| Tolkien politico di Carlo Stagnaro e Alberto Mingardi
 
 Quella che Ludwig von Mises chiamava “mentalità anticapitalistica” 
              è particolarmente diffusa fra gli artisti e i romanzieri. La ben 
              oliata macchina della propaganda socialista è riuscita a 
              trasformare in legge i suoi tabù, facendosi astutamente scudo 
              della cultura popolare. E’ così facile capicollare su romanzi e 
              rappresentazioni e film socialisti (o, come s’usa dire, 
              eufemisticamente, d’impianto sociale). Essi, lo sottolineava già 
              l’economista viennese, “descrivono condizioni miserevoli che, 
              insinuano, dovrebbero essere l’inevitabile conseguenza del 
              capitalismo”. Ora, se è vero che un artista può mettere a frutto 
              le sue abilità occupandosi d’un soggetto qualsiasi, è altrettanto 
              vero che questo “pauperismo letterario” tende a espellere miti e 
              leggende e più in generale “grandi storie” (contrapposte alle 
              “piccole storie” della miseria quotidiana di questo immaginario 
              mondo “capitalista”) dal club esclusivo della letteratura. La 
              stessa idea di “bellezza”, per come è stata codificata nella lunga 
              storia dell’Occidente, viene profondamente messa in discussione. 
              Non v’è dubbio che John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973) fosse 
              sicuramente uno scrittore controcorrente, rispetto a questa 
              tendenza. Era un cantastorie innamorato dei suoi racconti, un 
              creatore di miti e leggende. Uno studioso delle lingue del 
              passato, che senz’altro non si vergognava delle migliori eredità 
              della civiltà occidentale. Anche per questo, per tutta la sua vita 
              non mostrò alcuna simpatia per la pianificazione centralizzata 
              (concetto che pure, negli anni in cui visse, andò di moda – 
              sventolato dai comunisti o dai loro epigoni occidentali), ma anzi 
              la avversò vigorosamente. Forse questa è una delle ragioni per cui 
              si fatica a riconoscerlo come uno dei grandi scrittori del nostro 
              tempo. Nonostante il suo capolavoro – Il Signore degli Anelli – 
              abbia polverizzato ogni altro libro nelle classifiche di vendita 
              del Novecento.
 
 Non a caso, il film di Peter Jackson, La Compagnia dell’Anello 
              (raro esempio di trasposizione sul grande schermo capace di 
              catturare e preservare lo spirito del romanzo) è stato un 
              clamoroso successo ai botteghini l’altr’anno. Così sarà, in questo 
              2003, per Le Due Torri. Sono buone notizie. Perché questo successo 
              tolkieniano può rivelarsi un veicolo propizio per portare alle 
              masse cinefile idee e sensibilità diverse da quelle diffuse 
              negl’anni in cui Hollywood s’è rivelata strumento saldamente in 
              mani “progressiste”. Tolkien ha dimostrato in più d’un’occasione 
              di avere idee ben chiare sia sulle origini del socialismo, sia su 
              quello che sarebbe stato il suo inevitabile risultato. E non solo 
              perché, da cattolico devoto, non poteva sopportare chi liquidava 
              la religione come oppio dei popoli. Le sue lettere (pubblicate a 
              cura del figlio Christopher) sono uno strumento essenziale per 
              farsi raccontare ciò che egli pensava del mondo attorno a sé – va 
              ricordato che la genesi de Il Signore degli Anelli, pubblicato per 
              la prima volta nel 1954-55, risale agli anni Trenta. Il futuro 
              guardava indietro: l’alternativa sembrava essere quella fra 
              nazismo e comunismo, cioè – come Tolkien realizzò subito – fra i 
              due gemelli, figli della Rivoluzione francese2.Va inoltre 
              sottolineato quanto Tolkien fosse rimasto impressionato 
              dall’esperienza dei due conflitti mondiali, durante i quali egli 
              provò sulla sua pelle l’infinita tristezza di quell’implacabile 
              processo distruttivo. E’ stato uno dei suoi più acuti lettori, Tom 
              Shippey, ad averlo definito uno “scrittore post-bellico”. Shippey 
              nota inoltre come Tolkien abbia imparato a sue spese la lezione 
              del ventesimo secolo, cioè che “la violenza genera violenza, che 
              (per tornare all’esperienza inglese) la vittoria nella prima 
              guerra mondiale generò solo il desiderio di vendetta che sfociò 
              nel secondo conflitto mondiale. L’intera esperienza bellica 
              inglese della prima guerra mondiale ha teso, inoltre, a mostrare 
              che non c’era una precisa linea di demarcazione tra torto e 
              ragione fra i due opposti schieramenti, a dispetto di quanto 
              poteva dire la propaganda ufficiale […]. In questo contesto, i 
              personaggi di Tolkien buoni, violenti, gentili e assetati di 
              sangue – aggettivi, questi, che si adattano particolarmente a re 
              Théoden – sembrano molto meno eccentrici, paradossali o irruenti 
              di quanto abbiano indicato molti recensori”4.
 Ciò che va compreso è che Tolkien non intravide mai, nella sua 
              esperienza di vita, (e quindi non traspose nei suoi romanzi) 
              alcuna possibilità che fosse il Potere ad agire per il bene. Non 
              la trovò nel socialismo di sinistra (nella sua versione hardcore 
              edificata in Russia, o in quella softcore divenuta popolare nelle 
              democrazie a Ovest della cortina di ferro), né nel socialismo 
              “nazionale” tanto caro a certa destra (nella variante interpretata 
              fino in fondo da Hitler e preconizzata, per quanto in una versione 
              smussata agli angoli, da Mussolini). Lo scrittore inglese non 
              aveva alcuna fede in pressoché nessuna forma di organizzazione 
              irregimentata. Quando la gente prova a prevedere il futuro, tende 
              a dimenticare (o a far finta di non sapere) che la vita è assai 
              più complessa di qualsiasi “sistema” si possa progettare: il corso 
              del caso è per definizione impossibile da prevedere. Inoltre, gli 
              esseri umani agiscono seguendo la propria ragione e la propria 
              volontà, ma né l’una né l’altra s’incuneano in percorsi che siano 
              costantemente prevedibili ai pianificatori.
 
 L’anima “malefica” della pianificazione
 
 Per quanto attiene la vita in battaglia, Tolkien parla con voce 
              chiara al figlio Christopher: “Tuttavia è quasi inevitabile, dato 
              che gli esseri umani sono quello che sono, e l’unico rimedio 
              (oltre a una conversione universale) è che non ci siano più guerre 
              – né programmazione, né organizzazione, né irregimentazione […]. 
              Ma tutte le grandi cose programmate dall’alto danno questa 
              impressione alla rotellina di un ingranaggio, benché in un quadro 
              più generale abbiano la loro funzione. Una funzione il cui fine 
              ultimo è malefico. Perché noi stiamo tentando di conquistare 
              Sauron utilizzando l’Anello. E ci riusciremo (sembra). Ma lo 
              scotto sarà, come tu ben sai, di nutrire nuovi Sauron e di 
              trasformare lentamente uomini ed elfi in orchi. Non che nella vita 
              reale le cose siano così definite come in una storia, e noi siamo 
              partiti con un gran numero di orchi al nostro fianco… Bé, eccoti 
              qua: un hobbit in mezzo agli Urukhai. Conserva nel cuore la tua 
              hobbitudine, e pensa che tutte le storie sono così quando ci sei 
              in mezzo5. Tu sei dentro una storia molto grande!”.
 
 Da questo passaggio, possiamo dedurre che Tolkien fosse alquanto 
              pessimista nel suo atteggiamento verso la storia, fatta salva la 
              sua infinita fiducia nella Provvidenza. Egli era certo che ogni 
              forma di pianificazione, messa in atto da esseri umani ambiziosi e 
              presuntuosi, che s’immaginavano del tutto in sella alle proprie 
              fortune, fosse impossibile e destinata a fallire. Tuttavia, non 
              bisogna dimenticare che egli era sicuro che l’umanità agisse 
              secondo un piano più alto, che si rivelerà al termine della 
              storia, quando Dio ritornerà e dividerà i giusti dagl’ingiusti. Da 
              un certo punto di vista, Tolkien non era lontano da certe 
              sfumature millenariste: “io penso che ci sarà un “millennio”, i 
              mille anni profetizzati di governo dei Santi, cioè di quelli che 
              nonostante tutte le loro imperfezioni non hanno mai piegato il 
              loro cuore e la loro volontà al mondo o allo spirito del male (in 
              termini moderni ma non universali: alla tecnica, al materialismo 
              “scientifico”, al socialismo in uno qualunque dei suoi aspetti che 
              oggi sono in guerra)”. Non solo la pianificazione non può 
              funzionare: essa è una sorta di “rivolta contro la natura” (così 
              Murray N. Rothbard dirà dell’egualitarismo), nel senso che per 
              mezzo di essa gli uomini tentano di prendere il posto dello stesso 
              Dio. Quando essi si sentono in grado di controllare completamente 
              il proprio destino, diventano tanto presuntuosi da “uccidere Dio”. 
              Non è soltanto un’affascinante analisi, ma qualcosa di 
              empiricamente vero. Tipicamente, i regimi socialisti tentarono di 
              sbarazzarsi di ogni forma di religione fuorché l’adorazione del 
              “sistema” – come oggi le socialdemocrazie “laiche”. Quanto 
              successo abbiano avuto tali tentativi, è ancora cosa dubbia.
 
 Un non-economista decisamente 
              anti-socialista
 
 Il grande pensatore che più d’ogni altri ha combattuto, e vinto, i 
              dogmi socialisti, è l’economista austriaco Ludwig von Mises – uno 
              studioso, si può rilevare en passant, che rubò alle pagine di 
              Virgilio un motto che avrebbe calzato bene addosso a Tolkien: Tu 
              ne cede malis sed contra audentior ito. Mises (come Tolkien) vi 
              tenne sempre fede. In un suo classico saggio del 1920, rielaborato 
              in libro nel 1922 (Socialismo, appunto), Mises sostiene la tesi 
              che la socializzazione dei mezzi di produzione rende impossibile 
              il calcolo economico: la pianificazione centralizzata finisce per 
              disorientare e spezzare l’efficacia dei piani individuali. Non 
              solo l’eliminazione della proprietà privata distrugge quella 
              impalcatura di incentivi e gratificazioni su cui si regge il 
              progresso economico: ma, accentrando competenze, sposta le 
              decisioni su un singolo problema a livelli improbabili. 
              L’abolizione dei prezzi, veicolo di conoscenza in un’economia 
              libera, rende impossibile il calcolo economico. Messo ai margini 
              dall’accademia, le tesi di Mises hanno trovato soddisfazione col 
              crollo dell’Urss – quando ci è stato rivelato che alcuni 
              “pianificatori” non facevano che passare la giornata sfogliando 
              cataloghi per corrispondenza di provenienza occidentale, nel 
              tentativo di spiare i prezzi altrui e tentare così di assegnare un 
              “valore”, per quanto approssimativo, alle cose.
 
 Sarebbe azzardato sostenere che Tolkien avesse una qualche 
              familiarità con le analisi di Mises, così come lo sarebbe 
              sostenere che il professore oxoniense avesse mai frequentato 
              letture d’economia. Ma sembra che egli abbia acquisito, in virtù 
              della propria esperienza di vita, una comprensione piuttosto 
              sofisticata di come il socialismo (non) possa funzionare. Parlando 
              del desiderio di sapere e della genuina curiosità 
              nell’organizzazione universitaria egli disse: “Non è solo una 
              questione della degenerazione della genuina curiosità ed 
              entusiasmo in una “economia di piano”, sotto la quale così tanto 
              tempo destinato alla ricerca viene raccolto entro maschere più o 
              meno standardizzate e impiegato per produrre zuppe di dimensioni e 
              forma regolate dal nostro stesso ricettario. Anche se questa fosse 
              una descrizione dettagliata del sistema, io esiterei ad accusare 
              chicchessia di pianificarlo con saggezza, o di approvarlo in toto 
              ora che lo abbiamo. È cresciuto, in parte per caso, in parte per 
              l’accumulazione di espedienti temporanei. Molti pensieri vi sono 
              stati dedicati, e molto lavoro appassionato e poco remunerato è 
              stato speso nella sua amministrazione e nel tentativo di mitigarne 
              i mali”.
 
 La Contea come metafora politica
 
 In un’altra occasione, Tolkien aggiunse: “Io non sono un 
              socialista – dato che sono contrario alla “pianificazione”, 
              soprattutto perché i “pianificatori”, quando ottengono il potere, 
              diventano malvagi – ma non direi che qui abbiamo sofferto a causa 
              della malizia di Sharkey e dei suoi ruffiani. Benché lo spirito di 
              Isengard, se non quello di Mordor, salti sempre fuori. L’attuale 
              progetto di distruggere Oxford per far posto alle macchine è un 
              esempio. Ma il nostro principale avversario è un membro del 
              governo conservatore. Ma questo accade dappertutto ai giorni 
              nostri”. Da tali parole è chiaro che Tolkien non avesse simpatia 
              alcuna verso il socialismo. Egli seppe vedere chiaramente come le 
              idee socialiste s’incuneavano e a destra e a sinistra, e in 
              entrambi i casi questo significava un rigetto del cristianesimo e 
              dei valori occidentali da parte delle forze politiche. Comprendeva 
              inoltre come il socialismo non fosse soltanto un male in sé, ma 
              anche in quanto presupponeva un’immensa classe di burocrati 
              (pianificatori), il cui lavoro è in ultima analisi foriero di 
              sempre più mali per la società intera: non è una mera questione 
              d’(in)efficienza, ma anche d’(im)moralità. In un sistema in cui 
              gli individui non sono chiamati a provvedere per se stessi, ma 
              piuttosto s’affidano al potere politico, gareggiando per 
              accaparrarsene le grazie, l’ossatura morale della società comincia 
              a sfarinarsi. A Tolkien non sfuggì, inoltre, come il socialismo 
              avesse conquistato l’opinione pubblica: sia gli intellettuali, sia 
              la gente comune l’avrebbero abbracciato come la via migliore per 
              produrre benessere (in parte a causa del fatto che l’alternativa, 
              totalmente screditata proprio da una propaganda truffaldina, 
              sembrava essere ormai stata consegnata al dimenticatoio della 
              storia). Ogni seria critica del socialismo si fonda sulla 
              comprensione dell’impossibilità della pianificazione: il 
              comportamento degli individui non può essere “previsto” in alcun 
              modo che possa essere davvero significativo. Sfuggono i dettagli. 
              Come scrisse Tolkien, “un uomo non è soltanto un seme che si 
              sviluppa secondo uno schema definito, bene o male in base alla sua 
              situazione o ai suoi difetti in quanto esemplare della sua specie; 
              un uomo è allo stesso tempo un seme e per certi versi anche un 
              giardiniere, nel bene o nel male. Io sono colpito da come lo 
              sviluppo del “carattere” possa essere il prodotto di un’intenzione 
              consapevole, della volontà di modificare tendenze innate nella 
              direzione desiderata […]. In ogni caso, io personalmente trovo la 
              maggior parte della gente imprevedibile in situazioni particolari 
              di emergenza”.
 
 Parlando del “fallimento” di Frodo nel gettare l’Anello nel 
              cratere del Monte Fato, egli aggiunge: “Non approvo l’uso della 
              “politica” in un simile contesto; mi sembra falso. Per me è chiaro 
              che il dovere di Frodo era “umano” non politico. Lui naturalmente 
              ha pensato per prima cosa alla Contea, dato che le sue radici 
              erano là, ma la ricerca aveva come obiettivo non tanto il 
              mantenimento di questa o quella politica, come la mezza repubblica 
              mezza aristocrazia della Contea, bensì la liberazione di tutta 
              l’umanità [compresi Elfi, Hobbit e tutte le altre creature 
              “parlanti”] da una malefica tirannia […]. Denethor era contaminato 
              dalla politica: da qui il suo fallimento e la sua sfiducia in 
              Faramir. L’obiettivo principale per lui era quello di conservare 
              l’assetto politico di Gondor, così com’era, contro un’altra 
              potenza, che era diventata più forte e quindi incuteva timore e 
              doveva essere combattuta per quel motivo più che per il fatto che 
              era corrotta e malvagia. Denethor disprezzava gli uomini deboli e 
              si può star sicuri che non faceva distinzioni fra orchi e alleati 
              di Mordor. Se fosse sopravvissuto come vincitore, anche senza 
              usare l’Anello, si sarebbe avviato a grandi passi sulla strada 
              della tirannia, e il trattamento che avrebbe riservato alle 
              popolazioni sconfitte dell’Est e del Sud sarebbe stato crudele e 
              vendicativo. Era diventato un leader “politico”: Gondor contro 
              tutti gli altri”. Tolkien, inoltre, riconosce la bontà della 
              “causa di chi ora si oppone al Dio-Stato12 e al maresciallo Tizio 
              o Caio come alto sacerdote, anche se è vero (sfortunatamente) che 
              molte delle loro azioni sono sbagliate, anche se fosse vero (e non 
              è così) che gli abitanti dell’Ovest, tranne che una minoranza di 
              ricchi padroni, vivono nella paura e nella miseria, mentre gli 
              adoratori del Dio-Stato vivono in pace e in abbondanza e in piena 
              stima e fiducia reciproche”. Ma, e noi oggi lo sappiamo bene, gli 
              adoratori del Dio-Stato hanno costretto interi popoli a 
              sperimentare la più nera povertà che l’umanità abbia mai 
              conosciuto, dovuta interamente a ragioni politiche (l’intreccio 
              tra carestia e collettivizzazioni in Urss, in particolare, è stato 
              indagato a fondo da Robert Conquest).
 
 Non solo, dunque, Tolkien era perfettamente a conoscenza dei 
              problemi connaturati al socialismo: egli desiderava esprimere la 
              propria posizione in termini così chiari, da dedicare al tema uno 
              dei più importanti (e meno studiati) capitoli del suo capolavoro: 
              l’ottavo capitolo del sesto libro, “Percorrendo la Contea”. Dopo 
              la guerra dell’Anello, gli Hobbit ritornano a casa, giusto per 
              imbattersi in una terribile sorpresa: il malvagio Saruman (il 
              filosofo che sogna di diventare re secondo Tolkien) ha preso il 
              potere e imposto un regime socialista. Per comprendere fino a che 
              punto egli abbia modificato la situazione economica e politica 
              della Contea, val la pena di ricordare come stessero le cose prima 
              del suo arrivo. La Contea era un fazzoletto di terra i cui 
              abitanti sapevano appena cosa significasse la parola 
              “coercizione”. Era una sorta di confederazione fra quattro entità 
              politiche (i “decumani”). Essa “non aveva in quel tempo un vero e 
              proprio “governo”. Ogni famiglia si occupava dei suoi affari. I 
              lavori agricoli necessari per produrre i generi alimentari ed i 
              continui pasti occupavano interamente le loro giornate. Negli 
              altri settori non erano, in linea di massima, avidi ed ingordi, 
              bensì generosi e moderati, tanto che le dimensioni dei fondi, 
              fattorie e botteghe rimanevano immutate per intere generazioni”. 
              Se una volta c’era stato un re, al tempo della guerra dell’Anello 
              la Contea non aveva sovrano. Gli Hobbit “attribuivano al re dei 
              tempi antichi tutte le leggi fondamentali, e generalmente le 
              osservavano di loro spontanea iniziativa, considerandole regole 
              antiche e giuste”.
 
 Di ritorno dal viaggio che ha portato alla distruzione 
              dell’Anello, i quattro Hobbit (Frodo, Sam, Merry e Pipino) 
              scoprono terribili mutamenti nella vita della Contea. Saruman 
              (noto agli Hobbit di laggiù come “Sharkey”) ha fatto in modo di 
              creare un potere centralizzato e un’economia pianificata. Egli 
              inoltre ha messo sul “trono” Lotho, che si rivela al tempo vittima 
              e predatore. In realtà, a un certo punto egli viene segretamente 
              ucciso e, se dobbiamo dar retta alla voce melliflua di Saruman, 
              addirittura mangiato dai suoi scagnozzi. È interessante apprendere 
              come Sharkey sia riuscito a cambiare persino il paesaggio della 
              Contea. Nonostante l’anno sia stato clemente, gli Hobbit 
              sperimentano drammatiche carestie: “Noi coltiviamo un sacco di 
              roba, ma non sappiamo esattamente dove vada a finire. Sono tutti 
              questi “raccoglitori” e “spartitori”, suppongo, che girano 
              misurando e contando e portando tutto ai magazzini. Più che 
              spartire raccolgono, e non vediamo mai più la maggior parte della 
              roba”. Inoltre, “le uniche cose che crescevano erano le Regole, e 
              gli Uomini andavano in giro raccogliendo tutto “per un’equa 
              distribuzione”: il che significava che loro prendevano tutto e noi 
              niente”. Una moltitudine di nuovi “pubblici ufficiali” viene 
              reclutata dal governo, poiché ovviamente tante regole hanno 
              bisogno di altrettanti “tutori dell’ordine” che le facciano 
              rispettare. La pianificazione centralizzata riesce a rovinare del 
              tutto il paesaggio della Contea. La burocrazia abbisogna di nuovi, 
              sporchi edifici nei quali serrare i ranghi: gli alberi vengono 
              abbattuti, e le industrie inquinano terra e acqua. Il vecchio 
              mulino, ad esempio, viene tirato giù per costruirne al suo posto 
              “uno più grosso”, subito riempito “di ruote e aggeggi stranieri”. 
              Sharkey è sempre al corrente di quanto pensano gli Hobbit, grazie 
              alle sue spie sguinzagliate nei villaggi (molte delle quali sono, 
              esse stesse, Hobbit: il socialismo mette gli uni contro gli 
              altri). “Questo è peggio di Mordor! – dice Sam – Molto peggio, in 
              un certo senso. Ti colpisce dritto al cuore, come si suol dire, 
              perché questa era la casa del cuore, e ce la ricordiamo come era 
              prima”. “Sì, questo è Mordor. – replica Frodo – Una delle sue 
              opere. Saruman lavorava per Mordor, anche quando credeva di fare i 
              propri comodi. E lo stesso è accaduto per coloro che furono 
              ingannati da Saruman, come Lotho”. Così, essi organizzano una 
              rivolta e riescono finalmente a scacciare Sharkey (che, in realtà, 
              viene ucciso dal suo stesso servo, Vermilinguo). Dopo, c’è la 
              restaurazione: “Prima di Capodanno non rimaneva in piedi più un 
              solo mattone delle nuove case dei Guardacontea e delle altre 
              costruzioni degli “Uomini di Sharkey”; ma i mattoni servirono a 
              riparare molte antiche caverne, rendendole più asciutte e 
              accoglienti”20. Il che ci sembra indicare come Tolkien avesse 
              capito che il socialismo è non solo ingiusto, ma anche 
              inefficiente: persino un mattone può essere usato in maniera più 
              appropriata grazie ad un regime di istituzioni libere e 
              decentrate.
 
 Tom Shippey nota a proposito che “c’è qualcosa di suggestivo anche 
              nella nota “voce“ di Saruman, che sembra sempre “saggia e 
              ragionevole”, e risveglia negli altri il desiderio di “sembrare 
              anche loro saggi, accondiscendendo rapidamente”. La rudezza di 
              Gandalf rappresenta il rigetto dell’Utopia e l’insistenza sul 
              fatto che nulla è gratis. Persino Lotho “Pustola”, parente di 
              Frodo, ha un suo ruolo poiché egli è così manifestamente […] avaro 
              e arrogante, ma sempre a posto con la legge, almeno fino a quando 
              i suoi superiori non si sbarazzano di lui […]. Ciò nonostante 
              Saruman ha un tratto distintivo, che è la sua associazione col 
              socialismo”. In precedenza, Saruman aveva tentato di convincere 
              Galdalf che azioni malvagie possono servire a raggiungere un fine 
              virtuoso: “Si tratterebbe soltanto di aspettare, di custodire in 
              cuore i nostri pensieri, deplorando forse il male commesso cammin 
              facendo, ma plaudendo all’alta meta prefissa: Sapienza, Governo, 
              Ordine; tutte cose che invano abbiamo finora tentato di 
              raggiungere, ostacolati anziché aiutati dai nostri amici deboli o 
              pigri. Non sarebbe necessario, anzi non vi sarebbe un vero 
              cambiamento nelle nostre intenzioni; soltanto nei mezzi da 
              adoperare”. Come sottolinea, ancora, Tom Shippey “ciò che Saruman 
              dice incapsula molte delle cose che il mondo moderno ha imparato a 
              temere di più: l’abbandono degli alleati, la subordinazione dei 
              mezzi ai fini, la conscia accettazione della colpa in un omicidio 
              “necessario”. Ma il modo in cui egli lo dice è significativo 
              anch’esso. Nessun altro personaggio nella Terra di Mezzo possiede 
              la malizia di Saruman nel bilanciare le frasi l’una con l’altra 
              così che le incompatibilità sembrino risolversi, e nessun altro 
              utilizza parole vuote come “deplorando”, “l’alta meta prefissa”. 
              Saruman, quindi, non rappresenta soltanto il socialismo, ma anche 
              quella vocazione tutta moderna al compromesso, la disponibilità a 
              rinunciare ai princìpi per il potere – e si potrebbe sospettare 
              che la sua funzione nell’economia del romanzo sia proprio di 
              mostrare che quando si accetta di “dialogare” col male, si finisce 
              per giocare sotto le sue regole. Così ogni successo diventerà 
              temporaneo, e ogni vittoria sarà una vittoria di Pirro, poiché 
              alla fine il male finirà per imporsi – a meno che chi è forte 
              abbastanza (come Gandalf, e in parte Frodo, Sam e gli altri membri 
              della Compagnia dell’Anello eccetto Boromir) si rifiuti di seguire 
              il male sin dall’inizio. I mezzi sono il fine.
 
 Tolkien coscienza civile del Novecento?
 
 Possiamo concluderne che Tolkien fosse un romanziere 
              anti-socialista? Certo che lo era e, assieme, era molto di più. 
              Jessica Yates ha senz’altro ragione nel sottolineare come le 
              critiche mosse da Tolkien al nazismo s’applichino anche al 
              socialismo. La Yates per questo lo definisce un 
              “anti-totalitario”24. Sta bene, ma bisogna capire cosa sia un 
              “anti-totalitario”. Se l’opposizione al totalitarismo s’intende 
              come, in positivo, un’acritica adesione agli “ideali” della 
              democrazia, abbiamo dimostrato in altra occasione come Tolkien non 
              cadesse in questa trappola punto. Egli sapeva che la democrazia è 
              di per sé un mezzo attraverso il quale alcuni governano altri, e 
              per questo è potenzialmente pericolosissima. Infatti, scriveva, 
              “Io non sono “democratico” solamente perché l’ “umiltà” e 
              l’eguaglianza sono princìpi spirituali corrotti dal tentativo di 
              meccanizzarli e formalizzarli, con il risultato che non si 
              ottengono piccolezza e umiltà universali, ma grandezza e orgoglio 
              universali, finché qualche orco non riesce a impossessarsi di un 
              anello di potere, per cui noi otteniamo e otterremo solo di finire 
              in schiavitù”. L’opposizione di Tolkien al totalitarismo, insomma, 
              non assunse mai i contorni (peraltro di per sé vaghi) 
              dell’ideologia “democratica”. Piuttosto, gli va riconosciuta la 
              sensibilità e l’intelligenza d’aver compreso come ogni forma di 
              governo sia di per sé distruttiva – e, parafrasando Thomas 
              Jefferson, il governo che governa di più è quello che governa 
              peggio.
 
 La coerenza di Tolkien è cristallina: esce preponderantemente 
              dalle lettere, ma anche dalla sua stessa simbologia. L’Anello come 
              Potere, che può e dev’essere distrutto ma non “riformato”: non se 
              ne può fare un buon uso, perché l’Anello è il suo uso, il mezzo è 
              il fine, il Potere agisce per il Potere stesso. Tolkien ha visto 
              da vicino il Leviatano spiegare le ali. Lo conobbe da cattolico 
              inglese, erede di una storia di incomprensioni quando non di 
              soprusi. Lo conobbe da uomo, spedito al fronte e ridotto a carne 
              da cannone, e poi da padre, in vigile apprensione per il destino 
              analogo patito dai figli. Non si fatica a comprendere da dove gli 
              veniva quella straordinaria capacità di cogliere la ragione 
              crudele degli ingranaggi dello Stato. Quel che dovrebbe stupire, 
              piuttosto, è ch’egli sia stato l’eccezione più che la regola. Una 
              generazioni di intellettuali, che visse la stessa vita, scelse il 
              silenzio se non la complicità, si rifugiò consapevolmente in 
              illusioni sanguinose e ne cantò le lodi. E’ in questo inventore di 
              miti che va cercata la vera “coscienza civile” del Novecento.
 
 17 gennaio 2003
 
              (da 
              Ideazione, 1-2003, gennaio-febbraio) |