| Sui sentieri della Norvegia di Luigi G. de Anna
 
 E' passato mezzo secolo dalla morte di Knut Hamsun e quasi un 
              secolo e mezzo dalla sua nascita. Quasi che il lungo vivere sia un 
              privilegio dell'intellettuale di destra, come Prezzolini o Jünger. 
              Quasi che il loro lungo vivere fosse una sfida al proprio tempo e 
              agli uomini del proprio tempo. Un tempo così lungo che li aveva 
              visti prima ribelli, poi sulla cresta dell'onda politica e poi 
              vinti. Il loro non morire, più che il loro vivere, fu di molestia 
              ai loro simili negli ultimi anni della loro lunga esistenza. Come 
              i giudici dell'intellighenzia vedevano con disappunto il continuo 
              rifiorire del genio di Giuseppe Prezzolini, come i giudici del 
              Premio Nobel vedevano riaffiorare con dispetto ad ogni tornata il 
              nome di Ernst Jünger, così i giudici del Tribunale norvegese 
              restarono delusi nel constatare che quel vegliardo non si decideva 
              a morire e reclamava da loro un verdetto. Il verdetto della 
              madrepatria nei confronti del suo più illustre figlio. Knut 
              Pedersen Hamsun crebbe nella Norvegia del Nord e conobbe presto le 
              asprezze di un'esistenza in un Paese in cui le condizioni di vita 
              erano ancora così difficili per molti, da spingerli in massa ad 
              emigrare. Negli anni della giovinezza Hamsun raccolse le 
              esperienze che sono alle radici della sua arte e della sua visione 
              della vita. La bellezza selvaggia del Norrland, con i suoi fiordi, 
              il fjäll a picco sul mare, le foreste silenziose, gli spazi 
              tormentosi dell'Oceano, quel suo essere a confine col Finnmark, la 
              regione selvaggia dei lapponi dove l'Europa termina la sua lunga 
              corsa verso settentrione. Il suo essere vagabondo, il non avere 
              dimora perché divenuto scheggia già separata da una umanità dai 
              chiusi orizzonti. Il suo andarsene nella favolosa America a 
              ventidue anni. I romanzi in cui affiorano queste tre storie, Pan 
              (1894) e Fame (1890) oltre al saggio La vita culturale 
              dell'America moderna (1889) sono del resto i suoi tre scritti più 
              emblematici, quelli tramite i quali ci parla con maggior forza e 
              convinzione.
 
 Non è facile parlare di Knut Hamsun. C'è il pericolo di restare 
              soggiogati dalla nostalgia della sua Norvegia, quella tanto 
              diversa dalla ricca, moderna, un po' egoistica Norvegia di oggi, 
              rinchiusa nell'orgoglio della propria opulenza, incapace di 
              guardare all'Europa della quale ha sempre fatto parte. Hamsun non 
              è amato nel proprio Paese. Lo hanno quasi completamente rimosso 
              dalla memoria politica, confinato nelle pagine meno vistose delle 
              antologie, nascosto negli anfratti del politically non correct. 
              Eppure la Norvegia deve molto a Hamsun. Hamsun non diede alla 
              Norvegia solo un Premio Nobel (1920), ma soprattutto un'identità. 
              La Norvegia diventa negli anni del successo artistico hamsuniano 
              nazione politica, finalmente separata dalla Svezia (1905). E' 
              proprio questo processo di distacco da quella che era stata 
              un'unione contrastata ma comunque feconda, che porta i norvegesi a 
              cercare se stessi. Sono gli anni del neo-teutonismo, dello stile 
              Jugend, del ritorno post-romantico alla gloriosa eredità nordica. 
              Il mito del Vichingo, del guerriero forte che sprezza la morte e 
              sfida una natura ostile. Pur essendo Hamsun uomo di questa terra 
              antica del mito nordico, non ne fa abuso, anzi, per molti versi 
              neppure uso. I suoi romanzi più noti, come quelli appena citati, o 
              come Misteri (1892), o Il cerchio si chiude (1936), non ci 
              riportano ai secoli del passato. Hamsun, pur nutrito della storia, 
              della sua storia, scrive dell'oggi, di quel norvegese che naviga 
              ancora sul mare, ma non per compiere eroiche gesta su navi dalla 
              testa di drago, ma per tirare reti non sempre piene, per 
              trasportare merci altrui, per finire talvolta, eroe sconosciuto, 
              nei gorghi dei molti maelström dell'Oceano. Ma i suoi romanzi sono 
              anche quelli che raccontano della vita dei contadini, l'altra 
              faccia di una Norvegia che vorremmo tutta protesa sul mare, ma è 
              invece abbarbicata alla terra, una terra avara e difficile, 
              ingenerosa, che la si coltiva con fatica (Il risveglio della 
              terra, 1917). Il suo norvegese non compie gesta eroiche, anzi, 
              spesso deve combattere, perdendole, dure lotte contro le 
              difficoltà di una vita di tutti i giorni. Nei romanzi di Hamsun si 
              profila però anche la città, così piena di allettanti promesse, ma 
              così avara nel mantenerle. Sono modesti villaggi ai nostri occhi, 
              perfino Cristiania, ma metropoli a quelli del vagabondo del 
              Norrland, il quale poi avrà la ventura di vedere l'America. Ultima 
              propaggine di un mondo che è quello moderno, della tecnica, dello 
              sfruttamento dell'uomo sull'uomo, della natura falciata per farne 
              moneta. Dall'America Hamsun tornerà marcato nell'animo e nella 
              coscienza; un'esperienza che sta alla base del suo avvicinamento 
              al fascismo. Un'America da cui Hamsun si congederà definitivamente 
              nel 1888, come ne fuggirà Ezra Pound, per placare la propria sete 
              di umanità.
 
 Hamsun il "fascista", anzi il "nazista", come fu definito 
              dall'accusa al processo, che però non esaltò mai l'antenato 
              vichingo, ma che invece cantò il norvegese del suo tempo, debole, 
              fragile, incapace di parlare al suo simile per eccesso di 
              timidezza e compassione. Ecco di fronte a noi l'Hamsun che poteva 
              essere anarchico, e che allora si sarebbe salvato, ma che invece 
              scelse di parteggiare per una Norvegia che sperava più pura, più 
              decantata della malattia che aveva visto in America, la modernità. 
              Come i grandi rappresentanti delle letterature scandinave, come 
              Henrik Ibsen, come August Strindberg, come Aleksis Kivi, come 
              Halldór Laxness, anche Hamsun può essere definito "coscienza 
              critica" del proprio popolo. Ne riflette le virtù, ma anche i 
              vizi, le debolezze che lo rendono così fragile. Se dovessi 
              definire Hamsun con un solo aggettivo, direi: delicato. Se fu 
              nella vita anche duro e scorbutico, lo fu per coprire questa sua 
              natura fanciullesca, mai cresciuta, mai giunta a ponderosa 
              maturazione. Scrivendo di lui non posso non riandare con la 
              memoria al Processen mod Hamsun, che Thorkild Hansen (1927-1989) 
              pubblicò nel 1978, venendo accusato in Scandinavia di "eccessiva 
              comprensione" nei confronti di Hamsun, ma soprattutto al bel film 
              di Jan Troell (1997), con la sceneggiatura dello scrittore svedese 
              Per Olov Enquist, a sua volta basata sui documenti raccolti da 
              Hansen, che narra la vita di Hamsun dal 1935 alla morte. 
              L'immagine di Max von Sydow, magistrale interprete di Hamsun, si 
              sovrappone a quella dello scrittore. La maschera diventa il 
              personaggio. Quale fu il vero motivo dell'adesione di Hamsun al 
              fascismo, una scelta che gli costò fama, libertà, affetti 
              familiari? Bisognerebbe rileggere il suo ultimo libro, quel Paa 
              gjengrodde stier ("Sui sentieri inselvatichiti", 1949, tradotto in 
              italiano nel 1962 col titolo Io, traditore) che scrisse per 
              giustificarsi non di fronte a un tribunale di uomini faziosi, ma 
              di fronte alla sua storia, quella storia che, da scrittore, aveva 
              letto, interpretato, ma non pienamente capito.
 
 È restato famoso il suo incontro, nelle Alpi bavaresi, con Adolf 
              Hitler. Il Führer ammira questo genio della nordicità, ne vorrebbe 
              cogliere qualche scintilla, del resto era stato proprio il 
              norvegese a scrivere in Pan degli inglesi che "appartenevano alla 
              nazione di corridori, di aurighi e di viziosi che il sano destino 
              proveniente dalla Germania punirà un giorno a morte". Ma il 
              vegliardo non è venuto per conversare amabilmente, ma per parlare 
              del suo popolo angariato sotto il domino del Galautier tedesco. 
              Hitler per un po' lo ascolta, innervosito, e poi lo congeda... 
              furibondo. Ancora una volta Hamsun, fedele alla libertà e voce 
              della sua coscienza, aveva perduto il suo appuntamento con la 
              storia. E quando l'Europa nazista si riduce pezzo per pezzo alla 
              fortezza assediata che scomparirà in bagliori nibelungici, Hamsun 
              resterà fedele alla sua scelta. Sarebbe stato facile per lui 
              diventare la figura guida della Norvegia che resiste. Il giorno in 
              cui, nel maggio del '45, la Germania firma la capitolazione, 
              Hamsun scrive il suo ultimo articolo in difesa di Hitler. Se lo 
              avesse condannato non si sarebbe trovato a sedere sul banco degli 
              imputati di un tribunale norvegese. Uno dei più bei romanzi di 
              Hamsun era stato Sognatori, e chi fu più sognatore del vecchio 
              dalla candida barba, che mai era diventato vecchio, se non nel 
              corpo, che è cosa futile e debole. Il processo a Hamsun inizia il 
              26 maggio del 1945, quando lo scrittore ha 85 anni. Quasi 
              completamente sordo ha difficoltà a seguire il dibattito. L'accusa 
              è di tradimento della sua patria. Per non farlo fucilare alla 
              schiena, lo affidarono al dottor Gabriel Langfeldt, che lo 
              dichiarò di indebolite facoltà mentali. Offesa inconcepibile per 
              Hamsun. Indebolite facoltà mentali. I quattordici articoli che 
              aveva scritto durante la guerra a favore della Germania, ecco la 
              colpa che gli si imputava, erano dunque stati scritti da un debole 
              di mente. Per di più succube della moglie Marie (1881-1969), 
              l'amica di Vidkun Quisling, la collaborazionista che sconterà tre 
              anni di lavori forzati e che poi scriverà in due riprese le 
              proprie Memorie. Per dignità, non per scusarsi, Hamsun scriverà 
              anche lui la sua autodifesa, Sui sentieri inselvatichiti. Che cosa 
              resta di lui a cinquant'anni dalla morte? Quasi tutto quanto 
              scrisse è ancora oggi profondamente bello. Il suo stile scarno, ma 
              capace di far trasparire le più profonde emozioni, e la sua 
              umanità universale, seppur nutrita dal suo essere figlio del Nord, 
              lo consegnano alla vera, grande letteratura. Hamsun, passo dopo 
              passo, col suo passo da vecchio, continua a camminare lungo i 
              sentieri di una cultura europea sempre più inselvatichita.
 
 8 novembre 2002
 
 (da Ideazione 5-2002, settembre-ottobre)
 
 
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