| John Bardeen, lo scienziato che vinse due 
              volte di Tiziana Lanza
 
 “Sapevo che il transistor era importante, ma non come si fosse 
              arrivati a realizzarlo. Avevo solo otto anni e mio padre parlava 
              così poco a casa”. A ricordare è Bill Bardeen, oggi fisico teorico 
              al Fermilab di Chicago, figlio di John Bardeen. Bill sostiene di 
              avere appreso molto su suo padre dal libro “True Genius. Life and 
              Science of John Bardeen” di L. Hoddeson e V. Daitch pubblicato 
              recentemente in America. Così le due autrici descrivono Bardeen: 
              “Tutto quanto in lui era modesto. Era di statura media, ma di 
              costituzione robusta. I suoi capelli scuri erano estremamente 
              sottili. Indossava lenti spesse con montatura di colore beige 
              chiaro. Il suo gentile profilo si adattava bene al vestito blu 
              scuro di poche pretese, con camicia bianca e una cravatta classica 
              che era abituato a indossare infilandola sotto la cintura”. Ma 
              semplice era anche lo spirito di Bardeen, che, sono pronte a 
              scommettere le autrici, era un genio puro, in antitesi con lo 
              stereotipo diffuso fra il grande pubblico.
 
 Non il personaggio scapigliato, un po’ pazzo che lavora in 
              solitudine e compie azioni stravaganti. Al contrario, un uomo 
              capace di collaborare egregiamente, nel rispetto di colleghi e 
              collaboratori, fino ad arrivare a risultati sorprendenti. Non deve 
              allora stupirci se quell’uomo, padre e marito esemplare, 
              scienziato taciturno e pacato, soprannominato affettuosamente dai 
              suoi studenti “whispering John” (il bisbigliante John) perché 
              bisbigliava le parole anche a lezione, sia l’unico ad avere vinto 
              due Premi Nobel per la Fisica. M. Curie e L. Pauling ne portarono 
              a casa altrettanti ma in discipline diverse. Mentre F. Sanger ne 
              vinse due per la Chimica. Bardeen vinse il primo nel 1956, insieme 
              ai colleghi Walter H. Brattain e William B. Shockley per le 
              ricerche nel campo dei semiconduttori e la scoperta dell’effetto 
              transistor. Il secondo arrivò nel 1972 per la teoria della 
              superconduttività, anche detta “BCS Theory” dai nomi dei tre 
              colleghi: John Bardeen, Leon N. Cooper e John R. Schrieffer.
 
 Ci sembra invece paradossale, sebbene non incomprensibile, il 
              fatto che uno dei padri dell’Era dell’informazione sia così poco 
              conosciuto. Un Einstein per gli scienziati e un “John chi?” per il 
              pubblico, sottolineano le autrici. Non c’è in effetti il 
              tamburellio dei bonghi dello scanzonato Feynman, altro genio della 
              Fisica. Né la capigliatura selvaggia di Einstein che posò per i 
              reporters, facendo la linguaccia, immagine cult della scienza. Ci 
              sono invece i suoi lunghi silenzi che uno studente definiva “molto 
              piacevoli e produttivi nonché rilassanti”.
 
 Ma ci sono soprattutto le sue ricerche che hanno cambiato la 
              nostra vita. Diciamo transistor e possiamo anche dire radio, 
              televisione, telefono, computer. Un successo reso possibile dai 
              progressi fatti nel campo dei semiconduttori, quelle sostanze che, 
              a seconda delle condizioni, si comportano da conduttori elettrici 
              o da isolanti. Fu la compagnia telefonica americana Bell 
              Telephones a incoraggiare questi studi. Era necessario, in 
              occasione dell’ampliamento della rete telefonica su lunghe 
              distanze, mettere a punto amplificatori di segnali meno 
              ingombranti e più resistenti delle valvole allora utilizzate. 
              Shokley, allora direttore del progetto, mostrò a Bardeen un suo 
              disegno di un amplificatore al silicio. Quel dispositivo però non 
              funzionava e Bardeen raccolse la sfida dedicandosi anima e corpo 
              al progetto insieme allo sperimentale Brattain, con il quale avviò 
              un ottimo rapporto di collaborazione. Shockley venne invece 
              distratto da altri interessi.
 
 Due anni di paziente lavoro portarono, nel dicembre del 1947 al 
              primo transistor della storia. Uno dei passi fondamentali era 
              stata la sostituzione del silicio con il germanio. Shockley, 
              amareggiato per non avervi preso parte e animato da un desiderio 
              di rivalsa, si mise a lavorare in segreto per migliorarlo. Nacque 
              così, a un anno di distanza, un transistor di seconda generazione. 
              Non soltanto. Le autrici sostengono che Shockley abbia persino 
              rivisitato la storia di questa invenzione mettendo maggiormente in 
              luce il suo contributo, oscurando quello dei colleghi. Eppure 
              Bardeen non si trovava a suo agio nei panni del vincitore del più 
              alto riconoscimento a livello mondiale. Non almeno in quel 
              momento. Considerava, infatti, il transistor un dispositivo utile 
              ma non un importante avanzamento scientifico. Inoltre si sentiva 
              in imbarazzo a ritirare un premio così autorevole prima di alcuni 
              suoi maestri, fra cui il fisico E. Wigner. Mantenne perciò un 
              riserbo assoluto.
 
 Ogni giorno sono all’opera nella vita di tutti noi, miliardi di 
              transistor. Non possiamo dire lo stesso per i superconduttori . 
              All’epoca di Bardeen, la teoria elaborata da lui e colleghi aveva 
              risolto brillantemente un problema di lunga data. Fra il 1911 e il 
              1957 i migliori fisici teorici del mondo – fra cui Feynman, 
              Einstein, Bohr, Heisenberg, Pauli e Landau - avevano cercato di 
              svelare senza riuscirci questo fenomeno. Bardeen e collaboratori 
              spiegarono perché e come a temperature bassissime, prossime allo 
              zero assoluto (circa -273 gradi centigradi), alcuni metalli (per 
              es. il mercurio) perdono completamente la loro resistenza 
              elettrica. Tradotto in termini applicativi, questo vuol dire, 
              tanto per fare un esempio, meno spreco di energia elettrica.
 
 Tuttavia, il problema dell’impiego dei superconduttori è sempre 
              stato di tipo economico. Il superfreddo necessario a mantenere lo 
              stato di superconduttività veniva ottenuto, in passato, impiegando 
              come refrigerante il costosissimo elio liquido. Ulteriori studi 
              compiuti negli anni ottanta hanno portato alla scoperta di un 
              secondo tipo di superconduttori detti ad “alta” temperatura perché 
              non hanno bisogno di essere raffreddati fino allo zero assoluto 
              per mantenere il loro prezioso stato. Questo ha permesso l’impiego 
              di sostanze refrigeranti, quali l’azoto liquido, 500 volte più 
              economiche . Sono già cominciate le sperimentazioni. Da un paio di 
              anni, a Detroit, alcuni tradizionali cavi elettrici in rame sono 
              stati sostituiti con cavi superconduttori, forniti dalla italiana 
              Pirelli. Pesano 100 volte meno e trasportano una quantità di 
              energia 3 volte maggiore.
 
 John Bardeen venne a sapere di avere ricevuto il secondo Nobel per 
              la Fisica da un giornalista svedese. Non riusciva a crederci e 
              commentò: “Spesso queste cose sono falsi allarmi”. Eppure oggi 
              questo scienziato è pressoché sconosciuto al grande pubblico, in 
              quanto così diverso dal genio che siamo abituati a conoscere. Ma, 
              avvertono le autrici, quel mito di genio tanto caro alla gente è 
              pericoloso. Lo scapigliato Einstein attraeva i reporters più per 
              le sue stravaganze e le controverse idée politiche che per la sua 
              Fisica rivoluzionaria. Pertanto il presente libro vuole essere un 
              contributo alla ricerca che esperti in diversi campi portano 
              avanti da secoli su cosa debba intendersi per “genio”. Che Bardeen 
              con la sua compostezza, la sua caparbietà, le sue brillanti 
              intuizioni e la sua cultura enciclopedica sulla Fisica incarni 
              quella nuova nozione di genio che si sta facendo strada? E’ forse 
              troppo presto per dirlo. Il nostro augurio è comunque che nella 
              nostra cultura possa esserci spazio anche per scienziati esemplari 
              come “whispering John”.
 
 tizilanza@yahoo.it
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