| Quando la nostalgia è postmoderna di Filippo Rossi
 
 Il sentimento più tipico dell’ultima stagione cinematografica, 
              musicale, narrativa? Sicuramente, la nostalgia. Un sentimento, a 
              ben guardare, tutt’altro che passatista e che, anzi, potrebbe 
              assumere in sé l’essenza stessa della postmodernità. Lo rivela la 
              stessa origine del suo etimo. Quando il 22 giugno del 1688, il 
              medico svizzero Johannes Hoffer presentava a Basilea la sua 
              dissertazione medica Sulla Nostalgia non immaginava il successo 
              che quel termine avrebbe avuto nei secoli a venire. Lo aveva 
              coniato per quell’occasione prendendo in prestito, magari 
              “nostalgicamente”, due parole greche, nóstos (ritorno) e álgos 
              (dolore): la “nostalgia” come “dolore per l’impossibilità del 
              ritorno”. Tutto per Joahannes Hoffer sarebbe dovuto rimanere molto 
              asettico. Scientifico. Certo, per i soldati svizzeri in servizio 
              nell’esercito francese i problemi causati dalla lontananza della 
              patria e dal cambio di clima non erano di poco conto: febbre, 
              vomito, svogliatezza, mancanza di appetito, persino morte… Ma, 
              nata in ambito medico, la nostalgia ci mise pochissimo a rompere i 
              troppo angusti confini delle scienze esatte. E così, già nel 
              Settecento, la staffetta passò dai medici ai poeti e ai filosofi.
 
 Nel loro Dizionario della memoria e del ricordo, Nicolas Pethes e 
              Jens Ruchatz cercano di definire la nostalgia come viene percepita 
              nel sentire comune: “Sentimento di rimpianto malinconico verso 
              ambiti di esperienza del passato, che sorge da un’insoddisfazione 
              nei riguardi del presente”. Ancora come malattia, quindi, anche se 
              dell’anima. Quei poveri soldati svizzeri che sentivano la mancanza 
              delle loro montagne, del loro latte di capra, della loro musica, 
              del muggito delle loro mucche, sarebbero, secondo questa lettura, 
              nostalgici per un legame obbligato con la propria terra d’origine, 
              per un cordone ombelicale mai tagliato, solo per “eccesso di 
              identità”. D’altra parte, Immanuel Kant osservava che la nostalgia 
              “colpisce più la gente delle regioni povere, ma con forti vincoli 
              di fratellanza e di parentela, che non gli uomini di affari il cui 
              motto è patria ubi bene”. E in una dotta dissertazione del 1763 
              Jean-Jacques Rousseau azzardava un legame, un nesso, tra povertà 
              dei villaggi e nostalgia, intravedendo, illuministicamente, nel 
              diffondersi del benessere l’estinzione della nostalgia: perché 
              povertà è anche prigionia del domestico, del familiare, insomma di 
              ciò che solo si possiede. E nel diciannovesimo secolo molti medici 
              ritenevano che la nostalgia sarebbe guarita grazie al progresso e 
              alle conquiste in ambito medico. Le previsioni di Rousseau e di 
              quei medici non si sono però avverate. Anzi...
 
 La storia del pensiero moderno ha raccontato ben altro. La 
              nostalgia è sopravvissuta nell’Occidente opulento, ritrovando se 
              stessa. Nel suo Nostalgia, storia di un sentimento Antonio Prete 
              ha spiegato: “Allontanatasi dal recinto delle patologie, la 
              nostalgia ha abitato dunque le forme del sentimento, i loro 
              malcerti confini, la loro diffusa indeterminazione… La nostalgia 
              può avere per oggetto Itaca, l’Eden, la lingua prebabelica, 
              l’infanzia, il buon tempo antico, la frugalità dei costumi, e, con 
              un ossimoro violento, persino... il futuro”. Il primo è stato 
              Baudelaire: con lui la nostalgia si è svuotata definitivamente del 
              suo stesso contenuto e il paese della lontananza si è trasformato 
              nel “paese mai conosciuto”. Poi, negli ultimi due secoli del 
              millennio, filosofi, poeti, artisti, registi hanno fatto della 
              nostalgia una musa ispiratrice, prefigurandola, gradualmente, ma 
              inesorabilmente, per quello che, forse, è sempre stata. Novalis ne 
              era convinto: “La filosofia è propriamente nostalgia, è desiderio 
              di sentirsi ovunque a casa propria”. Non è l’identità, quindi, la 
              causa prima della nostalgia moderna, ma, per assurdo, la fuga 
              un’identità data una volta per tutte. “Nostalgia dell’infinito”, 
              l’ha chiamata Carducci.
 
 Sulle orme di Ulisse
 
 “L’antica malattia non ha più oggetto – spiega Prete – e dunque 
              non c’è ritorno che possa guarire”. Imponderabile, non 
              catalogabile, indefinibile: per queste sue caratteristiche la 
              nostalgia è stata scelta dai romantici come la migliore arma 
              contro l’illuminismo. Lo ha spiegato Svetlana Boyn: “In risposta 
              all’illuminismo, che poneva l’accento sull’universalità della 
              ragione, i romantici iniziarono a celebrare la particolarità del 
              sentimento…”. Ma “la nostalgia romantica non è una mera antitesi 
              al progresso”. Essa, piuttosto, voleva scardinare la “concezione 
              lineare del progresso”. Ed è forse proprio da questo suo “saper 
              scardinare” che bisogna cominciare a leggere la capacità 
              “rivoluzionaria” della nostalgia. Una capacità fatta di memoria e 
              futuro. Mai di passato.
 
 E così che la nostalgia si scopre, alla fine, come sentimento 
              profondamente moderno. Meglio: come sentimento nato con la 
              modernità e, soprattutto, alla base stessa della modernità. “La 
              nostalgia non è – ha spiegato Fausto Gianfranceschi nel suo 
              recente libro Elogio della nostalgia (edizioni Il Minotauro, Roma, 
              2002) – un sentimento vano e retrivo; al contrario, è levatrice di 
              ricerca, di conoscenza, di progettazione, fin dai tempi arcaici”. 
              La nostalgia, dunque – scrive Gianfranceschi – “come urgenza 
              ulteriore, come ansia di conoscere, niente affatto come 
              ripiegamento intimistico”. Nostalgia per un paese mai conosciuto, 
              come Baudelaire. Nostalgia per l’infinito, come Carducci. 
              Nostalgia per il futuro, come dirà Musil. Una cosa è certa: la 
              nostalgia è un sentimento che non ha bisogno di un oggetto per 
              essere vitale. Anzi. Quando la nostalgia si ritrova la palla al 
              piede di un oggetto – una famiglia, una patria, un’identità, una 
              terra, un passato – si appesantisce, si snatura, tradisce se 
              stessa. E’ il ritorno impossibile che diventa una scommessa, un 
              azzardo. Ed infatti sfogliando le mille pagine che hanno 
              raccontato il sentimento più umano che esista, la nostalgia per il 
              futuro sembra quella più autentica, più vera, più profonda. Sin 
              dal primo eroe nostalgico raccontato dalla letteratura 
              occidentale: quell’Ulisse che – e non può essere un caso – viene 
              da tutti considerato come il simbolo stesso di quaella tensione 
              antropologica che sarà propria della modernità.
 
 Ulisse: il primo dei nostalgici, il primo dei moderni. “L’Odissea, 
              l’epopea fondatrice della nostalgia – scrive Milan Kundera ne 
              L’ignoranza – è nata agli albori della prima cultura greca. Va 
              sottolineato: Ulisse, il più grande avventuriero di tutti i tempi, 
              è anche il più grande nostalgico”. Ulisse torna per non tornare, 
              per non essere riconosciuto, per non riconoscere. Il ritorno di 
              Ulisse è il suo viaggio, non è il suo approdo. Tanto è vero che 
              Dante fa finire il suo Ulisse moderno non ad Itaca ma oltre le 
              colonne d’Ercole, là dove l’uomo non avrebbe dovuto andare. “Non 
              si ritorna mai – spiega Vladimir Jankélévitch – colui che ritorna, 
              come il Figliol prodigo e come Ulisse, è già un altro… Se il 
              desiderio del ritorno è il sintomo di una nostalgia chiusa, il 
              disappunto che prende il nostalgico al ritorno e la smania 
              infinita che segue questa delusione sono il sintomo di una 
              nostalgia aperta… Lo scoglio di Itaca, quindi, è solo uno scalo 
              provvisorio sulla via di un ritorno infinito… Una patria 
              infinitamente lontana può essere raggiunta solo nella prospettiva 
              di un viaggio interminabile”. Un viaggio senza fine non può che 
              non pretendere una meta. Come ne Il racconto dell’Isola 
              sconosciuta di Josè Saramago, interprete moderno della saudade 
              lusitana, la meta del viaggio umano “è un luogo mobile che appare 
              e scompare sulle carte della fantasia ma sta ben saldo nel cuore 
              di ognuno di noi”. E’ così che la nostalgia diventa, per forza di 
              cose, un sentimento aperto, che non può che ripudiare l’idea 
              stessa di un’identità rigida e bloccata. La nostalgia, allora, 
              come sentimento innovativo: “Al luogo che più non ci appartiene, 
              al tempo già stato, e che più non torna – spiega Prete – 
              corrisponde, compenso o trascendente ricomposizione, l’altro luogo 
              che niente può cancellare, l’altro tempo che niente consuma: nuova 
              terra e nuovi cieli che sono la forma religiosa della nostalgia. 
              Se, dal neoplatonismo alla gnosi cristiana, l’attesa e la speranza 
              hanno radice in una lontanissima, perduta appartenenza forse è 
              perché il sapere religioso modula in mille variazioni il fascino 
              della più abissale congiunzione, quella che afferma: “l’origine è 
              la meta””. Nostalgia del futuro, quindi, nostalgia che non guarda 
              al passato, perché, come dice Jankélévitch, “la nostalgia è una 
              melanconia umana resa possibile dalla coscienza, che è coscienza 
              di qualcosa d’altro, coscienza di un altrove…”.
 
 Nostalgia dello spazio, Nostalgia del tempo
 
 Nostalgia del futuro, si diceva: un ossimoro, un’apparente 
              contraddizione di termini che suggeriva in qualche modo la 
              possibilità di pensare un futuro dal cuore antico, un futuro 
              carico di storia, di segni e di radici. E’ un sentire diffuso e 
              trasversale, in un Occidente in perenne trasformazione sociale e 
              antropologica. Lo ha ammesso anche il cantautore dell’Emilia 
              profonda, Francesco Guccini: “C’ho fatto su anche un disco, 
              Radici, nel ’72, quando la gente pensava di buttar via il passato 
              per costruire il futuro. Il futuro è sconosciuto, farne canzoni 
              sarebbe utopia. Il presente dura un attimo e il ricordo lo 
              sostiene per sopportarlo”. Nostalgia come ricordo e come sostegno, 
              quindi. Nostalgia come ricordo creativo, come linfa costruttiva. 
              Cantava infatti Guccini: “La casa sul confine dei ricordi / la 
              stessa sempre, come tu la sai / e tu ricerchi là le tue radici / 
              se vuoi capire l’anima che hai / se vuoi capire l’anima che hai... 
              E te li senti dentro quei legami / i riti antichi e i miti del 
              passato / e te li senti dentro come mani”. La forza di 
              quell’ossimoro – pensare la nostalgia nella contemporaneità, 
              dentro la contemporaneità – è tale che quel sentimento non si rifà 
              al passato in quanto tale, non sogna impossibili restaurazioni di 
              un “bel tempo andato”, non fa vivere col torcicollo. E’, al 
              contrario, la nostalgia che fa guardare avanti, “che ci lega – ha 
              detto il romanziere spagnolo Arturo Pérez-Reverte – a tutti i 
              ricordi, a tutto il passato della nostra famiglia, genetico e 
              filosofico, a tutto quel substrato da cui proveniamo e che ci ha 
              reso, in quanto esseri unici al mondo, quelli che siamo oggi”. Una 
              nostalgia, quindi, che aiuta a vivere il presente e a pensare il 
              futuro. Niente a che vedere con quella nostalgia reazionaria 
              incarnata e celebrata in Italia, ad esempio, da Pier Paolo 
              Pasolini, il poeta friulano che nella sua enfasi passatista – “Io 
              sono una forza del Passato”, diceva nella poesia Un solo rudere – 
              è arrivato anche a dire: “Grazie a Dio si può tornare indietro / 
              Anzi, si deve tornare indietro / Anche se occorre un coraggio che 
              chi va avanti non conosce”. E’, quest’ultima, la nostalgia 
              sterile, fossile e fossilizzante, che riduce la tradizione a 
              tradizionalismo, fissando in schemi rigidi e ripetitivi la lezione 
              della storia e della memoria, che vuole “tornare indietro”.
 
 La nostalgia creativa, invece, muove da un’idea e una prassi della 
              tradizione concepita come un tramandare che continuamente si 
              tradisce e si innova. E ogni discussione sulla nostalgia rimanda 
              sempre all’idea di modernità. Si tratta di una consapevolezza non 
              solo filosofica ma diffusa anche nelle pieghe della cultura di 
              massa. Paolo Conte, l’avvocato e sognatore di provincia che si è 
              fatto cantautore soprattutto per esprimere il suo sentire 
              nostalgico, è arrivato a confessarlo: “Il grande dubbio è 
              sull’idea di modernità. Una modernità che è già scaduta nel 
              postmoderno ma che continua a rifiutare la tradizione. Ma siamo 
              davvero convinti che la storia di tutti noi sia davvero descritta 
              dall’idea di progresso? E se fosse più credibile la sacralità del 
              passato, se il progresso fosse solo una grande predica?”. E’ il 
              bisogno di una “modernità con l’anima”, una modernità 
              post-lluminista, una modernità con le radici. Lo stesso Paolo 
              Conte lo ha spiegato attraverso un suo sogno: “Venivo dal 
              purgatorio… C’era una atmosfera confusa, salivo su una collina e 
              andavo verso un luogo a me caro: la fattoria di mio nonno, il 
              paradiso. E’ un sogno che mi ha fatto capire come io sia 
              impregnato di quei momenti intensi della mia infanzia che è 
              coincisa anche con la guerra”. Nostalgia come tornare con la mente 
              ai momenti più intensi, più vitali, più creativi della propria 
              stessa esperienza individuale. Le forme sono spesso soltanto 
              l’aspetto esteriore e puramente decorativo di un sentimento che 
              cerca soprattutto di radicare la propria creatività.
 
 È il sentimento che fa da cornice nobile a tanta della più recente 
              letteratura e cinematografia. Sicuramente ai film di Pupi Avati e 
              Ferzan Ozpetek, ma soprattutto all’opera di un regista e di uno 
              scrittore tra i tanti di fine Novecento: l’americano James Ivory e 
              il franco-boemo Milan Kundera. Tutta la cinematografia di Ivory 
              palpita di una nostalgia fredda, rarefatta, atemporale, 
              sostanzialmente moderna, dove il passato non è passato e ritorna 
              sempre. In Quartet, del 1981, ambientato nella Parigi tra le due 
              guerre, l’eroe del film arriva a sentenziare: “Non ci sono 
              tradizioni, non c’è bellezza”. E il suo capolavoro Quel che resta 
              del giorno – tratto dal romanzo di Kazuo Ishiguro – è l’apologia 
              di una moderna etica del ruolo attraverso i ricordi di un 
              maggiordomo al servizio nella tenuta di Darlington Hill: il 
              proprietario è un lord britannico simpatizzante di Hitler che con 
              i suoi ricevimenti cerca di spingere la politica estera inglese 
              verso l’alleanza con la Germania. Del resto, secondo Milan Kundera 
              “la luce rossastra del tramonto illumina ogni cosa con il fascino 
              della nostalgia: anche la ghigliottina”. E nel libro che lo ha 
              reso celebre – L’insostenibile leggerezza dell’essere – il 
              romanziere ha spiegato fino in fondo la sottile ambiguità della 
              tentazione nostalgica: “Mi sono sorpreso – ha scritto – a provare 
              una sensazione incredibile: stavo sfogliando un libro su Hitler e 
              mi sono commosso alla vista di alcune sue fotografie: mi 
              ricordavano la mia infanzia; io l’ho vissuta durante la guerra; 
              parecchi miei familiari hanno trovata la morte nei campi di 
              concentramento hitleriani; ma che cos’era la loro morte davanti a 
              una fotografia di Hitler che mi ricordava un periodo scomparso 
              della mia vita, un periodo che non sarebbe più tornato?”.
 
 È il fascino dell’eterno ritorno: la forza magica delle immagini 
              della memoria. Ma “l’eterno ritorno” non coincide affatto con la 
              “possibilità del ritorno”. Tutt’altro. Ha scritto Prete: “C’è un 
              modo della nostalgia che crede possibile il ritorno: un nóstos 
              immaginario, e per questo capace di forti identificazioni, intento 
              a puntellare di dottrine il ricordo di uno stato di cose 
              consumato, di un ordine, o disordine, finito. E’ in riferimento a 
              questa onda regressiva, restaurativi, che alcune lingue hanno 
              registrato l’aggettivo nostalgico. In questo ordine 
              dell’immaginario i fantasmi dell’origine si replicano nella forma 
              elementare e insieme auratica della radice, propria e di gruppo. 
              Il compiacimento, o l’esaltazione, di un’appartenenza - di etnia, 
              di lingua, di costume, di nazione, di “civiltà” – può aprire il 
              campo all’esercizio della discriminazione, della violenza”. E’ la 
              “nostalgia nostalgica”, quella che scommette sul ritorno e non sul 
              viaggio, che scommette sulle radici, sull’identità, sulla terra, 
              sul sangue e non sull’itinerario da fare. E’ la nostalgia chiusa 
              che tradisce l’essenza stessa di Ulisse, il nostalgico 
              avventuriero, l’esiliato innamorato del suo esilio, l’errante 
              stregato dalla sua erranza.
 
 Certo, tutto questo lo aveva forse già capito, anche se con il suo 
              prosare scientifico, anche quel Johannes Hoffer che nel 1688 
              inventò il termine. Alla fine della sua dissertazione sulla 
              nostalgia raccontava un aneddoto: “Un mercante di Parigi mi disse 
              di aver avuto un valletto svizzero che una volta preso da attacchi 
              di tristezza e melanconia, così gravi da fargli perdere ogni 
              appetito e da farlo cader malato; costui alla fine si decise a 
              presentarsi al padrone e lo pregò con insistenza di lasciarlo 
              libero… Non appena il mercante gli concesse di andarsene, il 
              valletto, preso da grande e subitanea gioia, in pochi giorni 
              cacciò dall’anima quella fantasia e rimase a Parigi, dove non subì 
              più alcun attacco del genere”.
 
 Nata come parola agli albori dell’era moderna, nata come 
              sentimento alle origini del genere umano, la nostalgia, 
              soprattutto quella oggi celebrata dalla narrativa e dal cinema, è 
              tutt’altro che nostalgica. “Nostalgia è parola moderna: antico 
              come il corpo dell’uomo, come il suo linguaggio, è il campo dei 
              sentimenti che essa designa”, ha scritto Prete. L’Ulisse moderno, 
              l’Ulisse di Dante, lascia il mare chiuso, oltrepassa le colonne 
              d’Ercole ed entra nell’Oceano senza limiti… “Chi lascia la casa ha 
              già fatto ritorno”, per dirla con Borges. Perché la patria 
              dell’uomo è sempre altrove. Perché la nostalgia, in fondo, prevede 
              un viaggio di sola andata. Verso il futuro, dentro la 
              postmodernità. Non più, o non solo, verso il passato.
 
 (da 
              Ideazione 3-2003, maggio-giugno)
 
 6 giugno 2003
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