaria e accentrata dello Stato moderno. Proprio da qui egli 
              partirà per riprendere in modo totalmente differente e 
              radicalmente innovativo i suoi antichi studi sul federalismo, pur 
              non tradendo affatto, ma anzi portandola alle estreme conseguenze, 
              la sua impostazione realista, continuando a cercare di capire la 
              dinamica evolutiva dei sistemi politici, le forze e i modelli che 
              hanno maggiore probabilità di affermarsi nel futuro.
 
 Già prima della caduta del sistema bipolare in tutto il mondo il 
              pendolo della storia aveva incominciato a muoversi, come Miglio 
              stesso aveva ampiamente previsto, verso una prevalenza della 
              dimensione del contratto-scambio e del "privato". Il federalismo 
              appare a Miglio presente nelle cose come una conseguenza 
              inevitabile del declino dell'"obbligazione politica", del tramonto 
              dello Stato moderno, dello Jus Publicum Europaeum, con tutto il 
              suo ormai obsoleto apparato concettuale e come conseguenza della 
              crisi del modello parlamentare. Il problema della decisione, tema 
              eminentemente schmittiano, connaturato alla politica, imbocca così 
              per forza di cose secondo Miglio canali differenti rispetto a 
              quelli rigidi e stabiliti una volta per tutte dallo Stato moderno 
              e dalla tradizione costituzionale a partire dal XVII secolo (ed 
              esplosa nel XIX), legata ad una visione semplicistica, basata su 
              riduzioni estremamente semplificate della politica (la sovranità, 
              i confini, la fiscalità, ecc.) e dottrinariamente coerente con 
              quella stessa struttura, che sta uscendo dal processo storico e 
              della quale Miglio approfondisce sempre più la vera natura e le 
              ragioni della sua crisi.
 
 Per lo studioso lombardo, sempre identificato come "decisionista" 
              di stampo schmittiano, la decisione non ha mai avuto la portata 
              trascendente che hanno sembrato attribuirgli Carl Schmitt o 
              Hermann Heller. Essa per Miglio svolge solo un ruolo gestionale e 
              amministrativo. Quello decisionale infatti "È solo un momento del 
              processo politico, necessario ma inserito nel complesso tessuto di 
              relazioni e di esperienze, a cui serve con la sua portata 
              meramente funzionale". L'irriducibilità della dimensione politica, 
              in quanto connaturata alla stessa convivenza interumana in gran 
              parte per ragioni biologiche, per Miglio non implicava affatto una 
              glorificazione dello Stato, della coercizione, della violenza 
              monopolisticamente organizzata. Il contratto, per sua natura un 
              rapporto volontario continuamente rinegoziato, imponendosi nelle 
              cose tende a scavalcare l'importanza del vincolo politico e delle 
              conseguenze di quest'ultimo, innervando il rapporto federale di 
              una costante mutabilità, a seconda dei bisogni dei soggetti che 
              compongono la federazione, costantemente rinegoziabile. Fra 
              realismo e logica, lo studio dell' "obbligazione politica" negli 
              ultimi dieci anni di vita di Gianfranco Miglio prosegue così con 
              una continuità sorprendente, giungendo a esiti di una coerenza 
              adamantina, smantellando anche sue insufficienti (a suo stesso 
              dire) analisi precedenti ed aprendo vie che negli anni Ottanta 
              sarebbero parse azzardate e contraddittorie.
 
 La visione dell'autorità e del potere, del loro manifestarsi sul 
              piano istituzionale, nel realismo di Miglio fuoriesce sempre più 
              da quella codificata dalle categorie dello Stato moderno e 
              recupera una dimensione pluralistica simile a quella precedente al 
              consolidamento della sovranità assoluta, gerarchico-accentrata, di 
              marca statuale moderna. Di qui il suo crescente interesse per il 
              ritorno di attualità di strutture politiche flessibili, come 
              quelle dell'Hansa tedesca, delle Province unite olandesi, della 
              Confederazione elvetica prima del suo compromesso deturpante e 
              contraddittorio con le categorie statuali moderne, delle 
              costituzioni delle città libere contrapposte ai Principati prima e 
              allo Stato assoluto poi. Tutte strutture "a basso tasso di 
              politicità", che avrebbe voluto descrivere nel libro progettato ma 
              rimasto incompiuto, Contro lo Stato, e che hanno prodotto livelli 
              di civiltà e di crescita economica straordinari. È l'"altra metà 
              del cielo" della storia europea, come egli la definisce, a tornare 
              di attualità con le sue straordinarie ed esemplari strutture di 
              marca althusiana, ricche e complesse, progenitrici del 
              neo-federalismo contemporaneo. La teoria neo-federale di Miglio 
              non vede più così la garanzia della pluralità in un ambito 
              statuale moderno, ma fuoriesce da essa, sulla falsariga di Schmitt 
              ma spingendosi infinitamente più lontano di quanto non avesse 
              fatto lo scienziato tedesco, dalla visione e dall'armamentario 
              dello Stato moderno (dirà infatti e non a caso nel 1992: "Schmitt 
              non condividerebbe quello che sostengo e cerco di dimostrare in 
              questi anni"), intravedendo convivenze extrastatuali in fieri, 
              ormai sempre più lontane dall'impossibile "quadratura del cerchio" 
              (come la definiva Otto von Gierke) fra Stato e federalismo, 
              tentata nella sintesi incoerente dello "Stato federale", un 
              autentico ossimoro come lo "Stato liberale". Non solo: il nuovo 
              federalismo (che egli studia tornando alle ragioni del federalismo 
              delle origini) diventa qualcosa di diverso dalle strutture basate 
              sul patto politico. Del resto, secondo Miglio è la stessa massa 
              crescente di negoziati, confronti, pattuizioni, contrattazioni, 
              che imperversano oggi a tutti i livelli, a superare nelle cose il 
              vecchio modello dello Stato sovrano e del diritto come atto 
              d'imperio, trasformando quest'ultimo in frutto di una decisione 
              interpersonale e diffusa, generatrice di altre decisioni "a 
              cascata".
 
 Al di là delle facili critiche e della presunta profonda svolta 
              che avrebbe caratterizzato l'evoluzione della teoria di Miglio 
              negli anni Novanta, quello che importa sono le impressionanti 
              convergenze scientifiche con autori stranieri e teorie 
              estremamente distanti, temporalmente e spazialmente, rispetto a 
              Miglio stesso e largamente sconosciute in Italia: convergenze 
              evidenti, sebbene raggiunte per vie autonome e differenti, che 
              rafforzano la portata del pensiero innovativo di Miglio, le sue 
              conclusioni e che sono in gran parte ancora da studiare. Degli 
              ultimi dieci anni della sua vita e del suo ininterrotto lavoro, 
              della logica evoluzione del suo pensiero scientifico e del suo 
              studio quasi nessuno sa particolari precisi. Da una parte perché 
              ad un livello molto triviale, l'assordante tamburo massmediatico 
              ha trasformato lo studioso, che lo stesso Schmitt aveva definito 
              "Il maggior tecnico delle istituzioni e l'uomo più colto d'Europa" 
              in una figura irreale, caricaturale, paradossale. Dall'altra 
              perché, laddove si tenti un'analisi approfondita della sua opera, 
              vengono stabiliti collegamenti impropri e arbitrari, vengono 
              tratte conclusioni non rispondenti alla realtà. Anche in ambito 
              accademico, a causa dell'indifferenza, delle semplificazioni e 
              dell'ostracismo che Miglio ha ripetutamente subìto, soprattutto 
              nella sua fase di elaborazione della sua teoria neo-federale, si è 
              perso il senso dell'evoluzione più che decennale di una ricerca 
              ininterrotta.
 
 L'attenzione rivoltagli solo fino agli anni Ottanta infatti porta 
              alla visione distorta di uno studioso "dogmatico", fermo sulle sue 
              posizioni acquisite e sui risultati dei suoi studi o addirittura 
              legato a convinzioni e a ricerche da lui condotte, ma ormai 
              invecchiate. Definizioni paradossali se riferite a uno scienziato 
              che nell'ultimo decennio della sua vita, fino a 82 anni, oltre che 
              ad augurarsi di vedere invecchiare molte tappe intermedie del suo 
              cammino conoscitivo, ha continuato a sostenere la necessità di 
              rivedere o addirittura di buttare a mare alcune sue ricerche fra 
              le più note, come quella sull' "impersonalità del comando", 
              rivelatasi al diradarsi di molte delle nebbie ideologiche nelle 
              quali si protegge lo Stato moderno, pura ideologia, o gran parte 
              delle sue Lezioni di Politica Pura, basate su anni di corsi 
              universitari preparati con cura e precisione impressionanti e con 
              documentazione teorico-empirica tratta e sviluppata solo da prime 
              edizioni e originali di lavori scientifici di tutte le epoche. 
              Lezioni condotte seguendo un ragionamento duro come il diamante e 
              tagliente come un rasoio, in uno stile seicentesco anglosassone 
              (con assonanze molto forti con la teorizzazione di un Hobbes o di 
              un Locke), che Miglio riteneva avrebbero dovuto oggi (dopo la fine 
              del periodo di estrema politicizzazione dello scontro 
              internazionale bipolare) essere svolte in maniera molto diversa e 
              con l'aggiunta di capitoli decisivi, come ad esempio quello sulla 
              teoria del parassitismo politico, del declino dello Stato moderno, 
              dell'evoluzione della burocrazia e della sovranità.
 
 Miglio, da autentico scienziato, non si è mai innamorato delle sue 
              opere scientifiche e delle sue scoperte parziali, che ha sempre 
              considerato solo tappe provvisorie, intermedie, di un lavoro 
              inesausto, soltanto gradini per raggiungere la conoscenza che 
              devono essere rifatti dallo stesso costruttore quando sono 
              riusciti male o ha impiegato incautamente un materiale troppo 
              friabile. Miglio è sempre stato aperto al dialogo e agli apporti 
              più disparati, in quanto formulatore di problemi e non fornitore 
              di soluzioni precostituite. In questo senso è stato uno dei più 
              grandi e rigorosi studiosi della politica che questo Paese abbia 
              avuto. Negli ultimi dieci anni inoltre non ha mai abbandonato lo 
              studio e l'approfondimento, anche se il tentativo infruttuoso ma 
              nobile di incidere sul cambiamento politico-costituzionale 
              italiano ha bruciato molto tempo dedicabile alla ricerca. Di 
              questo periodo rimane l'exemplum morale di un uomo solo nella sua 
              lucida visione della realtà, il coraggio delle sue scomode e 
              anticonformiste prese di posizione, la sua lotta solitaria per una 
              radicale riforma costituzionale di un Paese corrotto, degenerato 
              in tirannide partitocratica e in centralizzato assolutismo 
              parlamentare, di uno studioso restìo a chiudersi nella sua comoda 
              torre d'avorio e pronto a opporsi, anche solitariamente, senza 
              cercare vantaggi personali ma con il solo fine di non veder 
              lasciare alle generazioni future l'eredità di un crollo verticale 
              e irreversibile di civiltà.
 
 Fino agli ultimi anni di vita comunque egli ha continuato a 
              formulare ipotesi folgoranti sulla natura del neo-federalismo, 
              sulla degenerazione dei sistemi federali esistenti e sulle loro 
              cause, sulla politica oltre lo Stato, sulla trasformazione della 
              politica internazionale e sulle sue ricadute sulle dinamiche 
              politiche in atto, sulle origini europee e althusiane del 
              federalismo americano, sull'influenza delle trasformazioni 
              internazionali nell'Europa orientale e su molti altri temi. 
              Ipotesi di vasta portata, che sono rimaste a costellare un lavoro 
              immenso, purtroppo in gran parte rimasto incompiuto e disseminato 
              in percorsi sconfinati di ricerca tracciati nelle sue schede, 
              negli appunti, ancora da scoprire, così come negli inediti mai 
              incompiuti degli ultimi anni: una mole di lavoro che avrebbe avuto 
              bisogno ancora forse di almeno un secolo… Nell'evoluzione teorica 
              del pensiero di Gianfranco Miglio, nonostante le discontinuità 
              dovute al fisiologico processo scientifico di accrescimento della 
              conoscenza e alla correzione o all'abbandono di ipotesi rivelatesi 
              insufficienti o sbagliate, non c'è comunque rottura, ma coerente 
              continuità.
 
 Gianfranco Miglio è stato una meteora di luce sull'oceano, 
              ricoperto di tenebre e per questo così difficile da studiare, 
              della realtà della politica. Con il suo immenso talento creativo 
              ed esplorativo, la sua straordinaria acutezza intellettuale, dagli 
              anni Quaranta fino alla fine del XX secolo e affacciandosi nel 
              Terzo millennio, esplorando senza soluzione di continuità e con 
              grande coerenza tutte le dimensioni del "politico", è riuscito ad 
              aprire strade di studio e di ricerca che, se non domani, 
              dopodomani verranno seguite, proprio grazie alla luce che su di 
              esse la sua limpida teoria realista e la sua sconfinata cultura 
              hanno proiettato. Perché i grandi political scientists, quelli 
              veri, come lo stesso Miglio faceva notare spesso, sono sempre 
              postumi. A volte occorrono venti o trent'anni perché ci si accorga 
              della portata della loro opera, della produttività di una loro 
              ipotesi o della validità di una loro scoperta, che potevano 
              inizialmente sembrare poca cosa. Soltanto allora, quando le nebbie 
              ideologiche, le fazioni politiche che hanno dominato un'epoca si 
              diradano e si sciolgono senza lasciare traccia (si pensi alla 
              distinzione, storicamente connotata e sempre meno significante, 
              fra "destra" e "sinistra"), appare il filo d'acciaio della dura e, 
              per quanto comprimibile, ineliminabile realtà della politica e 
              tutti possono constatare il contributo di questi studiosi, 
              riconoscere la loro grandezza.
 
 27 settembre 2002
 
 (da Ideazione 5-2002, settembre-ottobre).
 
 
 
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