| Il liberalismo politico di John Rawls di Susanna Creperio Verratti
 
 Nelle società sviluppate è compito politico e dovere morale dei 
              governanti responsabili difendere la libertà dei cittadini dai 
              nemici interni ed esterni, anche ricorrendo, in casi estremi, 
              all'uso della forza. A sostenere queste affermazioni non sono 
              soltanto il presidente americano Bush, il consigliere per la 
              sicurezza Condoleeza Rice e il premier inglese Tony Blair ma tutti 
              i Padri fondatori del pensiero democratico e liberale. Nei testi 
              classici del liberalismo democratico troviamo costantemente il 
              richiamo alla difesa della libertà. La libertà è infatti il bene 
              essenziale di ogni comunità politica, unico in grado di garantire 
              la dignità di ogni essere umano e condurlo alla felicità. Le 
              Costituzioni sono state scritte per ricordarlo. Tutti dicono di 
              amare la libertà eppure pochi sono disposti a difenderla a tutti i 
              costi. Molti dicono di volere la pace ma quasi nessuno osa 
              affermare che a volte, per difendere la libertà, occorre ricorrere 
              anche all'uso delle armi. John Locke per primo ebbe il coraggio di 
              giustificare la legittimità della "gloriosa" rivoluzione inglese 
              come rottura violenta ma necessaria per abbattere l'assolutismo 
              degli Stuart. Ritornò in Patria nel 1688 insieme al nuovo re 
              Guglielmo d'Orange, incoronato per volontà del Parlamento, non più 
              divina. Durante l'esilio in Olanda, Locke aveva già teorizzato la 
              ribellione al dispotismo rispondendo all'assolutista sir Robert 
              Filmer che il popolo, per liberarsi dalla schiavitù di un potere 
              dispotico, può in modo legittimo ricorrere anche al regicidio. La 
              difesa della propria vita e la lotta contro ogni nemico è per il 
              singolo condizione naturale di sopravvivenza e l'individuo entra a 
              far parte della società politica proprio per essere garantito 
              nella sua libertà regolata dalle leggi.
 
 Da allora molti secoli sono passati. Le società si sono 
              trasformate. La libertà ha conquistato la maggior parte dei paesi 
              e dei popoli ma non per questo la sua sopravvivenza è in minor 
              pericolo. Minacciata dall'esistenza di stati aggressivi e 
              violenti, non rispettosi dei diritti umani, la libertà dei popoli 
              va salvaguardata nel rispetto delle diverse culture e alla luce 
              del fatto che il principio della sovranità degli Stati, 
              all'indomani delle due guerre mondiali, non è più inviolabile. 
              Oggi i rapporti tra i popoli esigono criteri guida della politica 
              estera in direzioni rinnovate. Al loro interno, governanti e 
              cittadini delle società sviluppate, multietniche e multirazziali, 
              devono ogni giorno rispondere alla domanda di come sia possibile 
              la convivenza pacifica e democratica tra culture e fedi diverse. 
              La ferocia terroristica dell'11 settembre ha posto drammaticamente 
              gli Stati liberali di fronte a un problema ulteriore: quale tipo 
              di risposta possono e devono dare agli stati "fuorilegge" e agli 
              stati "indecenti" che sostengono il terrorismo.
 
 Spetta alle persone ragionevoli, politici responsabili ed onesti 
              intellettuali, fornire risposte pubbliche argomentate e ben 
              fondate, non ideologiche, a tali gravi questioni. La teoria del 
              "liberalismo politico" di John Rawls può fornire metodo e criteri 
              per elaborare una nuova cultura politica pubblica, a sostegno di 
              società libere e giuste che convivono in pace tra loro. Con il suo 
              "Liberalismo politico" del '91, Rawls ha fornito una risposta alla 
              domanda se e come possa esistere una società giusta e stabile di 
              cittadini liberi ed eguali, pur divisi profondamente da dottrine 
              filosofiche, religiose e morali contrastanti tra loro, perfino 
              incompatibili. Estendendo poi, in "Il diritto dei popoli" del '99, 
              la sua teoria del "liberalismo politico" al diritto 
              internazionale, Rawls ha teorizzato la libertà delle società 
              aperte contro i rischi dell'intolleranza e del fanatismo. Sino a 
              riconoscere ai popoli "ben ordinati", ossia liberali e "decenti", 
              rispettosi dei fondamentali diritti umani, il diritto alla guerra 
              giusta. Guerra giusta è per Rawls l'autodifesa degli Stati 
              liberali e democratici contro "gli Stati fuorilegge", non liberali 
              e aggressivi. "I popoli ben ordinati, afferma, infatti, sia quelli 
              liberali, sia quelli decenti, non danno inizio a guerre fra di 
              loro; entrano in guerra solo quando maturano la convinzione 
              sincera e ragionevole che la loro incolumità e sicurezza sono 
              messe seriamente in pericolo dalle politiche espansionistiche di 
              Stati fuorilegge".
 
 Criterio di reciprocità per una cultura 
              politica pubblica
 
 Cardine della teoria rawlsiana è l'applicazione del criterio di 
              reciprocità alle relazioni tra i membri della stessa società, tra 
              i cittadini e i governanti, e all'esterno tra i popoli. In "Una 
              teoria della giustizia" del '71, Rawls aveva definisce il criterio 
              di reciprocità incompatibile con la dottrina dell'utilitarismo. 
              L'idea fondamentale di giustizia dell'utilitarismo classico - 
              Rawls si riferisce alla teoria classica pura di Henri Sidgwuik, in 
              "Principles of Political Economy", del 1883 oltre che ad Hutcheson 
              e Adam Smith - è che una società è correttamente ordinata e quindi 
              giusta quando le sue istituzioni maggiori sono in grado di 
              raggiungere il livello più alto di utilità possibile, ottenuto 
              sommando quella di tutti gli individui appartenenti ad essa. Ciò 
              significa che una persona si comporta con giustizia se, fatti 
              salvi gli interessi altrui, cerca di ottenere per sé il massimo 
              vantaggio, ossia regola le sue azioni secondo il criterio di 
              utilità. Al contrario, le persone che accettano un principio di 
              libertà eguale, senza scopi particolari, ossia accettano la 
              giustizia come equità, antepongono il giusto all'utile come bene 
              pubblico; disposti ad onorare il dovere di civiltà perseguono 
              l'ideale della "Ragione pubblica". In "Il diritto dei popoli" 
              Rawls definisce "ragionevoli" quei cittadini che, considerandosi 
              l'un l'altro come liberi ed eguali, in un sistema di cooperazione 
              sociale che si prolunga di generazione in generazione, sono pronti 
              a proporsi l'un l'altro secondo termini di cooperazione equi. E 
              quando agiscono in tali termini, anche a scapito dei loro 
              particolari interessi, la sola condizione è che anche gli altri 
              facciano lo stesso. Il criterio di reciprocità richiede dunque, da 
              parte di chi lo difende, che anche gli altri possano accettare per 
              buone ragioni gli stessi termini di cooperazione come i più 
              ragionevoli. Del resto anche l'idea di legittimità politica e di 
              diritto legittimo, quando è basata sul criterio della reciprocità, 
              dice che l'esercizio del potere ha da essere fondato su ragioni 
              che noi cittadini proporremmo a sostegno delle nostre azioni 
              politiche pensando che anche gli altri cittadini potrebbero 
              accettarle.
 
 Rawls trasferisce in ambito politico la legge morale formale 
              dell'imperativo categorico che così Kant aveva cercato di 
              esprimere: "Agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo 
              stesso, puoi volere che divenga una legge universale". Solo così 
              per Rawls si può realizzare una cultura politica pubblica come 
              processo costitutivo di una Ragione pubblica che antepone i valori 
              politici alle dottrine "comprensive", ossia filosofiche e 
              religiose. Ma se le persone responsabili antepongono valori 
              politici condivisi alle proprie convinzioni e credenze personali, 
              come si può pretendere che coloro che sostengono dottrine 
              religiose, alcune delle quali basate su autorità confessionali (la 
              Chiesa o la Bibbia o il Corano) difendano al tempo stesso una 
              concezione politica ragionevole che sostenga un regime 
              democratico-costituzionale ragionevole? Infatti pur trattandosi di 
              compatibilità, non basta per i sostenitori di tali religioni 
              accettare la democrazia solo, per così dire, come modus vivendi. 
              Anche "i cittadini di fede", come li definisce Rawls, dovrebbero 
              diventare membri convinti della società democratica, ossia aderire 
              agli ideali ed ai valori di quella società. Non si chiede 
              certamente a quel cittadino di rinunciare alla sua fede ma "di 
              rinunciare una volta per tutte alla sua speranza di cambiare la 
              costituzione nel nome dell'egemonia della propria religione, 
              oppure alla pretesa di modificare i nostri obblighi al solo scopo 
              di assicurare successo o influenza alla sua dottrina. Conservare 
              queste speranze o questi obiettivi significa opporsi all'idea di 
              eguali libertà fondamentali per tutti i cittadini liberi ed 
              eguali".
 
 Come esempio concreto Rawls cita il libro di Abdull Ahmed An-Nàim, 
              "Toward an Islamic Reformation: Civil Liberties, Human Rights and 
              International Law", del '90, dove l'autore islamico propone di 
              rivedere l'interpretazione tradizionale della sharìa (la legge 
              religiosa dei musulmani), sulla base degli insegnamenti di 
              Maometto del periodo meccano, compatibili con la democrazia 
              costituzionale. Secondo tale interpretazione la sharìa sosterrebbe 
              la piena uguaglianza tra i sessi e la piana libertà di scelta in 
              materia religiosa. Scrive An-Nàim: "Il Corano non cita il 
              costituzionalismo ma il pensiero e l'esperienza hanno dimostrato 
              che senza di esso la realizzazione di una società giusta e buona 
              prescritta dal Corano è destinata all'insuccesso. Per un musulmano 
              è importante che l'Islam possa dare una giustificazione e un 
              sostegno al costituzionalismo. I non musulmani possono avere le 
              giustificazioni loro proprie, secolari o di altro tipo. Ma se 
              tutti concordano sul costituzionalismo e le sue regole…, non è 
              importante che ciascuno di noi giunga a questo accordo per ragioni 
              sue proprie".
 
 L'obiezione più diffusa all'idea di "Ragione pubblica" come 
              prodotto di una cultura politica pubblica, è che già esistono 
              valori morali e/o religiosi che, se resi condivisibili, potrebbero 
              costituire una cultura pubblica. L'esempio più evidente potrebbe 
              essere la parabola del Buon Samaritano. Rawls risponde 
              distinguendo la Ragion pubblica dalla Ragione secolare. Mentre la 
              Ragione secolare é fonte di valori utilizzati molto sovente da 
              cittadini, politici e giudici per sostenere la validità universale 
              di norme e leggi, per ragionare in termini di reciprocità occorre 
              individuare principii e valori politici che appartengono alla 
              categoria del politico. Loro caratteristiche fondamentali sono 
              tali da poter essere applicate alle istituzioni politiche di base 
              ("struttura di base della società"), di poter essere presentate 
              indipendentemente da tutte le dottrine comprensive, morali e 
              filosofiche, ed essere elaborate partendo dalle idee fondamentali 
              implicite nella cultura pubblica di ogni regime costituzionale. 
              Insomma per il "liberalismo politico" le dottrine filosofiche 
              secolari non forniscono, o forniscono solo in parte, ragioni 
              pubbliche. Esse forniscono concetti o ragionamenti filosofici e 
              morali, non sostituibili a quelli politici. Una concezione della 
              politica che sia condivisa da tutti i cittadini e come tale 
              indipendente dalle dottrine filosofiche, morali e religiose 
              sostenute in modo diverso dai cittadini stessi e dunque opposte e 
              contrastanti potrebbe già realizzare concretamente nella società 
              l'idea di tolleranza e quindi di una società democratica che possa 
              creare e conservare unità e stabilità. Tale concezione della 
              politica diverrebbe la regola della società qualora potesse 
              conquistare il consenso per intersezione di dottrine religiose, 
              morali e filosofiche. "Entro tale consenso, dice infatti Rawls, le 
              dottrine ragionevoli fanno propria, ciascuna dal suo punto di 
              vista, la concezione politica. L'unità sociale si basa su un 
              consenso intorno alla concezione politica; la stabilità è 
              possibile quando le dottrine che compongono questo consenso sono 
              affermate dai cittadini politicamente attivi e il conflitto fra i 
              requisiti della giustizia e gli interessi essenziali dei 
              cittadini, creati e incoraggiati dai loro assetti sociali, non è 
              troppo acuto".
 
 Libertà e tolleranza
 
 Le regole dettate dalla Ragione pubblica vanno quindi distinte 
              dalle dottrine religiose della trascendenza, di qualsiasi natura 
              siano. E gli Stati liberi hanno il compito di mantenere separate 
              le leggi civili da quelle religiose. Fondare le une sulle altre 
              significa generare il potere più terribile che si possa immaginare 
              perché qualsiasi decisione del leader politico anche la più 
              tremenda, si giustifica "per volontà di Dio". Oggi in alcuni Paesi 
              la separazione tra Chiesa e Stato è netta e rigorosa nel senso che 
              lo Stato non nuoce né interviene nella vita religiosa dei propri 
              cittadini. La Chiesa a sua volta riconosce l'autorità morale dello 
              Stato nelle funzioni che gli competono. In altri Paesi c'è una 
              religione di Stato e le norme religiose sono imposte con il potere 
              obbligatorio della legge. È il caso degli stati islamici in cui vi 
              è una sorta di simbiosi tra i capi religiosi che appoggiano le 
              decisioni dei governanti, e i governanti che usano il loro potere 
              per imporre l'obbedienza alle regole religiose. In questi Paesi il 
              testo delle leggi fondamentali non è una Costituzione civile ma la 
              sharìa, contenuta nel testo religioso del Corano, come insieme di 
              regole per la convivenza civile. In Italia lo Stato appoggia in 
              diverse maniere la Chiesa mentre la Chiesa considera sacra solo se 
              stessa non riconoscendo alla Legge quella maestà che induce il 
              cittadino al rispetto profondo. Nel nostro Paese manca l'idea 
              della obbligatorietà della legge (Rule of Law) che comporta il 
              riconoscimento dell'autorità sacra della legge in quanto 
              espressione della volontà popolare. La nostra democrazia risulta 
              in molti casi indebolita dalla condizione di scarsa autorità 
              morale delle sue leggi.
 
 E’ questo uno dei principali indicatori dell'appartenenza del 
              nostro popolo, in termini rawlsiani, alla categoria dei "popoli 
              decenti", non ancora del tutto "liberali". Pur facendo parte dei 
              "popoli ben ordinati", ossia rispettosi dei diritti umani, altri 
              indicatori politici rivelano che non abbiamo ancora pienamente e 
              concretamente realizzato i principii e le norme della democrazia 
              liberale, come il rispetto per la piena rappresentanza e 
              l'effettivo decentramento del potere politico. Nell'Epistola de 
              tolerantia, scritta in latino durante il suo esilio nella "libera 
              repubblica d'Olanda", Locke definì per primo compiti e fini dello 
              Stato, separandoli da quelli della Chiesa, di ogni chiesa. Mentre 
              la Chiesa deve prendersi "cura delle anime", lo Stato è una 
              società di uomini che si costituisce "per conservare e promuovere 
              soltanto i beni civili", ossia vita, libertà, sicurezza e 
              proprietà. "E gli ecclesiastici, ammoniva Locke nella conclusione 
              della sua Epistola, che predicano di essere i successori degli 
              apostoli, seguano le orme degli apostoli, e messe da parte le 
              faccende politiche, pensino soltanto, con pace e modestia, alle 
              salvezza delle anime".
 
 Oggi la Epistola de tolerantia andrebbe riscritta per le nostre 
              società multirazziali e per popoli di fedi diverse in cui il 
              tollerante rispetta la libertà altrui, o meglio tollera la 
              diversità degli altri per mantenere la propria, l'integralista 
              considera qualsiasi soluzione che non sia la propria come un 
              errore gravissimo e vuole imporre in tutti i modi la propria 
              volontà. L'integralismo, per la maggior parte dei casi, ha origini 
              religiose, nasce dalla fede in un dio esigente e giustiziere 
              oppure da convinzioni morali assolute ed intransigenti. La nuova 
              Epistola dovrebbe rispondere alla domanda di come sia possibile 
              per coloro che sostengono dottrine religiose, alcune basate su 
              testi sacri oppure su autorità confessionali, come le chiese, 
              difendere al tempo stesso una concezione politica che sostiene un 
              sistema democratico-liberale. Queste dottrine possono essere 
              compatibili con una concezione politica liberale? L'esistenza di 
              stati aggressivi e violenti, non rispettosi dei più elementari 
              diritti umani - "fuorilegge e indecenti" nel linguaggio rawlsiano 
              - pone il problema di come difendere le società ben ordinate dalla 
              loro pericolosa influenza. Non si tratta della diversa cultura, 
              religione o tradizione dei popoli, ché è dovere degli Stati 
              liberali e decenti rispettare e non offendere in termini di 
              presunta superiorità.
 
 Si tratta del problema se sia necessaria o meno anche nelle 
              relazione tra gli stati, di una nuova concezione della tolleranza, 
              come estensione del diritto dei popoli liberali ai popoli non 
              liberali. In primo luogo, afferma Rawls, bisognerebbe chiarire il 
              limite della tolleranza ossia fino a che punto le società liberali 
              e decenti possono tollerare quelle non liberali. Tollerare 
              significa non solo astenersi dalle sanzioni economiche ma 
              riconoscere le società non liberali come "eguali membri attivi e a 
              buon diritto della società dei popoli, con certi diritti e 
              obblighi, incluso il dovere di civiltà". Ciò significa che anche 
              le società non liberali sono tenute a offrire agli altri popoli 
              "ragioni pubbliche" appropriate alla società dei popoli per le 
              loro azioni. La cooperazione delle società liberali non ha da 
              essere subordinata all'imposizione alle altre società di diventare 
              liberali. Ciò contrasterebbe con l'idea di tolleranza. Ma neppure 
              si può esigere da un popolo liberare di tollerare ed accettare una 
              società che non rispetti certe condizioni di giustizia e di 
              libertà, non identiche ma analogiche con quella liberale. Rawls 
              contesta il principio guida della politica estera liberale di 
              spingere gradualmente le società non liberali in una direzione 
              liberale, sino a che tutte le società diverranno liberali. 
              L'argomentazione fondamentale è che verrebbe negata una adeguata 
              misura di rispetto verso gli altri popoli tale da ledere il 
              rispetto di sé dei popoli non liberali decenti in quanto popoli, 
              alimentando tra i loro membri amarezza e risentimento.
 
 La teoria del "liberalismo politico" estesa al diritto dei popoli, 
              deve mettere da parte la convinzione personale o sociale che 
              esistano alcune forme di cultura e modi di vita buoni in sé. Lo 
              spazio per l'autodeterminazione di un popolo, secondo Rawls, ha da 
              essere rispettato individuando ad esempio "l'attaccamento alla 
              propria cultura e l'attiva partecipazione alla vita pubblica e 
              civile come elementi di decenza. In questi termini si può pensare 
              ad una società dei popoli di tipo confederativo con ampio 
              decentramento e rispetto per la diversità. "I popoli liberali, 
              scrive Rawls, devono cercare di incoraggiare i popoli decenti 
              senza frustrare la loro vitalità insistendo con mezzi coercitivi 
              nell'obiettivo di far diventare liberali tutte le società". La 
              cosa più importante é mantenere il rispetto reciproco, dimostrando 
              il vantaggio delle istituzioni liberali e confidando nella quasi 
              spontanea trasformazione liberale dei popoli decenti.
 
 Il problema si pone quando uno stato calpesta i diritti umani del 
              suo popolo. Anche in questo caso non bisogna considerare i diritti 
              umani di cui godono i cittadini di una democrazia costituzionale. 
              Rawls suggerisce di includere nel diritto dei popoli "una classe 
              di diritti caratterizzati da una speciale urgenza, quali la 
              libertà da schiavitù e servitù, la libertà (ma non l'eguale 
              libertà) di coscienza e l'incolumità dei gruppi etnici da 
              assassini di massa e genocidi". Sono distinti dai diritti 
              costituzionali o di cittadinanza delle democrazie occidentali, ma 
              definiscono uno standard di decenza al di sotto del quale non è 
              possibile tollerare la loro mancanza di rispetto per la decenza di 
              istituzioni politiche e sociali di singole società. La violazione 
              di questa classe di diritti dovrebbe essere condannata sia dai 
              popoli liberali che dai popoli decenti, con la stessa decisione. 
              La forza politica e morale di questi diritti si stende infatti a 
              tutte le società e a tutti i popoli, compresi gli "stati 
              fuorilegge". Ecco perché, conclude Rwals, "Uno stato fuorilegge 
              che viola questi diritti va condannato e nei casi più gravi può 
              subire energiche sanzioni, fino all'intervento militare diretto". 
              Tutti gli altri popoli, liberali e decenti, si sentirebbero più 
              sicuri e protetti se gli "stati furilegge" fossero costretti a 
              modificare i loro atteggiamenti.
 
 susanna.creperio@tiscalinet.it
  
              
              6 dicembre 2002
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