| Autobiografia della nazione di Aldo G. Ricci
 
 In questa formula, “autobiografia della nazione”, mi piacerebbe 
              potesse sintetizzarsi il progetto per un museo della storia 
              d’Italia – della patria, della Repubblica, della nazione, ecc., 
              secondo i tanti nomi che sono stati ipotizzati in questi mesi 
              durante i quali se ne è cominciato a parlare – nel quale i 
              cittadini di oggi e di domani possano entrare per ritrovarsi, 
              ricordare e imparare, riconoscersi nella complessità delle proprie 
              radici, ma anche nelle luci e nelle ombre della propria storia; 
              per rafforzare un senso di appartenenza che non comporta 
              esclusione dell’altro, ma ricostruzione di un’identità per alcuni 
              versi rimossa o perduta, per altri nascosta o intaccata, senza la 
              quale, tuttavia, come ci insegna la globalizzazione ineluttabile 
              che viviamo, la partecipazione ai processi di riassetto mondiale 
              rischia di travolgere i soggetti deboli o dai contorni 
              evanescenti.
 
 Si tratta di un compito particolarmente importante, nel caso 
              dell’Italia, in quanto, senza scomodare vecchi slogans su presunte 
              “missioni nazionali” (ormai evidentemente fuori luogo), vi è 
              tuttavia uno specifico, lontano ma non solo, legato alla nostra 
              identità in quanto Italia, che non può essere dimenticato o 
              abbandonato a un crescente deperimento senza privare non solo noi 
              stessi, ma anche il contesto continentale (di cui è sempre più 
              evidente la fragilità) e internazionale entro i quali viviamo e 
              operiamo, di un nostro proprio elemento vitale e duraturo, fatto 
              di cultura, laica e religiosa, di arte, di istituzioni, di 
              diritto, di economia, di paesaggi, di tradizioni e quant’altro. 
              Non è un caso, naturalmente, che proprio a partire dalla fine 
              degli anni Ottanta si sia aperto un dibattito complesso, a più 
              voci e secondo approcci scientifici diversi (storici, 
              politologici, istituzionali, culturali in senso lato), sul tema 
              dell’identità nazionale, sul rapporto cittadino-Stato, 
              sull’impasse della macchina istituzionale, sulla tenuta dell’unità 
              di fronte alle spinte centrifughe, sulla crisi della politica, e 
              così via. Tematiche certamente diverse, ma che hanno riproposto, 
              in forma più o meno urgente e spesso esasperata, problemi 
              lungamente rimossi per opportunismo, per calcolo o per necessità, 
              e che la tempesta dell’ ’89, con la fine della Guerra Fredda e 
              delle “scelte obbligate”, e la successiva (più o meno rapida) 
              implosione dei partiti-chiesa che avevano monopolizzato la 
              politica italiana nel dopoguerra, hanno riportato di prepotenza 
              alla ribalta.
 
 Non è questa, ovviamente, la sede per ricostruire le cause e le 
              dinamiche di questi processi, vissuti nel corso dell’ultimo 
              decennio e sui quali il dibattito è ancora largamente aperto. Qui, 
              per arrivare al nostro tema centrale, è sufficiente sottolineare 
              il nesso, evidente, tra questa lunga e solo parzialmente compiuta 
              fase di transizione, e la ripresa di una riflessione sempre più 
              vasta e articolata sul ruolo che proprio in questo contesto può 
              svolgere un recupero partecipato, serio, motivato e oggettivo, di 
              una memoria nazionale, che sia a un tempo strumento di conoscenza 
              e di identificazione collettiva, di riflessione e di orgoglio: un 
              compito al quale non a caso istituzioni e cittadini sono stati 
              richiamati ripetutamente in questi mesi dalla più alta carica 
              dello Stato. È questo, in sintesi, il contesto entro il quale 
              matura e prende voce il progetto per un museo degli italiani, su 
              cui da alcuni mesi è cominciato un ampio dibattito, favorito, come 
              si è detto, dagli interventi dello stesso capo dello Stato, 
              recepiti dal ministro per i Beni culturali, Giuliano Urbani, e al 
              quale hanno contribuito inizialmente Ernesto Galli della Loggia e 
              Maurizio Viroli, seguiti da Giovanni De Luna, Enrico Rusconi, 
              Giovanni Sabbatucci e altri.
 
 Si tratta, con tutta evidenza, di un compito allo stesso tempo 
              difficile e affascinante. Difficile perché ci troviamo su un 
              terreno minato, dove lo scivolamento nella retorica e nei sospetti 
              di criptonazionalismo sono all’ordine del giorno. Ma difficile 
              anche, e forse soprattutto, perché si tratta altresì di un terreno 
              dove il rischio di non coinvolgere realmente lo spettatore (più 
              brutalmente di annoiarlo) è veramente fortissimo. E, tuttavia, è 
              anche un compito affascinante, perché comporta l’impegno a 
              misurare la vitalità e a delineare i caratteri di un’idea di 
              nazione spesso negata o fraintesa, in mancanza della quale, 
              tuttavia, viene meno quella cornice comune e condivisa al cui 
              interno i conflitti politici e sociali possono esplicarsi in un 
              confronto anche duro, senza però correre il rischio di sfociare in 
              un clima di guerra civile o in scontro tra classi. Un’operazione 
              storico-culturale, quindi, quella di cui parliamo, dalle forti 
              implicazioni politiche (nel senso etimologico del termine, quindi 
              relativo alla polis e alla convivenza al suo interno) e di etica 
              civile, che dovrebbe consentire di creare un percorso della 
              memoria nel quale possano riconoscersi, pur nella loro diversità, 
              tutte le componenti del corpo nazionale, senza che per questo 
              vengano operate omissioni e tagli, o che ci si accontenti di 
              genericità di comodo.
 
 Enunciato il soggetto (e non era troppo difficile), resta del 
              tutto aperto il problema del suo svolgimento, sulle cui possibili 
              direzioni si sono registrate voci assai diverse, sia per quanto 
              concerne il ventaglio delle tematiche da affrontare, sia per i 
              diversi archi cronologici – a quo e ad quem – entro i quali 
              circoscrivere la trattazione, sia infine per l’ubicazione (unica – 
              e quale – o plurima) dove allocare il futuro museo. Una certezza è 
              invece la data per cui dovrebbe essere pronto: il 2011, 150° 
              dell’Unità; una ricorrenza suggestiva, che garantisce altresì un 
              arco di tempo sufficiente per varare un progetto all’altezza 
              dell’obiettivo perseguito. Senza entrare in una disamina sul piano 
              teorico del rapporto difficile e controverso tra concetti chiave 
              evocati dal nostro tema come Paese/Stato/nazione/patria, da 
              riservarsi ad altra sede (e che in tale dimensione probabilmente 
              esula dai compiti dei curatori del futuro museo), è certo che 
              parlando di identità nazionale italiana se ne può parlare in senso 
              lato e/o nel senso specifico legato alla nazione che prende le 
              mosse dalla moderna costruzione unitaria, così come è quasi 
              altrettanto certo che senza la preesistenza della prima non ci 
              sarebbe stata e non ci sarebbe la seconda, quella alla quale, nel 
              bene e nel male, apparteniamo.
 
 Di qui il problema iniziale: se e come le radici profonde 
              dell’identità nazionale possano (o debbano) trovare voce nel 
              progetto. Mi riferisco all’ombra lontana, ma ineludibile, di Roma 
              (con la Repubblica, la sacralità del diritto, l’arte, i classici e 
              così via); al significato della presenza quasi bimillenaria del 
              cuore della Chiesa cristiana nel cuore dell’Italia; alla 
              formazione di una lingua colta unitaria (pur nel forte contesto 
              dei dialetti), che con alti e bassi è stata parlata per secoli 
              nell’intera Penisola, e a cui Firenze sta per dedicare una mostra 
              e poi un museo permanente, con il quale si dovrà fare i conti; 
              alle 100 città (ma di certo molte di più) e ai 1.000 campanili, 
              dove e intorno ai quali si sono riunite e riconosciute le realtà 
              locali, i liberi comuni, quelle Repubbliche italiane che Sismondi, 
              alla vigilia del Risorgimento, additava non solo come l’ossatura 
              della futura Italia, ma anche come i modelli della moderna libertà 
              europea; al rapporto con il mare (il Mediterraneo in primo luogo) 
              che ha segnato così profondamente la natura, il costume, la 
              politica e quant’altro del nostro Paese (come ha ricordato 
              recentemente Ernesto Galli della Loggia, proponendo che l’Arsenale 
              di Venezia venga trasformato in un grande museo dedicato 
              all’Italia del mare); al Grand Tour, che ha impresso il patrimonio 
              di quella miscela di arte e paesaggio che è lo specifico culturale 
              italiano nel Dna dell’intellettualità europea; agli infiniti 
              poeti, letterati, storici, artisti (Petrarca, Machiavelli, 
              Leopardi, tanto per fare nomi ovvii) che hanno evocato lo spirito 
              di un fantasma (l’Italia), che non sembrava intenzionato a 
              materializzarsi unitariamente. E così via. Sono solo alcuni 
              tasselli di quella civiltà italiana senza la quale non è pensabile 
              la successiva nazione unitaria e che potrebbero trovare, 
              probabilmente a livello regionale, come è stato ventilato, quei 
              supporti documentari e artistici, e quelle accoglienze recettive, 
              capaci di coniugare particolarità e generalità, gonfalone e 
              bandiera, e suscettibili evidentemente di inserirsi in una rete 
              virtuale complessiva che consenta di coniugare il contatto 
              materiale con i “tesori” locali e la visione d’insieme entro la 
              quale essi s’inseriscono: un metodo che potrebbe essere facilmente 
              riproposto anche a livello centrale.
 
 Se questo è lo sfondo lontano, la prospettiva, il discorso diventa 
              più immediato e preciso quando si arriva al nodo del Risorgimento, 
              che da alcuni è stato indicato come il nucleo essenziale del 
              futuro museo. Le difficoltà a questo proposito sono di varia 
              natura. Anzitutto, in quanto è del tutto scontato che bisogna fare 
              i conti con l’esistente, a cominciare dalla struttura 
              organizzativa dei musei del Risorgimento, quello di Roma, al 
              Vittoriano, in primo luogo, poi quello di Torino, a Palazzo 
              Carignano, senza dimenticare gli altri, Milano, anzitutto, e così 
              via. Si tratta di istituzioni nate in altri contesti, 
              caratterizzati all’origine da entusiasmo e partecipazione, ma 
              spesso invecchiate con il tempo, che dovrebbero quindi essere 
              ripensate (se devono costituire, come sembrerebbe logico, almeno 
              per questo periodo storico, la base del futuro museo o del 
              complesso di musei), rivitalizzando realtà espositive concepite, 
              secondo lo stile del tempo, come collezioni di cimeli, che hanno 
              tuttavia perso progressivamente la loro intriseca “eloquenza” 
              iniziale, trasformandosi in mete obbligate di visite scolastiche 
              per lo più temute e ineludibili (esattamente il contrario di 
              quanto ci si propone).
 
 Ma si tratta anche, e forse soprattutto, di formulare una 
              rilettura in termini moderni della cruciale fase preparatoria 
              dell’Unità nazionale, che tenga conto di tutta la complessità del 
              termine ri-sorgimento, come indicato da Luigi Salvatorelli quasi 
              cinquant’anni fa, e del grande patrimonio di conoscenze accumulato 
              dalla storiografia in questo dopoguerra, ripulendo dalle 
              “incrostazioni” retoriche quel mezzo secolo cruciale per la 
              nascita dell’Italia unita che gli anni successivi al 1870 vi hanno 
              accumulato (contribuendo così ad allontanarlo dalla memoria 
              collettiva), senza per questo perdere quella componente positiva 
              del mito risorgimentale, in mancanza della quale ogni 
              rappresentazione perde le radici del suo fascino. Il confine tra 
              oleografia e ricostruzione della realtà, tra esaltazione acritica 
              e liquidazione “revisionista”, è naturalmente sottilissimo, ma su 
              questo difficile punto d’equilibrio dovrebbe misurarsi la novità 
              di una rilettura che avrà un senso solo se saprà scontare, 
              metabolizzare e restituire tutte le componenti complesse, e spesso 
              contrastanti, del grande processo risorgimentale: quella liberale, 
              moderata e monarchica, e quella repubblicana e democratica, in 
              primo luogo; così come i fondamentali risultati che il compimento 
              di un’impresa pochi anni prima impensabile consentì di 
              raggiungere, mettendo la nazione, finalmente unita, nelle 
              condizioni di intraprendere quel grande processo di crescita, 
              materiale, culturale e civile che, pur nei suoi limiti, ha fatto 
              il Paese in cui oggi viviamo.
 
 È proprio la successiva fase unitaria, che rappresenterebbe, 
              infatti, secondo altri interventi che si sono registrati sul 
              progetto, la vera, grande novità del futuro museo della storia 
              d’Italia. Il secolo e mezzo di vita dello Stato italiano (tanto 
              sarà al momento conclusivo del progetto) costituisce quindi la 
              sfida più inedita e originale in termini espositivi della futura 
              autobiografia della nazione, perché non ci sono precedenti cui 
              fare riferimento, almeno in casa nostra, se non per momenti o 
              aspetti particolari (la Grande Guerra, la Resistenza e così via) e 
              i curatori potranno quindi operare senza i vincoli derivanti 
              dall’esistenza di strutture preesistenti (come nel caso dei musei 
              del Risorgimento), ma dovranno anche scontare le difficoltà di chi 
              si muove su un terreno inesplorato, in termini espositivi, a 
              proposito del quale la storiografia ha fornito nel tempo 
              interpretazioni profondamente diverse, sempre più contrastanti man 
              mano che ci si avvicina al presente (gli esempi del fascismo, 
              della guerra civile, del dopoguerra sono scontati) e crescono 
              quindi le tentazioni non solo verso interpretazioni della storia 
              in chiave politica (che sono in qualche modo fisiologiche alla 
              natura stessa della materia trattata), ma a strumentalizzazioni 
              violente di fatti o episodi, che rischiano invece di dirottare la 
              ricerca verso forme patologiche.
 
 Qualche indicazione sul piano della metodologia potrebbe venire da 
              esperienze simili tentate in altri Paesi, come la storia di 
              Francia attraverso i documenti, realizzata presso gli Archivi 
              nazionali di Parigi; o il National museum of american history di 
              Washington, o quello di Camberra ; o ancora la Casa della Storia, 
              inaugurata recentemente a Bonn, per fare solo alcuni esempi, che 
              potrebbero essere moltiplicati scorrendo il numero dedicato ai 
              Musei di storia del Novecento dei Quaderni del Risorgimento di 
              Milano, in uscita in questi giorni (a cura di Massimo Negri e 
              Roberto Guerri). Tenendo presente tuttavia che le indicazioni 
              fornite da queste esperienze potranno essere solo estrinseche, in 
              quanto ogni nazione non ha solo una sua storia, ma è, soprattutto, 
              il risultato di un parto specifico, seguito da un processo di 
              automodellamento che ciascuno, in sede storico-espositiva, deve 
              ricostruire seguendo un proprio percorso e servendosi di una 
              bussola che può essere messa a punto solo utilizzando la pluralità 
              di filoni e di componenti che hanno contribuito a dare al Paese il 
              volto che ha assunto nel suo divenire.
 
 In ogni caso, per tradursi effettivamente in quell’autobiografia 
              della nazione auspicata in apertura, la memoria degli italiani non 
              potrà che spaziare sull’intero arco del cammino unitario (e non 
              solo sul periodo dalla Resistenza alla Costituzione, come da 
              alcuni è stato proposto per la parte postrisorgimentale del/i 
              museo/i), illuminando successi e difficoltà, contrasti e 
              convergenze, luci e ombre, aprendo armadi chiusi e tirandone fuori 
              gli eventuali scheletri, in un quadro che non si limiti alla 
              politica, ma si allarghi anche alla società, al costume, 
              all’economia, alla cultura, e che sappia utilizzare non solo i 
              documenti tradizionali che gli archivi forniscono alla ricerca 
              storica, ma più in generale tutta quella documentazione in senso 
              lato (dalla carta stampata alla fotografia, dall’oggettistica al 
              cinema) che le moderne tecniche espositive consentono di proporre 
              nelle forme più coinvolgenti, reali o virtuali che siano.
 
 Credo che proprio quell’incertezza, quel senso di precarietà 
              evocati all’inizio, a proposito dei cambiamenti che il nostro 
              Paese (ma non solo) ha conosciuto a partire dalla fase di 
              transizione apertasi dalla fine degli anni Ottanta, rendano oggi 
              paradossalmente più accettabile una trattazione nella quale 
              coesistano, all’interno di uno spazio comune riconosciuto (che non 
              può che essere la rivendicazione della democrazia costituzionale, 
              secondo le indicazioni del presidente Ciampi), posizioni diverse, 
              anche su temi che fino ad anni recenti avrebbero provocato 
              contrapposizioni insanabili. Nonostante il pessimismo che potrebbe 
              derivare dalla tendenza alla delegittimazione dell’altro che 
              affiora come un fenomeno carsico in un bipolarismo che stenta 
              ancora ad accettarsi consapevolmente (e non è questa, ovviamente, 
              la sede per analizzare le diverse responsabilità di questa 
              situazione), mi sembra tuttavia che, pur tra alti e bassi, la 
              crisi delle “verità” ideologiche del dopoguerra apra la strada a 
              una informazione plurale, che, almeno in prospettiva, potrebbe 
              dimostrarsi in grado di utilizzare le diversità come un valore 
              piuttosto che come un limite.
 
 Una volta si diceva che la verità è sempre rivoluzionaria, 
              presupponendo la sua unicità. Oggi, più sommessamente, possiamo 
              dire che le verità, parziali, frammentarie, spesso non 
              perfettamente collimanti tra loro, sono il sale della democrazia, 
              di quella democrazia che alcuni hanno indicato come il filo rosso 
              del futuro Museo della nazione, la bussola e l’approdo dell’intera 
              vicenda nazionale. Senza farsi prendere la mano da finalismi 
              fuorvianti, sono tuttavia convinto che, proprio a seguito del 
              tramonto delle ideologie, il patto costituzionale sancito dopo la 
              liberazione, pur suscettibile di aggiornamenti, possa oggi 
              rappresentare, più che in passato, la base vera e condivisa di 
              quei valori identitari che costituiscono i presupposti per il 
              funzionamento di una democrazia. Così come sono convinto che la 
              sfida del Museo (nella forma e nei contenuti che il confronto dei 
              prossimi mesi contribuirà a definire) costituisca una grande 
              occasione per tutti: non solo per scrivere quell’autobiografia 
              della nazione di cui la memoria degli italiani ha grande bisogno, 
              ma anche per contribuire (nell’arco quasi decennale della sua 
              gestazione, che dovrebbe essere il più possibile partecipata) a 
              quel processo di legittimazione reciproca tra le diverse 
              componenti del corpo nazionale che è indispensabile per il 
              progresso comune.
 
 29 ottobre 2002
 
 (da Ideazione 4-2002, luglio-agosto)
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