| Guareschi, il libertario della Bassa di Carlo Stagnaro
 
 Un sacco di patate con i baffi può essere un banale sacco di 
              patate con i baffi, oppure Giovannino Guareschi. Che, morto di 
              crepacuore nel ’68, invero sopravvive. Lo fa attraverso le parole 
              che ha scolpito nei suoi racconti, le risate che ci ha strappato 
              con le memorabili gesta della Pasionaria e di Albertino, i 
              pensieri che ci ha sussurrato all’orecchio. Lo fa anche se non è 
              più qui in carne e ossa: lo fa il Giovannino fatto d’aria e di 
              sogni che ancora vaga sui resti del lager, sulle macerie del primo 
              di questi cinque ventenni, nelle stanze scure della prigione che 
              conobbe a causa dell’esimio signor De Gasperi Alcide. E, pur 
              ignorato dalla critica, snobbato dalla gente che piace, 
              accantonato frettolosamente come autore di second’ordine (destino 
              sempre riservato a quegli scrittori che il pubblico apprezza), ha 
              ancora molto da insegnarci.
 
 Forse, in questi giorni così confusi, in cui l’uno riforma la 
              scuola e l’altro grida all’attentato, egli avrebbe puntato 
              l’indice contro quei genitori che non rincorrono l’idea d’affidare 
              alla collettività il futuro dei loro figli. Per l’autore di Don 
              Camillo la famiglia è il luogo privilegiato non solo degli 
              affetti, ma anche della crescita e dell’educazione. Come osserva 
              Paolo Gulisano, “La famiglia di Guareschi è fatta di ruoli, di 
              responsabilità, di amore, di regole che vengono infrante e 
              riscritte. E’ fatta di litigi, di baruffe, di riconciliazioni, di 
              musi lunghi, di tenerezze, di solidarietà e soprattutto di 
              fedeltà”. In una sola parola, si tratta di una famiglia 
              assolutamente normale: una famiglia che, per parafrasare il santo 
              Escrivà de Balaguer, non si vergogna della stranezza di non essere 
              strana. Eppure, è proprio questa piccola comunità che ha retto 
              sulle spalle millenni di storia del genere umano. Guareschi ne 
              parla con acume e brio. In primo luogo, egli si erge a difesa 
              dell’infanzia contro ogni tentativo di sopprimere 
              quell’indispensabile stadio della crescita di un uomo e di 
              precipitare il bambino in un’eterna, irresponsabile adolescenza.
 
 Da ciò nasce la sua avversione per gli assurdi programmi di 
              “educazione sessuale” che, secondo alcuni “progressisti”, 
              andrebbero somministrati ai fanciulli fin dalla più tenera età. 
              “Troppa gente si è posta il problema dell’iniziazione sessuale: è 
              questa l’era dei riformatori e, tra le varie riforme, non poteva 
              mancare quella sessuale che incomincia con l’eliminazione del 
              pudore e finisce con la pianificazione del sesso e la formazione 
              del sesso di Stato”. Ce n’è anche per quegli psicologi che hanno 
              consacrato la propria vita alla distruzione dei modelli 
              tradizionali: “ludologia è lo studio e la scienza dei giochi. Il 
              ludologo è l’esperto che ti sa dire quale giocattolo va bene per 
              un determinato tipo di bambino […]. Un giocattolo sbagliato può 
              provocare gravi turbamenti psichici al bambino. E occorrerà anche 
              qui l’intervento dello Stato che pianifichi e, magari, 
              nazionalizzi la produzione di giocattoli fino a creare il 
              Giocattolo di Stato”.
 
 Ma la difesa dell’infanzia è solo il primo passo in un cammino 
              intellettuale più lungo, che arriva a mettere in questione lo 
              Stato moderno e la sua “peculiare istituzione”, la scuola 
              pubblica. Vedendovi, non a torto, una macchina d’indottrinamento 
              più che di diffusione della conoscenza, e non sottovalutando i 
              problemi del monopolio statale, lo scrittore mette in evidenza che 
              l’obbligo scolastico equivale a un rapimento dei bambini e, 
              soprattutto, contribuisce a svuotare di senso l’istituzione 
              famigliare. L’analisi di Murray N. Rothbard, forse il maggior 
              studioso libertario del Novecento, può essere utile a capire 
              l’obiettivo polemico di Guareschi: “la scuola pubblica [è] 
              l’incarnazione del presunto diritto di ogni bambino 
              all’istruzione, e [viene] celebrata come crogiolo della 
              comprensione e dell’armonia fra uomini di diverse occupazioni e di 
              diversa estrazione sociale”. Ma, al contrario, essa costituisce 
              “un grande sistema di prigionia per i giovani” e l’obbligo 
              racchiude “nella struttura scolastica milioni di ragazzi scontenti 
              e recalcitranti”. “Se dobbiamo costringere tutta la popolazione di 
              giovani in grandi prigioni nel nome dell’ “istruzione” – si chiede 
              lo studioso americano – prigioni nelle quali insegnanti e 
              amministratori fungono da guardie e custodi, come possiamo non 
              aspettarci l’infelicità, lo scontento, l’alienazione e la 
              ribellione da parte dei giovani?”.
 
 Queste riflessioni sono tanto più vere nel nostro paese, dove 
              l’intervento statale ha sostanzialmente negato il ruolo, 
              storicamente importantissimo, della Chiesa cattolica 
              nell’educazione dei giovani. Anzi, v’è stato un periodo (quello 
              dell’ “Italia liberale” post-unitaria) in cui la più pressante 
              occupazione dei ministri dell’Istruzione fu chiudere istituti 
              d’ispirazione religiosa e sbattere i ragazzi nelle strutture 
              pubbliche. Non bisogna allora stupirsi del fatto che “le scuole 
              pubbliche sono diventate fogne di crimini, piccoli furti e 
              tossicodipendenza, e che non vi può essere una genuina istruzione 
              se è in atto una deviazione delle menti e delle anime dei 
              bambini”.
 
 Il punto cruciale è, da un lato, l’esproprio di responsabilità da 
              parte dello Stato e, dall’altro, l’attribuzione d’un valore legale 
              al titolo di studio. In quest’ultimo caso, si costringono i 
              giovani a seguire lezioni lunghe, noiose e spesso mal congegnate 
              con l’unico scopo di ottenere “un inutile diploma attestante 
              l’inutile corso di studi frequentato con onore”. L’adorazione del 
              “pezzo di carta”, insomma, s’è imposta solo in virtù d’una legge 
              che ha creato un bisogno artificiale, non giustificato da 
              un’autentica domanda esistente sul mercato ma solo dall’esigenza 
              di rispettare alcune norme farraginose e confusionarie.
 
 La famiglia, garanzia e riserva di libertà
 
 Ancor più importante è notare che il sistema pubblico (composto 
              dagli istituti, certamente, ma ancor più fondato sull’obbligo 
              scolastico e l’imposizione di programmi ministeriali) ha dato 
              luogo alla diffusa percezione che l’educazione dei figli non 
              rientri più tra i compiti dei genitori perché – quale che sia il 
              loro atteggiamento in merito – è lo Stato a occuparsene e sta ad 
              esso stabilire quali valori debbano essere inculcati nelle giovani 
              menti. L’operazione è riuscita tanto bene che molti, non appena 
              s’accenni un minimo dissenso, saltano sulla voce esaltando 
              l’imprescindibile ruolo del governo. Da esso ci s’aspetta che 
              svolga il ruolo della chioccia che cura ed educa i bambini, 
              laddove i genitori lascerebbero i figli nell’ignoranza e così 
              spegnerebbero ogni grammo di speranza per il futuro nei loro 
              cuori. Al contrario, dice Guareschi, “l’educazione dei bambini è 
              di competenza dei genitori. Un genitore non può dire: “io lavoro e 
              non ho tempo per educare i miei figli”, perché pur essendo 
              oppresso dal lavoro, il tempo per mettere al mondo i figli lo ha 
              trovato. L’istruzione pubblica è una conquista del progresso, ma 
              l’educazione dei ragazzi è una faccenda che riguarda non il 
              progresso, bensì la civiltà e perciò è di carattere privato. Ogni 
              volta che lo Stato interviene nel campo morale, i genitori 
              rinunciano a un pezzetto dei loro figli”.
 
 Quello di educare i figli, dunque, non è solo un diritto dei 
              genitori: è anche un dovere, il cui esercizio è necessario 
              affinché la società sia composta da individui responsabili e non 
              docili marmocchi. “La famiglia – ha scritto padre Robert Sirico – 
              è la chiave per la formazione di una cultura della vita. Ogni 
              persona umana è data al mondo per mezzo delle braccia amorevoli di 
              una famiglia. La famiglia salda i nostri rapporti con il resto 
              della comunità umana e ci ricorda in modo tangibile la nostra 
              natura sociale”. Proprio in virtù di ciò, allora, è importante 
              sottolineare quanto sia cruciale che ogni generazione trasmetta a 
              quella successiva valori positivi – a partire, si capisce, dal 
              necessario senso critico, senza però trascurare (anzi!) 
              l’appartenenza a una comunità e a una fede.
 
 Bisogna opporre un deciso rifiuto, insomma, di fronte a ogni 
              pretesa pedagogica da parte dello Stato: accettando l’intervento 
              pubblico, una società rinuncia in buona sostanza ad ancorare i 
              fanciulli a una visione forte della vita, per metterli in balia 
              dei governi e per ciò stesso di quella divinità volubile e 
              capricciosa che sono le maggioranze. Permettere che lo Stato 
              gestisca monopolisticamente l’istruzione comporta anche 
              l’introduzione di un concetto egualitario, per il quale ognuno 
              deve ricevere la medesima educazione. Ma questo contraddice ogni 
              buonsenso: poiché gli individui (e anche i bambini) sono diversi, 
              essi vanno trattati con strumenti flessibili. L’educazione 
              autentica, dunque, implica la differenza e la pluralità, non 
              l’imposizione di modelli uniformi.
 
 Alla base dell’egualitarismo sta un profondo irrealismo: sembra 
              che i fautori dell’uguaglianza abbiano dimenticato a chi è 
              destinata l’istruzione. La funzione delle scuole, e la ragione per 
              cui riteniamo ragionevole e utile mandare i figli a scuola, non è 
              di educare la “società”, o poter esibire grafici colorati e 
              statistiche entusiasmanti sul livello medio di alfabetizzazione. 
              Piuttosto, è desiderio d’ogni persona ragionevole formare 
              individui sempre più consci della realtà che li circonda e pronti 
              ad affrontarla, a risolvere i problemi. L’obiettivo della scuola, 
              dunque, non è diffondere la mediocrità, ma valorizzare 
              l’eccellenza. Perché ciò non resti parola sulla carta, però, 
              occorre sviluppare un sistema decentralizzato, privo di regole 
              fisse e immutabili, capace di stimolare ogni ragazzo sulla base 
              dei suoi interessi e delle sue aspirazioni. In poche parole: 
              occorre sottrarre l’educazione al monopolio statale e, per farlo, 
              è necessario abolire tutte quelle leggi che oggi rendono la scuola 
              privata poco più di una succursale di quella pubblica, sopprimendo 
              ogni pluralismo. Le scuole devono smettere di sembrare caserme, e 
              ritornare a essere scuole.
 
 Lo stesso Guareschi, del resto, non esita a definire “rapimento” 
              l’obbligo scolastico. Egli rintraccia nella scuola pubblica 
              un’arma di indottrinamento di cui lo Stato dispone. “Dunque addio 
              anche a te, Pasionaria: tu esci dalla mia vita ed entri nella vita 
              dello Stato – scrive in occasione del primo giorno di scuola della 
              figlioletta Carlotta –. Ti insegneranno l’ipocrisia statale e 
              anche i tuoi pensieri non saranno più tuoi e vedrai le cose con 
              gli occhi del Ministero. Adios, Pasionaria. Anche questa volta, 
              come per Albertino, io dovrò accettare il sopruso, dovrò aggiogare 
              anche te, con le mie mani, al barbaro, orrendo, smisurato carro 
              dello Stato. Adios, Pasionaria! Io un tempo, quando sfogliavo le 
              vecchissime Domeniche del Corriere, leggevo sorridendo la 
              spiegazione de Le nostre pagine a colori e mi facevano pena le 
              donnette dei lontani Paesi del Sud che si mettevano in rivoluzione 
              per impedire che vaccinassero i loro bambini. Ma allora non capivo 
              un accidente e pensavo alla greve ignoranza, e alle nebbie grasse 
              della superstizione che inducevano le povere donnette a reputare i 
              medici governativi emissari di chissà mai quale paurosa centrale 
              di maleficio. E invece le donnette agivano per istinto e credevano 
              di difendere le loro creature dal maleficio, mentre le difendevano 
              dal sopruso dello Stato.
 
 E’ un sopruso necessario ma la lancetta del medico che, per legge, 
              inocula il vaccino nel braccio di vostro figlio, è una zanna del 
              gran mostro, lo Stato, che uncina una nuova tenera vittima. Adios, 
              Pasionaria: io adesso abbandonerò la tua mano tiepida e ti 
              sacrificherò al dio crudele della gente che non crede in Dio 
              perché, se vi credesse, potrebbe vivere felice all’ombra delle sue 
              Eterne Leggi. Adios, Pasionaria: lo Stato fa le strade e fa 
              camminare le ferrovie e illumina le città, di notte, ma ci toglie 
              la libertà, e regola i nostri atti e anche i nostri pensieri, e 
              sempre più ci trasforma in trascurabili ingranaggi di un’orrenda 
              macchina che consuma sangue e serve solo a macinare aria. E io che 
              mi indigno se il treno ritarda di cinque minuti, il treno dello 
              Stato, io ora sono pieno di amarezza perché debbo permettere che 
              lo Stato mi porti via la mia bambina per insegnarle l’abicì 
              governativo. Quale tempesta nel tenero cranio di un povero 
              borghese che cerca di difendere la propria personalità e quella 
              dei suoi figlioli da quel mostro che egli stesso alimenta 
              togliendosi il pane di bocca”.
 
 Lo Stato usa la scuola come strumento per legittimare se stesso 
              agli occhi dei sudditi e indora la pillola con arditi ragionamenti 
              sul “diritto all’istruzione” – ch’è invero un trucco semantico e 
              risponde all’esigenza del governo di creare e mantenere il 
              consenso. Ma, come già aveva rilevato Herbert Spencer, il vero 
              scopo è quello di “formare buoni cittadini”. “E chi ha l’autorità 
              per dire quali sono i buoni cittadini? Il governo: non c’è altro 
              giudice. E chi ha l’autorità per dire come possono essere formati 
              questi buoni cittadini? Il governo: non c’è altro giudice. Quindi, 
              questa proposizione è convertibile in quest’altra: il governo 
              trasforma i fanciulli in buoni cittadini, usando la sua propria 
              discrezione per decidere che cos’è un buon cittadino, e in che 
              modo un fanciullo può essere trasformato in un buon cittadino”. 
              Non v’è nulla di incoraggiante in tutto ciò – semmai, c’è da 
              restare con un palmo di naso di fronte all’arguzia retorica con 
              cui i fatti vengono mascherati.
 
 D’altro canto, la scuola nazionalizzata è solo un mezzo: non certo 
              il fine. L’obiettivo è molto più ambizioso. I mandanti del 
              terrorismo culturale esercitato negl’istituti scolastici pubblici 
              sono i partiti politici – che si concepiscono come un fine in sé, 
              e il cerchio è chiuso. Autentici depositari del potere, essi 
              rappresentano tutto ciò che fa infuriare Guareschi: sono agenzie 
              impersonali, sfruttano in maniera spregiudicata le passioni più 
              nobili della gente e, non di rado, sono il mero involucro di 
              autentiche centrali del malaffare. Non si può dire che Giovannino 
              fosse un “qualunquista”; eppure, quella definizione può forse 
              servire a meglio comprendere il suo atteggiamento. Una forte 
              critica ai partiti, infatti, si salda in lui a una rivalutazione 
              della monarchia e del senso comune, nella ferma convinzione che, 
              al di sopra delle leggi degli uomini, esiste una Legge più grande, 
              contro cui – per parafrasare Thomas Carlyle – quella emessa dal 
              Parlamento gareggerebbe invano.
 
 Bisogna in primo luogo osservare che lo scrittore emiliano non 
              vedeva nella “partitocrazia” una differenza qualitativa rispetto 
              al comunismo; semmai, una differenza di grado. Seguendo la strada 
              della promulgazione di leggi ad hoc per ogni problema, secondo 
              ogni ideologia (cioè attraverso la progressiva sottrazione dei 
              problemi al dominio dell’azione umana), si arriverà speditamente 
              al comunismo. La legge si renderà arma dei gruppi d’interesse e di 
              quegl’individui che sono più spregiudicati e più abili nel 
              piegarla al proprio volere, e il resto della popolazione si 
              cullerà nella mera illusione di passare, un giorno, dalla massa 
              degli sfruttati al gruppo degli sfruttatori.
 
 E’ pure necessario inquadrare l’uomo nel suo tempo. Solo così si 
              può capire l’animosità usata da Guareschi per contrastare il 
              totalitarismo ideologico comunista e, ciò che potrebbe stupire, 
              l’esplicito e importante appoggio dato alla Dc alle elezioni del 
              ’48. Questo, tuttavia, non sposta di una virgola la situazione 
              reale e il punto di vista dello scrittore: i partiti 
              costituiscono, secondo lui, tante facce della medesima medaglia, e 
              il comunismo n’è meramente la manifestazione più pericolosa e 
              aggressiva. Quando è scoppiata la pace, lo scrittore si è trovato 
              costretto a scegliere il male minore: che però è e resta un male. 
              Se insomma il meglio è nemico del bene, non necessariamente 
              bisogna assecondare il male scegliendo il peggio!
 
 In una lettera ad Angelo Rizzoli a proposito della realizzazione 
              d’un film sulle avventure di don Camillo, egli sottolinea che “la 
              tesi dei racconti di Mondo piccolo è di far risaltare la 
              differenza sostanziale che esiste tra la “massa comunista“ e l’ 
              “apparato comunista”. Indurre cioè l’uomo della massa a ragionare 
              col suo cervello e con la sua coscienza: fargli cioè capire che le 
              direttive possono essere seguite soltanto fino a quando esse non 
              vanno a ledere quelli che sono universalmente conosciuti come sani 
              e onesti princìpi. Indurre la massa fondamentalmente onesta 
              (Peppone) a ritirare i cervelli versati all’ammasso del Partito 
              Comunista. Trasformare cioè l’obbedienza cieca, pronta e assoluta 
              in obbedienza ragionata. Le mie rubriche a disegni “Il compagno 
              padre” e “Obbedienza cieca, pronta e assoluta” tengono anch’esse a 
              raggiungere questa finalità. Esse non sono state fatte per 
              divertire i borghesi alle spalle dei comunisti, ma per provocare 
              nei comunisti quella reazione salutare di cui si parlava. Per 
              dimostrare insomma alla massa comunista che ad essa non si chiede 
              la restituzione della tessera al Pci e l’iscrizione 
              all’Associazione delle Figlie di Maria, ma si chiede soltanto un 
              po’ di ragionamento. Si chiede quindi che essi componenti della 
              massa, prima di obbedire a un ordine del Partito, obbediscano agli 
              imperativi della loro coscienza. In definitiva lo scopo di Mondo 
              piccolo (e delle rubriche) è quello di cavar fuori dalla massa 
              irragionevole e anonima l’individuo, che – se ha un fondamento 
              buono, come ha in realtà la gente del nostro popolo – è sempre 
              ragionevole”. I timori di Guareschi erano fondati. Molti hanno 
              voluto vedere in don Camillo l’anticipazione del “compromesso 
              storico”. Semmai è il contrario: don Camillo parla coi comunisti 
              per convincerli della bestialità delle loro idee. La sua sola 
              bandiera, che non è né rossa né bianca, sta appesa alla Croce e 
              s’è sacrificata per il bene degli uomini.
 
 Lo scrittore emiliano concepisce la propria attività come una 
              sorta di “missione” – un obbligo morale. Non intende svolgere il 
              facile compito di chi “predica ai convertiti”, ma vuole 
              avventurarsi in locis infidelium, su un terreno ostile e 
              apparentemente avverso. Tuttavia, è chiaro che ha grande stima 
              degli uomini e delle donne “qualunque”, e per mostrare loro le 
              oscenità che si celano dietro il viso paffuto di Palmiro Togliatti 
              fa appello alla loro intelligenza non meno che alla propria 
              ironia. Del resto, tutte le vicende di Mondo Piccolo si giocano 
              sull’irruenza sanguigna di don Camillo e sulle buone intenzioni di 
              Peppone; sulla fede ferrea del prete e sull’onestà del sindaco 
              comunista. La strategia di Guareschi è di tollerare, sempre e 
              comunque, le persone, mantenendo però un atteggiamento 
              d’indisponibile intolleranza verso le idee: se con un avversario 
              si può andare a cena e coltivare un’amicizia intensa, mai e poi 
              mai è ammissibile scendere a patti col suo pensiero. “Il signor 
              parroco e il signor sindaco sono disposti a qualunque sortita – 
              nota Giorgio Torelli – pur di aumentare il punteggio nella contesa 
              a rate fra parrocchia e partito, fra popolo di Dio e popolo 
              tesserato, fra aspersorio e falce oppure tra turibolo e martello. 
              In realtà, sotto sotto, ciascuno dei due, con la più esuberante 
              dotazione di difetti, di trovate, colpi di mano, pistolotti e 
              rivalse, svela e rappresenta un modo intimo e personale d’essere 
              cattolico: il prete perché è prete, e dunque è fuori discussione 
              come credente e praticante; e il compagno Peppone perché ritiene 
              drasticamente che la sua voglia di trionfo dei lavoratori sulla 
              “bieca reazione in agguato” sia di etichetta rigorosamente 
              marxista (mai letto Marx, povero Bottazzi). In realtà, si rivela 
              insopprimibile e chiarissima la spinta cristiana della sua stessa 
              coscienza (lui non lo sa) verso il trionfo – ai punti, se non per 
              kappaò – del Bene sul Male”.
 
 Il realismo politico contro le ideologie
 
 Insomma: il rispetto reciproco permette ai due di scavalcare 
              gl’immaginari steccati che li dividono per incontrarsi sul terreno 
              della concretezza. In fin dei conti, “con tutti i suoi limiti di 
              uomo – osserva Giovanni Lugaresi – con le malizie e le… 
              scorrettezze che il grosso parroco della Bassa pone nella lotta 
              politica contro l’antagonista Peppone, va tuttavia osservato che 
              alla fedeltà del suo ministero, al suo essere prete, alla 
              “sostanza” del suo essere prete, egli non viene mai meno. Costi 
              quel che può costare”. Don Camillo vive il proprio incarico con la 
              massima serietà: tendendo alla perfezione, nonostante sia uomo, e 
              quindi imperfetto, come chiunque altro. In politica la malvagità è 
              una dolorosa necessità perché in politica non si tratta con uomini 
              ma coi partiti. E i partiti non sono creature del buon Dio”, 
              chiosa Guareschi. E addirittura, quando don Camillo, amareggiato 
              dal vecchio Maguggia che non si vuole confessare in punto di morte 
              per “non dare soddisfazione a un prete”, cerca consolazione, il 
              Cristo gli risponde: “tutto è possibile quando c’entra la 
              politica. In guerra l’uomo può perdonare al nemico che poco prima 
              tentava di ucciderlo e può dividere con lui il suo pane, ma, nella 
              lotta politica, l’uomo odia il suo avversario, e il figlio può 
              uccidere il padre e il padre può uccidere il figlio per una 
              parola”.
 
 Quando Peppone viene eletto senatore avviene in lui un’autentica 
              metamorfosi, che gli fa assumere un aspetto caricaturale. L’ex 
              sindaco comunista “ritornava al paesello piuttosto di frequente e 
              non era più il Peppone d’un tempo, ma un personaggio gonfio di 
              sussiego fino agli occhi, che viaggiava con una gran borsa piena 
              di importantissimi documenti e con l’aria preoccupata di chi ha 
              sulle spalle il peso di enormi responsabilità […]. Indossava abiti 
              scuri, a doppio petto, portava cappelli da borghese d’alto rango e 
              non si mostrava mai senza cravatta”. Il cambiamento, però, non è 
              solo esteriore; l’uomo conduce anche una vita triste, è costretto 
              ad attenersi a un protocollo stretto quanto assurdo, deve 
              conformarsi alla rigida etichetta del partito, non gode più del 
              sacro diritto a pensare con la propria testa ma deve ripetere 
              pappagallescamente ciò che i “gerarchi rossi” gli comandano. E, 
              sebbene tenti in ogni modo di non ammettere la propria misera 
              condizione di fronte a se stesso, gli capita continuamente 
              d’incocciare in un tizio che lo guarda con malcelato disprezzo: è 
              “il Peppone sbracalato e felice del passato che, all’inizio d’ogni 
              giornata, veniva a cantare al Peppone ben vestito e infelice del 
              presente, la canzone tentatrice: “Torna al tuo paesello ch’è tanto 
              bello…””.
 
 “La politica – scriverà l’autore di Don Camillo dal carcere, dove 
              era rinchiuso a causa della polemica con il leader democristiano 
              Alcide De Gasperi – mi fa sempre più nausea e leggo i giornali con 
              crescente disgusto. E ogni giorno di più mi accorgo come sia vana, 
              inutile cosa lottare da galantuomini contro la canaglia 
              organizzata. Siccome la democrazia mi toglie il diritto di votare, 
              io non ho più il dovere di occuparmi di politica. L’anticomunismo 
              perde un buon soldato? Non lo acquista né lo acquisterà mai il 
              comunismo. Il comunismo avanza? Non sarò io che lo potrò fermare! 
              E poi: la “libertà” che mi darebbe il comunismo è forse peggiore 
              di questa che mi ha dato la democrazia? Le galere sono tutte 
              uguali perché esse tolgono all’uomo la stessa cosa: la libertà. 
              Alla fine, morire di sete stando seduti su uno sgabello 
              democratico o stando seduti su una letamaia totalitaria è la 
              identica cosa”.
 
 Ma neppure questo rende bene l’idea della profondità del disprezzo 
              che Guareschi nutre per chi crede nella politica. Egli, infatti, 
              non si limita a condannare i singoli uomini di Stato o le loro 
              idee; piuttosto, si rende conto che il marcio sta nel sistema 
              stesso, che non è in alcun modo recuperabile o redimibile. Quando 
              il consiglio comunale deve discutere la richiesta della signora 
              Cristina (che, prima di morire, aveva espresso il desiderio 
              d’essere sepolta con la bandiera monarchica), gli esponenti dei 
              diversi partiti (dagli azionisti ai liberali, dai democristiani ai 
              repubblicani) si oppongono con argomentazioni più o meno 
              sofistiche – quelle tipiche dell’armamentario dialettico di 
              quanti, imbevuti d’ideologia, hanno perso ogni traccia della 
              propria umanità. Ma ecco che Peppone prende la situazione in 
              pugno: “In qualità di sindaco vi ringrazio per la vostra 
              collaborazione, e come sindaco approvo il vostro parere di evitare 
              la bandiera richiesta dalla defunta. Però, siccome in questo paese 
              non comanda il sindaco ma comandano i comunisti, come capo dei 
              comunisti vi dico che me ne infischio del vostro parere, e domani 
              la signora Cristina andrà al cimitero con la bandiera che vuole 
              lei perché io rispetto più lei morta che voi tutti vivi, e se 
              qualcuno ha qualcosa da obiettare lo faccio volare giù dalla 
              finestra!”.
 
 Il rude meccanico salva la situazione e, per dirla con Mario 
              Palmaro, “con un irresistibile colpo di teatro ristabilisce il 
              giusto ordine”. Con la consueta semplicità e tenerezza Guareschi 
              mostra che certi valori, certe verità, non sono soggetti a 
              votazioni: come lo sguardo docile di don Camillo sanziona e 
              santifica l’eccezionale decisione di Peppone, così il rispetto per 
              i morti e per le loro ultime volontà travalica e sconfigge la 
              legalità formale. Scavando ancora più a fondo nella realtà delle 
              nostre istituzioni politiche, e puntando dritto al cuore del 
              problema, don Camillo pone al Cristo e, per suo mezzo, a tutti noi 
              l’annosa questione: possono i mezzi essere subordinati ai fini? 
              Può un fine “buono” giustificare l’uso di mezzi “malvagi”? Oppure 
              è vero il contrario – i mezzi sono il fine, e un obiettivo buono 
              richiede mezzi giusti? Esiste il male a fin di bene? “No. – 
              risponde deciso Gesù – Dal male può scaturire il bene, ma tu non 
              puoi usare coscientemente il male per ottenere il bene. Perché tu 
              devi agire sempre secondo le leggi di Dio e le leggi di Dio ti 
              vietano di compiere il male”. Il prete fa notare che “la stricnina 
              è un veleno terribile, ma il farmacista dosandola giustamente può 
              trarne una salutare medicina”. Ed ecco la fulminante, e 
              conclusiva, risposta: “la morale cristiana non è stata fatta in 
              farmacia”. Né, tanto meno, in Parlamento: l’uomo retto deve 
              obbedire alla propria coscienza prima che alle leggi e, semmai, 
              negare la propria fedeltà a queste ultime nel caso impongano 
              comportamenti non in linea con l’insegnamento delle Sacre 
              Scritture.
 
 In fin dei conti, la stessa storia della Chiesa cattolica, cui lo 
              scrittore apparteneva fieramente, si colloca largamente al di 
              fuori dello Stato, se non contro di esso, come mostrano 
              chiaramente le vicende dei santi martiri. Anzi, “qualsiasi forma 
              di coercizione dell’uomo sull’uomo – sostiene Guglielmo Piombini – 
              è in contrasto con l’insegnamento evangelico, e anche l’aiuto ai 
              più bisognosi, così enfatizzato dai cristiani, soggiace a questa 
              regola, perché mai il Messia ha auspicato forme di assistenza che, 
              invece di sgorgare dallo spontaneo sentimento di carità delle 
              persone, si fondassero sull’uso della forza legale o 
              extra-legale”. In epoca moderna lo scontro si è spostato dal piano 
              fisico a quello, per così dire, dottrinario; eppure non è meno 
              violento o importante: “Questi due dati centrali della fede 
              cristiana – la vita eterna e il giudizio – sono oggi cancellati 
              dalla cultura dominante o, meglio sarebbe dire, dal “potere””, 
              sottolinea Michele Brambilla24. Né manca, nella tradizione 
              cristiana, l’incitamento a opporsi alle leggi, quando esse ledano 
              princìpi fondamentali. Per usare le parole di Thomas Eliot, “è ora 
              di abbandonare l’opinione che il cristiano debba considerarsi 
              soddisfatto solo perché gode della libertà di culto e non è 
              soggetto ad alcuna discriminazione a causa della sua fede. Per 
              quanto settario io possa sembrare, dirò che non vi è null’altro 
              che possa soddisfare il cristiano se non una organizzazione 
              cristiana della società”. In fondo, l’opera narrativa di Guareschi 
              mira a far emergere i contrasti, la conflittualità fra doveri 
              “legali” (l’obbedienza allo Stato o al partito) e la voce della 
              coscienza.
 
 Naturalmente, non bisogna credere che il mite Giovannino fosse 
              fautore di progetti rivoluzionari o utopie distruttive. Anzi, era 
              un autentico combattente nel segno di quella tradizione che aveva 
              reso grande l’Europa e che si riassume nel simbolo della Croce. 
              “L’ortodossia di Guareschi – nota il cardinale Biffi – è 
              ineccepibile […]. E’ il cattolicesimo che egli attinge con 
              naturalezza dalla storia e dalla cultura antica del nostro popolo, 
              dal quale è sempre stato ben attento a non estraniarsi”. Egli 
              pertanto rifiuta ogni vittimismo, non si piega – come molti 
              contemporanei, che quasi si vergognano del proprio credo – a 
              chiedere scusa per i presunti errori della Chiesa. Di conseguenza, 
              guarda allo Stato con sospetto, come colui che – costretto, 
              ovviamente, a farvi i conti – lo tollera ma non gli accorda la 
              propria fiducia, men che meno il proprio cuore. Per dirla con 
              Vittorio Messori: “Rispetto i carabinieri, perché so di averne 
              bisogno; ma non mi si chieda di amarli! Penso che il moloch 
              statuale sia la Bestia dell’Apocalisse. In una prospettiva di 
              fede, lo Stato nato dalla fine dell’ancien régime mi fa orrore”. 
              Alla coercizione dello Stato, infatti, Giovannino contrappone la 
              forza della fede e la libertà dei figli di Dio.
 
 Un lamento disperato contro la deriva burocratica
 
 Estremamente toccante è, a questo proposito, il suo lamento 
              disperato contro quei burocrati che avevano impiegato mesi a 
              recapitare un diploma di benemerenza a sua madre, la “vecchia 
              maestra” (il vero “modello” per la signora Cristina di Mondo 
              piccolo). Purtroppo, quel documento arrivò troppo tardi. La donna 
              era già morta. “Io ho bisogno di vedermi davanti agli occhi quella 
              data – scrive l’uomo coi baffi rivolgendosi alla vecchia ormai 
              passata a miglior vita – vederla ogni giorno perché il mio cuore è 
              pieno di veleno e ho bisogno di odiare i piccoli ignoti uomini e 
              la ignavia statale che ti privarono della gioia che forse avrebbe 
              dato al tuo cuore stanco la forza di battere un giorno, un’ora o 
              un minuto di più. Non ti agitare nella tomba, non turbare il tuo 
              eterno gelo: lo so, signora maestra: per te tutto quel che è 
              statale è sacro e intoccabile, e quel che io ti dico è una orrenda 
              bestemmia, per te. Ma io non parlo per te sola: io trasudo veleno 
              per me e per tutti coloro cui la triste ignavia statale, cui la 
              sordida indifferenza burocratica avvelenano gli ultimi giorni di 
              una faticatissima vita spesa nell’onesto lavoro a beneficio della 
              comunità. Anche voi, mezze maniche ministeriali che impiegate mesi 
              per far arrivare un diploma di benemerenza da Roma a Milano, un 
              giorno vi troverete vecchi e miserabili e lo Stato vi caccerà via 
              a pedate: allora comprenderete il valore di un foglio come quello 
              che m’è arrivato oggi. Allora forse il mio odio non vi inseguirà 
              più. Ma fino a quel giorno io vi odierò tenacemente. Anche se 
              avete rubato un solo secondo della vita di mia madre; anche se, 
              semplicemente, le avete tolto un sorriso. Sono uno solo, ma il mio 
              odio è immenso come l’amore che ho per mia madre. Scaldatevi pure 
              al sole di Roma non curandovi dell’omuncolo che trasuda veleno tra 
              le nebbie del Nord: un giorno il sole di Roma non riuscirà più a 
              scaldare le vostre ossa ormai vecchie e scassate e allora anche 
              l’odio dell’omuncolo vi peserà sulle spalle come un sacco di 
              sabbia. Vi pagano poco? Anche mia madre era pagata poco e non si 
              stancava mai di lavorare. Stai tranquilla, signora maestra: non ti 
              preoccupare per me: non mi possono fare niente. Il mio odio è più 
              forte di tutti i ministri messi assieme. Piuttosto, se puoi, 
              rispondimi, nel sogno. Ma, per carità, non venire per spiegarmi 
              che è indegno di un animo nobile quello che ho detto. Il mio odio 
              non cerca forme di vendetta, ma è e sempre sarà soltanto un 
              pensiero racchiuso nel mio cervello. Non venirmi a insegnare che 
              debbo amare il prossimo mio come me stesso: me l’hai già insegnato 
              e lo so. Io amo me stesso soltanto quando so di aver fatto ciò 
              che, alla luce dei tuoi insegnamenti e del tuo esempio, ritengo 
              sia il mio dovere. Quando so di non averlo fatto mi detesto”.
 
 6 giugno 2003
 
 (da Ideazione 3-2003, maggio-giugno)
 
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