| Giorgio Gaber, ritratto di un artista 
              libero di Cesare G. Romana
 
 Gli chiesi, una volta, se si considerasse un anarchico, l’unica 
              definizione che mi pareva condensare la sua scontrosa, disorganica 
              appartenenza politica. “Semmai anarcoide”, rispose: tanto era 
              refrattario alle etichette. Ecco perché ci mancherà, Giorgio 
              Gaber: era, con De André e Guccini, tra i rari uomini liberi di 
              cui la nostra canzone d’autore disponesse. Quando Tenco faceva 
              conoscere, di De André, “La ballata dell’eroe” e Guccini scriveva 
              “L’antisociale”, lui bamboleggiava - vero - con le acquarellate 
              tenerezze di “Genevi”. Ma il suo curriculum aveva già incamerato 
              il jazz (con Reverberi, Tomelleri e Tenco stesso) e la stagione 
              rock dei tardi anni ’50, condivisa con Jannacci e Celentano nel 
              segno di una provocatoria demenzialità: un po’ per esorcizzare col 
              nonsenso l’involuzione di un rock’n’roll neonato, ma già malato di 
              business, un po’ per prender le distanze dai severi studi da 
              ragioniere, compiuti presumibilmente senza amore all’istituto 
              Moreschi. Quando firmò il suo primo successo, nel ’58, con “Ciao 
              ti dirò” (“pupa ciao ti dirò/ ba-babaciami e/ ti lascerò”), il 
              ragionier Gaberscik, figlio di triestini cresciuto a pane e 
              milanesità, aveva 19 anni e almeno una certezza: che “Elvis - mi 
              disse, molti anni appresso - era soltanto un buffo bambolone”, e 
              quanto al rock “sapevamo che la vera musica era un’altra, ma 
              avevamo il diritto di giocare. E di tirar su qualche lira”.
 
 L’incontro con Paoli, Tenco e gli altri del vivaio genovese svelò 
              a Gaber la sua anima più pensosa, sebbene la grazia di pagine come 
              “Non arrossire” o “Le strade di notte” offrisse un singolare 
              contrasto con quella faccia clownesca, illuminata da lampi 
              sardonici, scandita da un nasone che sembrava posticcio. Ma la 
              voce era profonda e impaziente: evocava Brel, il grande maestro, 
              con in più qualche traccia di straniamento brechtiano, e un’aguzza 
              inclinazione all’ironia. Il che la rendeva poco idonea ai languori 
              romantici: nato per l’affresco sociale e per l’esercizio satirico, 
              il garbato madrigalista non tarda a scoprirsi giullare, inventa 
              con Umberto Simonetta i bozzetti meneghini e picareschi di “La 
              ballata del Cerutti”, “Trani a gogò”, “Porta Romana”, epopea 
              spicciola di piccola malavita e di epicureismo da osteria. E da 
              qui al ghigno beffardo di La Chiesa si rinnova il passo è breve. 
              La sterzata si compie mentre, morendo gli anni ’60, la prima 
              generazione cantautorale cede alla seconda, e il pubblico 
              giovanile chiede che alla poetica dell’assoluto individualismo 
              subentri una maggiore attenzione alla società di cui l’individuo è 
              ospite. E’ da qui che parte il Gaber più vitale: sceso per sempre 
              dalla sua “Torpedo blu”, ripudiate balere e Canzonissime, 
              giubilati i brindisi a barbera e champagne e altre amabili 
              evanescenze, il Giorgio sceglie il teatro, calza l’abito grigio 
              del signor G e dà il via a quell’impietosa rilettura della 
              commedia umana che durerà trent’anni. Il signor G, che dà il 
              titolo al primo spettacolo della serie, è ovviamente una maschera: 
              innesta l’Uomo Qualunque di Musil sul Pasolini “corsaro”, 
              intreccia sgomenta mitezza, stralunato stupore, indignazione 
              imbelle. Più qualche sana invettiva, per farsi le ossa. Legge il 
              mondo come un prontuario di psichiatria o una cantica dantesca, i 
              cui abitanti sgambettano verso la propria rovina con allegra 
              insipienza, troppo accecati dal bagliore dei nuovi idoli - il 
              profitto, il consumismo, la tivù - per accorgersi che dal feretro 
              dell’umanesimo non potrà che scaturire la fine dell’Uomo.
 
 Il cantore di “Non arrossire”, insomma, ha trovato un senso 
              definitivo al proprio lavoro: “Fare come se ogni spettacolo - 
              teorizza - fosse l’ultima opportunità di aprire l’armadio degli 
              scheletri”. Lo aiuta, dal ’73, un coautore come Sandro Luporini, 
              pittore versiliese, anarchico col gusto del teatro come autopsia, 
              e della parola come bisturi. Entrambi di sinistra, è soprattutto 
              sulla sinistra che i due puntano il loro scandaglio, per 
              esplorarne, con puntiglio da entomologi e rabbia da innamorati 
              traditi, contraddizioni e inadempienze, vezzi modaioli e 
              massimalismo parolaio. “Qualcuno era comunista - declamava Gaber 
              in un suo monologo - perché si sentiva solo. Perché era così ateo 
              che aveva bisogno di un altro dio. Perché credeva di poter essere 
              vivo e felice solo se lo erano anche gli altri. Ma era solo una 
              forza, un volo, un sogno”. E al vostro cronista spiegava: “Non è 
              una canzone politica, è una pagina esistenziale. Breznev, Stalin, 
              Cuba non c’entravano niente, rivendicavamo il nostro diritto 
              all’utopia, il miraggio di una vita migliore. Poi il sogno è 
              sfumato, ed è rimasto il vuoto”. Così, con nel cuore questo sogno, 
              Gaber e Luporini si guardano intorno, tra chi dovrebbe 
              condividerlo: non trovano che i cascami di un goscismo burocratico 
              e vaniloquente, nel cui ristretto orizzonte l’individuo si 
              smarrisce nella massa, la solidarietà in un solidarismo 
              dolciastro, la ribellione nella declamazione da bar Casablanca. E 
              l’utopia negli slogan: “Un’idea - canta Gaber - finché resta 
              un’idea/ è soltanto un’astrazione/ se potessi mangiare un’idea/ 
              avrei fatto la mia rivoluzione”. In quest’ottica, i titoli con cui 
              il signorGattraversa cronaca e storia di tre decenni suonano 
              duramente emblematici: da “Dialogo tra un impegnato e un non so” a 
              “Anche per oggi non si vola”, da “Far finta di essere sani” a 
              “Polli d’allevamento”, da “Libertà obbligatoria” a “E pensare che 
              c’era il pensiero”.
 
 \La democrazia che scade a rituale (“Le elezioni”), lo sfaldarsi 
              della coscienza collettiva (La libertà), l’attrito fra teoria e 
              prassi (“In Virginia il signor Brown/ era certo il più 
              antirazzista/ ma quando sua figlia sposò un uomo di colore/ lui 
              disse: bene, ma non era di buon umore”): ecco altrettante tappe 
              del viaggio di Gaber nel labirinto dei luoghi comuni e delle 
              efferatezze mediatiche, nel tramonto delle ideologie o peggio 
              nello scadere di queste ultime a dogmi. Come in quei due 
              monologhi, in cui il signor G incontra Marx e Cristo, e ad 
              entrambi si rivolge col linguaggio delle rispettive ortodossie. 
              Venendo da entrambi zittito: “La lotta di classe è superata, oggi 
              il problema è la produzione”, sentenzia Marx. E Gesù: “Dell’anima 
              ci siamo occupati abbastanza: ora pensiamo al corpo “. E’ il 
              momento della discesa agli inferi, del canto come estrema 
              ammissione di impotenza. E dalla gola del signor G erompe così “Io 
              se fossi Dio”, fluviale anatema che passa in rassegna 
              democristiani, socialisti, radicali, comunisti fino alle Bierre, 
              al cui cupo delirio il Giorgio non perdona di avere fatto 
              dell’amletico Moro non solo un santo, ma addirittura “l’unico 
              statista”. UnGaber torvamente nihilista? Certo che no: di 
              spettacolo in spettacolo, continuava il lungo viaggio profetico 
              tra le assortite viltà di un’epoca e le sue pur remote possibilità 
              di riscatto. All’alba del Duemila, il disincantato e appassionato 
              giullare di tante avventure della ragione e del cuore, il 
              fustigatore implacabile era tornato, dopo trent’anni, nel chiuso 
              d’una sala di registrazione. Se il divenire della malattia aveva 
              rarefatto le sue tournée, non aveva diluito la sua vena di 
              moralista, e il nuovo disco ne aveva fornito la prova. Già nel 
              titolo, “La mia generazione ha perso”: certificazione d’una 
              sconfitta, se visto alla lettera, ma anche aurora d’una possibile 
              speranza, se letto in filigrana.
 
 Caduti ideali e illusioni, liquefatta la fede nella politica, 
              avvertita l’inutilità del senso critico, rimane pur sempre la 
              vita, ammoniva Gaber. E la vita è, da se stessa, speranza. Ora sta 
              per uscire un disco nuovo, e ancora una volta il titolo è 
              emblematico: “Io non mi sento italiano”. Ecco perché mancherà, e 
              molto, una voce come quella di nostro fratello Gaber: con i suoi 
              eccessi furenti e il suo implacabile buon senso, le sue analisi a 
              volte lucidissime e a volte sommariamente liquidatorie, la sua 
              indignazione da Savonarola beffardo, conscio di rivolgersi ad 
              un’umanità arrivata, ormai, “al minimo storico della coscienza “. 
              Da fustigare, certo. Ma per amore.
 
 31 gennaio 2003
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