| Tante Italie, una identità forum con Ernesto Galli della Loggia, Gian Enrico Rusconi e 
              Giovanni Sabbatucci a cura di Riccardo Paradisi
 
 La nazione, ha detto una volta Renan, è il plebiscito quotidiano 
              di un popolo. Per decenni, in Italia, questo plebiscito non c’è 
              stato: l’idea e il termine “nazione”, gravato dalla pesante carica 
              retorica che il nazionalismo – e poi la forte componente 
              nazionalista del fascismo – vi aveva messo, sono stati per un 
              lungo periodo l’immagine e il suono di un tabù. Parlando 
              dell’Italia si è abusato della parola “Paese”, un termine generico 
              e però adatto a definire quello che l’Italia in fondo è stata per 
              oltre mezzo secolo: una piccola cosa inserita in uno scenario 
              geo-politico polarizzato sulla potenza di due blocchi ideologici 
              intercontinentali. I mutamenti profondi degli ultimi lustri hanno 
              rimesso tutto in gioco; lo sgretolamento dell’Urss – che aveva 
              schiacciato le nazioni naturali sotto i cingolati della patria 
              sovietica – non ha permesso solo il riaffiorare delle culture e 
              delle patrie dell’Est europeo, ha anche finito col liberare le 
              sinistre nazionali dall’ortodossia internazionalista recuperandole 
              a una disponibilità verso l’idea di nazione e patria. In Italia 
              con la presidenza di Carlo Azeglio Ciampi, la patria è tornata ad 
              essere proposta come un valore da socializzare, un concetto sul 
              quale tutti dovrebbero ritrovarsi. Ad alcuni questa operazione di 
              rieducazione all’idea di patria degli italiani è sembrata molto 
              retorica e poco persuasiva. Massimo Cacciari, ad esempio, ha 
              addirittura parlato di “un’operazione di contenimento psicologico” 
              funzionale a lenire l’angoscia delle masse di fronte ai rischi, 
              reali o supposti, di sradicamento che la globalizzazione 
              implicherebbe. Il Museo degli italiani, voluto fortemente da 
              Ciampi dovrebbe rapresentare una delle tappe più importanti di 
              questo nuovo corso della cultura nazionale. Si tratta di un 
              progetto che non ha mancato di suscitare discussioni e prese di 
              posizione. Ne abbiamo parlato con alcuni degli studiosi coinvolti 
              direttamente in questo dibattito: Ernesto Galli della Loggia, Gian 
              Enrico Rusconi e Giovanni Sabbatucci.
 
 L’idea di un Museo degli italiani nasce in 
              un momento particolare per il nostro Paese, un momento in cui i 
              concetti di patria e di nazione sembrano essere tornati centrali. 
              E’ un moto spontaneo oppure la rinascita dell’idea di nazione è 
              dovuta all’iniziativa del presidente della Repubblica? Se così 
              fosse il Museo non rischierebbe di apparire come lo strumento di 
              una pedagogia patriottica, indice del fatto che, dopo aver fatto 
              l’Italia, bisogna ancora fare gli italiani?
 
 Galli della Loggia – Credo che si 
              tratti di un concorso di circostanze. Vero che all’idea di un 
              Museo degli italiani e alla rinascita di un certo spirito 
              nazionale non è certo estranea l’iniziativa del presidente della 
              Repubblica, il quale meritoriamente ha deciso di improntare a 
              questa prospettiva il suo settennato. D’altra parte, l’iniziativa 
              del presidente Ciampi ha probabilmente essa stessa alla sua 
              origine la consapevolezza che i concetti di patria e di nazione, 
              accantonati per lunghi decenni dal discorso pubblico del Paese, 
              sono da qualche tempo tornati di attualità e conoscono una nuova 
              legittimazione culturale in seguito ai grandi rivolgimenti 
              mondiali della fine del XX secolo. Stando così le cose, è ovvio, 
              mi sembra, che un Museo degli italiani sia anche lo strumento di 
              una pedagogia patriottica, come suggerisce la domanda. Ma né più 
              né meno come gli Uffizi sono anche lo strumento di una pedagogia 
              artistica: insomma, ogni museo è anche il momento di una 
              pedagogia, ma non solo.
 
 Rusconi – Certo, molto di quanto sta 
              avvenendo è dovuto all’iniziativa del presidente della Repubblica. 
              Ma in questo non vi trovo nulla di male. Anzi, si può dire che 
              Ciampi ha dimostrato una grande sensibilità nell’aver saputo 
              intuire e cogliere un’atmosfera che era nell’aria. Non è stata, la 
              sua, un’operazione a freddo o artificiosa; certo c’è 
              nell’iniziativa del Presidente della Republica molto di 
              pedagogico, ma del resto certe iniziative hanno bisogno di una 
              pedagogia, devono necessariamente partire dall’alto, anche perché 
              il Paese da solo non andrebbe oltre l’entusiasmo calcistico per la 
              nazionale. Semmai il problema è un’altro, ed è che Ciampi, in 
              questo suo meritorio lavoro è praticamente solo. A parte i toni 
              deferenti di alcuni giornali non ho trovato qualcuno che lo 
              appoggi seriamente che lo sostenga operativamente. Dico 
              addirittura che forse, chi lo consiglia, i suoi collaboratori più 
              stretti, lo sta spingendo troppo oltre, temo che da un punto di 
              vista della strategia comunicativa stia commettendo delle 
              ingenuità; e il rischio di cadere nella retorica in certi casi è 
              sempre in agguato. Detto questo bisogna però essere chiari su un 
              punto: il centro della nostra storia nazionale non è il 
              Risorgimento, ma quei cinque anni che vanno dal 1943 al 1948: è in 
              quel periodo che l’identità italiana si è costruita intorno 
              all’idea di cittadinanza e ai diritti garantiti dalla 
              Costituzione. Se si vuole fare un Museo degli italiani si deve 
              avere il coraggio di non eludere questo problema, di fare una 
              precisa scelta di natura culturale. Il fuoco, al di là delle 
              opzioni storiche, deve essere spostato sulla nascita della 
              cittadinanza democratica. Il Risorgimento non aveva il problema 
              della cittadinanza, il problema si pone con la Resistenza e con la 
              Costituzione. Ricostruire la storia d’Italia allora significa 
              spostarsi su questo asse, anche perché, la storia, si fa avendo 
              una prospettiva di arrivo e il punto di arrivo decisivo della 
              nostra storia nazionale, ormai ad avviso di tutti, è la 
              costruzione della nostra Repubblica democratica. Oggi non c’è in 
              Italia nessuna forza antirepubblicana, nessuno pone in discussione 
              i diritti di cittadinanza garantiti dalla Costituzione. E noi 
              italiani siamo diventati cittadini non con Cavour ma con De 
              Gasperi e Togliatti. Dopo di che ben vengano anche i conflitti, i 
              dibattiti, le discussioni; non bisogna avere paura di scavare 
              anche nei periodi oscuri della nostra storia, alla luce 
              soprattutto del fatto che i princìpi che stanno alla base della 
              convivenza civile di tutti, oggi sono universalmente condivisi 
              dagli italiani.
 
 Sabbatucci – Il rischio naturalmente 
              esiste. Come è evidente che l’intera operazione nasce da una 
              spinta proveniente dall’alto (le iniziative del capo dello Stato) 
              più che da un bisogno diffusamente sentito. E’ anche vero però che 
              quelle iniziative sarebbero cadute nel vuoto se non avessero 
              smosso nell’opinione pubblica sentimenti e memorie magari celati 
              ma pur sempre presenti. Invece sappiamo che l’accoglienza è stata 
              per lo più benevola e la partecipazione confortante. Il punto è 
              che la pedagogia patriottica non è sempre e necessariamente una 
              cosa cattiva, come in Italia siamo portati a pensare per motivi 
              ben noti (il pensiero va immediatamente alle forme retoriche e 
              invasive della propaganda fascista, ma quelli della mia 
              generazione ricordano anche con qualche fastidio un canone 
              celebrativo e mitologico a base di battaglie di Legnano e incontri 
              di Teano, di Balilla e Pietro Micca: un canone passato indenne 
              dall’Italia liberale a quella repubblicana attraverso il fascismo 
              e ben presente nei testi per le elementari negli anni Cinquanta). 
              Una pedagogia patriottica può essere buona o cattiva a seconda dei 
              contenuti e degli strumenti scelti.
 
 La storia dell’Unità d’Italia non è letta in 
              modo unitario: cattolici, sinistra, liberali, si dividono ancora. 
              Per non dire della frattura che attraverso la guerra civile 
              contrappose l’Italia della Resistenza a quella della Repubblica 
              sociale. Si è parlato di una ricostruzione - in seno al museo - 
              condivisibile da tutti: ritenete che questo sia davvero possibile?
 
 Galli della Loggia – Penso che una 
              ricostruzione storico-museale, se veramente tale, cioè se 
              veramente condotta con criteri storici, scientifici non possa non 
              essere condivisa da tutti. Il presupposto necessario è, appunto, 
              che nulla di quanto è accaduto sia omesso: che siano ricordati i 
              martiri giacobini del ’99 e le vittime delle repressioni francesi 
              durante l’invasione napoleonica, che sia ricordata la strage delle 
              Fosse Ardeatine così come gli episodi accaduti nel triangolo della 
              morte dopo il 25 aprile. Non già per mettere tutto sullo stesso 
              piano: nessun avvenimento storico è sullo stesso piano di un 
              altro. Ogni avvenimento nasce da un contesto specifico e solo 
              questo l’esposizione dovrebbe curarsi di illustrare. Le 
              conclusioni in termini di valori politici possono essere lasciate 
              in larga misura al libero orientamento del visitatore, 
              naturalmente ciò non vuol dire che possa immaginarsi un museo di 
              questo tipo senza un criterio espositivo generale. Mi pare ovvio 
              che questo non possa essere che quello di una identificazione 
              positiva con il tormentato cammino del popolo italiano verso la 
              democrazia politica, fondata sul riconoscimento dei diritti 
              individuali. Mi pare, peraltro, che oggi il 99 per cento degli 
              italiani si riconoscano in questa identificazione.
 
 Rusconi – Si deve tentare. Anche se 
              le memorie storiche sono tante, diversificate, anche confliggenti. 
              Certamente non si possono assimilare Mazzini e Pio IX, né mettere 
              per forza d’accordo storici di vedute e formazione diverse. Però 
              torno a ripetere: quello che ci tiene insieme è il punto di 
              arrivo, i valori condivisi dell’Italia repubblicana. Ecco se si 
              tiene presente e ben fermo questo approdo – e proprio di un 
              approdo si tratta – si può anche ritenere pacifico che gli 
              itinerari che ci hanno condotto dove siamo siano diversi. Il 
              tentativo dunque di una ricostruzione storica condivisibile va 
              ritenuto possibile. Certo mi rendo conto che il mio non è un 
              ragionamento di natura storiografica ma di politica della storia, 
              però la stessa idea di un museo degli italiani è un atto di 
              politica della storia. Dobbiamo toglierci dalla testa che potrà 
              essere un luogo irenico, ecumenico; non potrà essere nulla di 
              questo genere. Anzi se dovesse assumere questa fisionomia sarebbe 
              una presa in giro, un luogo senza valore.
 
 Sabbatucci – La storia d’Italia, si 
              sa, è storia di fratture e di divisioni profonde. Cercare di 
              nasconderle o di coprirle tramite la cancellazione o la 
              demonizzazione dei soggetti risultati perdenti non servirebbe a 
              nulla. O meglio servirebbe a creare un nuovo canone retorico che 
              risulterebbe poi fatalmente esposto alla critica storiografica. La 
              domanda allora andrebbe riformulata così: è possibile una storia 
              che dia conto di fratture e divisioni e al tempo stesso faccia 
              riferimento a valori oggi condivisi pressoché universalmente come 
              la democrazia, la libertà, il pluralismo accompagnato alla 
              consapevolezza di appartenere a una comunità e di condividerne 
              diritti e doveri? Io credo che sia possibile, anche se alcuni 
              segnali recenti (da un lato la proliferazione di iniziative 
              ispirate a certo nostalgismo recriminatorio, dall’altro il rappel 
              à l’ordre, l’invito a serrare le file in difesa dell’ortodossia 
              antifascista) suscitano in me qualche pessimismo.
 
 Il ministro per i Beni culturali Urbani ha 
              dichiarato che il museo dell’Unità guarderà al “prima” e al “dopo” 
              il compimento dell’Italia unita, ma ha aggiunto che “i riflettori 
              verranno puntati soprattutto sul Risorgimento”. Riguardo al prima, 
              quale potrebbe essere il criterio di suddivisione dell’arco 
              cronologico che ha portato all’Unità?
 
 Galli della Loggia – il Risorgimento 
              è certo una pagina centrale di un eventuale Museo degli italiani, 
              ma, a mio giudizio, una pagina accanto alle altre. Sarebbe uno 
              sbaglio, credo, una neo-mitizzazione del Risorgimento. Quanto al 
              prima, il prolegomeni dell’identità nazionale italiana vanno 
              cercati in tutti i fattori storici oggettivamente unificanti della 
              penisola (da quello geografico a quello linguistico-letterario, a 
              quello religioso, a quello urbano), nonché in quei movimenti e a 
              quelle personalità culturali che hanno avuto una parte importante 
              nel creare la consapevolezza collettiva circa il ruolo di questi 
              fattori.
 
 Rusconi – Credo che l’idea d’Italia 
              nasca, paradossalmente, con Machiavelli: nasca cioè con la 
              considerazione politica che non esiste un’unità italiana e che 
              l’Italia è un insieme di tanti Stati divisi e confliggenti. Ecco, 
              credo sia proprio nel 500 che l’Italia si accorge di essere tale e 
              se ne accorge riflettendo con Machiavelli su ciò che non è e che 
              invece potrebbe e dovrebbe essere. Certo, se poi il problema viene 
              posto dal punto di vista culturale e identitario si deve arrivare 
              più indietro, si deve risalire a tempi lontani. Personalmente però 
              voglio tenermi lontano da queste speculazioni, che lascio agli 
              storici... Importante è individuare l’intuizione politica che ha 
              messo in moto la dinamica dell’unità nazionale.
 
 Sabbatucci – La questione dei limiti 
              e delle periodizzazioni della storia d’Italia è antica quanto 
              l’Italia unita, e forse di più. Non credo di poterla affrontare in 
              poche battute. Se dovessi organizzare un museo storico nazionale, 
              mi atterrei allo stesso criterio che ho usato quando ho curato, 
              con Vittorio Vidotto, una Storia d’Italia per Laterza: mi 
              concentrerei cioè sulla storia dell’Italia politicamente unita (e 
              dunque concretamente definibile come tale), partendo magari dal 
              momento in cui la questione dell’unità si comincia a porre in 
              concreto (dunque, a mio parere, dalla fine del Settecento). Il che 
              non toglie che un percorso didattico-museale possa prevedere un 
              preambolo in cui si dia conto sommariamente di quanto è accaduto 
              in quel luogo geografico chiamato Italia a partire dalle prime 
              testimonianze della presenza umana nella penisola. Una scelta 
              diversa, e di più ampio respiro cronologico, è legittima dal punto 
              di vista storiografico, ma si presta alle deformazioni mitologiche 
              di cui dicevo prima (e di cui si sono sempre nutriti i 
              nazionalismi di tutto il mondo, con conseguenze disastrose).
 
 Sempre Urbani ha dichiarato che non ci sarà 
              un concorso internazionale di architettura per progettare la sede 
              del museo, perché, grazie allo sfruttamento del Vittoriano, non ve 
              ne sarà bisogno. Carlo Olmo su La Stampa ha scritto che “Se esiste 
              un luogo simbolico e non neutrale questo è certamente il 
              Vittoriano”. Insomma, il mezzo non rischia come sempre e in questo 
              caso più che mai, di essere il messaggio?
 
 Galli della Loggia – Si, credo che 
              questo pericolo esista, e d’altra parte non so fino a che punto 
              gli interni del Vittoriano si prestino a una sistemazione museale 
              adeguata. Un museo al Vittoriano sarebbe inevitabilmente un museo 
              dell’Unità d’Italia e quindi, inevitabilmente, incentrata intorno 
              al Risorgimento. Nella sostanza ultima un Museo del Risorgimento. 
              Ma l’identità nazionale italiana e la sua storia sono cose in 
              misura significativa diversa dall’Unità d’IItalia in quanto tale. 
              Il rapporto tra Stato nazionale e identità nazionale è forse la 
              questione più complessa e tormentata della nostra vicenda 
              collettiva, e volere tutto ingessare nella pur gloriosa e 
              obbligata armatura della Unità d’Italia mi sembra operazione 
              storiograficamente discutibile e che immiserirebbe la portata e la 
              ricchezza dell’esposizione museale.
 
 Rusconi – Bene; ma quali alternative 
              ci sono? Chi dice che il Vittoriano non è il luogo migliore dove 
              costruire il museo perché non propone delle soluzioni diverse? Lo 
              faccia e si valuteranno. La realtà è che queste cose si fanno 
              utilizzando luoghi esistenti e il Vittoriano è un luogo esistente 
              e soprattutto disponibile. Con questo non voglio eludere il 
              problema che pone la sua domanda; è evidente che il Vittoriano per 
              la sua storia, per la sua funzione e per quello che rappresenta 
              non è un luogo neutro. Però nessun luogo è neutro tutto alla fine 
              dipende da come le cose si fanno. E queste cose bisogna farle 
              bene: ciò che conta sarà la strategia comunicativa, sarà la 
              bellezza del museo che non dovrà essere il risultato di 
              un’accumulazione ma di un percorso divertente e affascinante. 
              Penso al museo tedesco di storia della cultura ebraica; è un luogo 
              bellissimo, affascinante, divertente, interessante. Ecco il museo 
              degli italiani, al di là delle polemiche sul contenitore che lo 
              ospiterà, dovrà avere queste caratteristiche: gli italiani 
              visitandolo dovranno prendere coscienza che la loro storia 
              nazionale è tra le più avvincenti e interessanti.
 
 Sabbatucci – Se è vero che il mezzo – 
              e in questo caso il luogo – condiziona il messaggio è anche vero 
              l’opposto. Nulla vieta che un edificio possa essere riutilizzato 
              per scopi diversi da quelli per cui è stato concepito e quindi 
              possa assumere valenze diverse. Gli esempi non mancano. Ricordo 
              che lo stesso Vittoriano, nato come monumento a Vittorio Emanuele 
              II, subì un cambio di destinazione d’uso quando accolse, dal 1911, 
              l’ “Altare della Patria”, e poi, dal novembre 1921, le spoglie del 
              Milite ignoto. Personalmente non amo il Vittoriano (come non amo 
              l’inno di Mameli), ma si tratta di un manufatto troppo imponente e 
              troppo ben collocato perché se ne possa prescindere nel momento in 
              cui si deve trovare lo spazio, simbolico o fisico, adatto a 
              ospitare il museo degli italiani.
 
 Quale dovrebbe essere dal vostro punto di 
              vista, l’utilità e la finalità del museo? Dovrebbe avere una 
              funzione di educazione della coscienza nazionale oppure dovrebbe 
              essere il luogo dove le molte Italie, ideologiche e geografiche, 
              potranno darsi convegno per essere meglio studiate, comparate e 
              conosciute?
 
 Galli della Loggia – Non bisogna 
              caricare di troppe attese ideali e di troppi empiti pedagogici 
              questa iniziativa. Un museo, alla fine è solo un museo. Se è fatto 
              bene, se obbedisce a un’impostazione convincente, se i suoi 
              materiali sono di interesse, tutto il resto viene da sé.
 
 Rusconi – Poste così mi sembrano due 
              alternative false. È ovvio che si devono evitare i toni e gli 
              intenti manifestamente pedagogizzanti, come è evidente che se si 
              vuole ricostruire un percorso che abbia anche un punto d’approdo 
              condiviso, la seconda ipotesi va scartata senza riserve. Quello su 
              cui bisogna puntare è che le diversità hanno portato a qualcosa di 
              unitario. Il vero senso di un museo degli italiani sta nella 
              possibilità di riflettere storicamente su come siamo diventati – 
              tutti, nessuno escluso, – cittadini italiani. Perché, insisto, il 
              problema vero è quello della cittadinanza. E dunque la centralità 
              di un’iniziativa del genere deve essere la Costituzione, la 
              Repubblica. Certo il problema del fascismo verrà fuori e di fronte 
              al problema che porrà non è possibile trovare una conciliazione in 
              senso ecumenico. Altro il discorso da fare per le singole 
              biografie, su cui si deve e si può ragionare con pacatezza e 
              comprensione. Anche se oggi, lo ripeto, tutti, dico tutti, ci 
              riconosciamo nei valori della Costituzione.
 
 Sabbatucci – Non credo sia il caso di 
              esagerare l’importanza del museo, sino al punto di farne una 
              specie di Tempio della Nazione. L’educazione alla coscienza 
              nazionale – intesa sempre in forme civili, e possibilmente non 
              retoriche – si può realizzare assai più efficacemente con altri 
              mezzi, soprattutto la scuola e la tv. Qui si tratta, più 
              modestamente, di dar vita a un museo storico nazionale come ne 
              esistono in altre città storiche europee (Parigi, Amsterdam, 
              Barcellona) e come invece ne mancano in Italia. In questo senso, 
              delle due ipotesi prospettate, la prima mi sembra più plausibile, 
              mentre la seconda – il luogo di convegno delle molte Italie – mi 
              sembra di più difficile realizzazione e poca adatta a una 
              istituzione permanente come un museo. Saranno poi l’uso e 
              l’organizzazione degli spazi a decidere del successo 
              dell’operazione e del suo valore simbolico.
 
 La sede centrale del museo degli italiani 
              dovrebbe essere la testa di una struttura che possa avere poi una 
              ramificazione a livello regionale e locale. In che termini si 
              potrebbe immaginare un rapporto uguale tra la periferia e il 
              centro del museo? Un’impostazione del genere dovrebbe anche avere 
              la funzione di inserire nell’idea di museo della nazione anche le 
              piccole patrie?
 
 Galli della Loggia – Si, senz’altro. 
              La vicenda storica del nostro Paese è così ricca e di un tale 
              fortissimo policentrismo che la sua illustrazione richiede 
              necessariamente una ramificazione in ambito regionale. Circa i 
              modi di questa ramificazione e il suo rapporto con il museo 
              centrale sono cose da esaminarsi entrando nel merito dei vari 
              problemi
 
 Rusconi – Il museo deve tener conto 
              delle realtà periferiche e anche di tutto il dibattito sul 
              federalismo degli ultimi anni. Questo è ovvio. Purché non si dia 
              spazio a idee di titpo antagonistico: non vorrei – per capirci – 
              andare a Monza e trovare nel museo degli italiani esposte tesi 
              antinazionali. Anche se mi chiedo con quale coraggio si possano 
              rinnegare i monumenti ai caduti che sono in ogni paese italiano e 
              che stanno lì da decenni, che sono diventati il patrimonio 
              ineliminabile della memoria storica di migliaia di comunità 
              italiane. Dunque va bene una ramificazione del museo a livello 
              regionale e periferico, purché però ci si ponga anche il problema 
              di come recuperare i musei già esistenti, come quello del 
              Risorgimento di Torino, per esempio, o i vari musei della 
              Resistenza sparsi per l’Italia. Occorre ridare vitalità anche a 
              realtà che già esistono e che assolvono a una funzione 
              fondamentale, la stessa che si propone di avere il museo degli 
              italiani.
 
 Sabbatucci – Credo di avere già 
              risposto implicitamente a questa domanda. Un museo federalista non 
              avrebbe molto senso, visto che quello di cui si sta parlando è 
              concepito come un luogo rappresentativo dell’unità nazionale. 
              Quanto alle “piccole patrie”, se così vogliamo chiamarle (ma io 
              eviterei), ossia le realtà locali, i loro musei storici se li 
              organizzeranno da sole, con le proprie forze e in base alle loro 
              esigenze culturali: non come articolazione di un progetto 
              elaborato e finanziato dal centro.
 
 29 ottobre 2002
 
 (da Ideazione 4-2002, luglio-agosto)
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