| Buzzati, l’anarca nel deserto dei Tartari di Riccardo Paradisi
 
 “Ma ad ogni modo questo concetto di uno che tiene duro anche se 
              tutti gli vengono addosso, è un’idea a cui io sono molto 
              affezionato… Uno che tiene duro e rimane collet monté anche quando 
              viene la tragedia a me piace moltissimo. In questo sono molto 
              conservatore. In questo sono militarista”
 Dino Buzzati
 
 Agli occhi della critica che, a detta di Sergio Solmi, esercitò in 
              Italia più che un’egemonia una vera e propria dittatura in campo 
              culturale (in grado di imporre un pesante condizionamento sui 
              gusti e la mentalità collettiva) Dino Buzzati ha avuto un grande, 
              imperdonabile torto: è stato un autore indifferente all’ideologia, 
              al realismo, ai miti progressivi della modernità, all’influenza di 
              gruppi e correnti letterarie, è stato uno scrittore che non ha mai 
              firmato un manifesto, non ha mai creduto nell’impegno 
              intellettuale per la rivoluzione, non ha mai avuto il senso del 
              collettivo, né ha salutato la contestazione e l’annessa 
              rivoluzione dei costumi come occasione definitiva di liberazione 
              per l’uomo dalla repressione e dai tabù. Buzzati è stato un 
              intellettuale che di “istanze”, “problematiche”, marxismo e 
              strutturalismo se n’è sempre cordialmente fregato, che amava la 
              montagna piuttosto che i ragazzi di vita o i circoli 
              esistenzialisti, credeva nella coscienza individuale piuttosto che 
              in quella di classe, era attratto dal mistero piuttosto che dalla 
              militanza. E che mai avrebbe ripetuto col vecchio, mondano Sartre, 
              “il nostro inferno sono gli altri”.
 
 L’inferno dei suoi personaggi, del colonnello Procolo (Il segreto 
              del bosco vecchio) e di Giovanni Drogo (Il deserto dei Tartari), 
              di Antonio Dorigo (Un amore) e del brigante Gaspare Planetta 
              (L’assalto al grande convoglio), di Cristoforo Schroder (Una cosa 
              che comincia per elle) e dei borghesi di Paura alla Scala, non 
              sono gli altri, o il fascismo, il capitalismo, il comunismo… 
              l’inferno è la perdita della semplicità e della visione, la 
              disperazione che nasce quando muore il pensiero del cuore, l’onore 
              è tradito, la pietà dimenticata, il rispetto per il mistero 
              perduto e regnano le leggi meccaniche e subumane dell’egoismo e 
              del cinismo, la cui sintesi organizzata è quel potere burocratico 
              che Buzzati, da individualista, irregolare e anarchico, ha sempre 
              avversato e ironicamente contestato, ponendo al centro della sua 
              vasta produzione tematiche universali e cogenti per ogni esistenza 
              umana, a qualsiasi classe sociale, generazione, sesso, famiglia di 
              pensiero essa appartenga. Nei romanzi, nei racconti, nei “pezzi” 
              di cronaca e negli elzeviri di Buzzati, c’è sempre qualcosa che 
              parla a tutti, c’è sempre al centro qualcosa a cui nessuno può 
              dirsi indifferente. Il pubblico dei lettori lo ha capito molto 
              prima della critica, trovando in Buzzati chi dava parole e 
              immagini all’inquietudine di fondo e di massa d’un secolo senza 
              miti né dèi, un secolo che ha espulso il mistero per realizzare 
              l’inferno dei paradisi in terra.
 
 Buzzati era uno che parlava di cose serie e che in Italia – 
              nell’Italia dei nipotini di Zdanov e di Lukacs – pochi presero sul 
              serio; sicché mentre la critica francese, non meno ideologica ma 
              più acuta, sceglie Buzzati come primo autore cui dedicare dei 
              cahiers, mentre quella tedesca gli dedica saggi e monografie, 
              Marcello Carlino, ancora nel 1976, accusa “Il deserto dei Tartari” 
              di essere un’opera qualunquista e reazionaria perché “non ospita 
              devianze” e “riproduce l’universo linguistico borghese… di una 
              classe resistente alla penetrazione tensiva del divenire”. Buzzati 
              sarebbe dunque colpevole di rappresentare e custodire un ordine 
              non solo letterario, ma anche psicologico e sociale. Una critica 
              ridicola che nulla fa comprendere di Buzzati anche se molto dice 
              di chi la formulò, degli anni in cui fu espressa e del clima 
              culturale che li caratterizzava. Critiche che Buzzati liquidava 
              senza troppi giri di parole: “Che un artista debba necessariamente 
              oggi essere impegnato politicamente è un’idiozia. Lo scopo di 
              un’artista è per prima cosa la poesia e la si può raggiungere 
              tanto con libri come “Buio a mezzogiorno”, quanto con opere in cui 
              la politica, i contrasti ideologici o cose del genere non sono 
              neppure sfiorati”.
 
 Ma d’altra parte che quella marxista sia spesso stata una critica 
              cieca e persino sprovveduta lo dimostra la qualità stessa 
              dell’accusa che veniva rivolta a Buzzati, di essere cioè uno 
              scrittore impegnato a difendere un imprecisato ordine sociale 
              borghese: perché, a parte Pirandello, non c’è forse scrittore 
              italiano che più di Buzzati sia riuscito, con tanta efficacia, a 
              minare dalle fondamenta la razionalità di ogni meccanismo sociale 
              atto a regolare le esistenze individuali, che induca a dubitare 
              della realtà per come essa appare, che dietro l’ordine apparente, 
              i conformismi e i luoghi comuni sveli il continuo lavorìo di un 
              divenire caotico che rende ogni forma precaria, ogni certezza 
              illusoria, ogni ordine umano destinato ad essere trasformato o 
              sconvolto o privato di senso. Lo stesso fantastico in Buzzati, 
              registro privilegiato per certi racconti, ma presente come 
              atmosfera in ogni suo scritto (perfino negli articoli o negli 
              elzeviri), non è evasione dalla realtà: Buzzati non costruisce 
              mondi paralleli e alternativi a quello quotidiano, piuttosto 
              introduce tra i fenomeni ordinari l’immanenza di concetti astratti 
              come il male e il bene, l’amore e la morte, il demonico e 
              l’angelico. Concetti che diventano forze vive, percepite, 
              operanti, tese a scardinare certezze, convinzioni, situazioni. 
              Nell’introduzione all’opera completa di Bosch Buzzati immagina di 
              vedere con gli occhi del pittore il male che attraverso la 
              mostruosità delle deformazioni fisiche e le metamorfosi col mondo 
              vegetale, deturpa le fisionomie delle creature umane: è un 
              manifesto molto chiaro della sua più intima professione di fede 
              circa la pretesa di qualsiasi ordine stabile e circa l’idea di 
              poter restringere la vicenda umana sul piano della storia.
 
 Certo, a chi valutava la pregnanza e la validità di un autore col 
              metro del rispecchiamento e dell’impegno politico, certi temi 
              dicevano molto poco e suscitava fastidio la stessa cifra di 
              Buzzati così connessa al non razionale, così aspra e severa nei 
              confronti di un’intelligenza che si illudeva, coi suoi 
              travestimenti, di dimenticare e sconfiggere il mistero. Eppure, se 
              critiche così rozze a Buzzati quasi nessuno osi più farne, resiste 
              un’altra vulgata, più sofisticata ma non meno fuorviante, che 
              continua a collocare lo scrittore bellunese tra gli epigoni 
              italiani di Kafka. Giulio Ferroni, in uno dei manuali più diffusi 
              (e meglio concepiti) di storia della letteratura italiana, scrive 
              che “Buzzati compie un’opera di riduzione a misure di più normale 
              realismo dei temi dell’assurdo, dell’alienazione e dell’angoscia… 
              che trovano una delle espressioni più radicali nell’opera di 
              Kafka”. Analisi superficiale, che però ripropone una formula 
              tutt’altro che innocente, o semplicemente dovuta “alla confusione 
              in termini tra magia e surrealismo, tra favola e allegoria”. È 
              piuttosto una formula tesa a trovare, per Buzzati, una 
              collocazione tutto sommato innocua, inscrivibile, al limite, tra 
              le ascisse e le ordinate della psicologia freudiana, dunque di 
              nuovo riconducibile e perimetrabile entro una dimensione puramente 
              orizzontale, dove il tempo diventa “perno conduttore di 
              un’esistenza che non può mai tornare indietro” e che dunque 
              prosegue ineluttabilmente verso la morte. Ecco così che Buzzati 
              trova collocazione nella casella che gli è stata assegnata e 
              diventa l’epigono di Kafka su cui non val la pena interrogarsi 
              oltre misura, tanto più che esiste l’originale a cui rifarsi.
 
 Quasi nessuno dei suoi critici ha tenuto conto di cosa Buzzati 
              pensasse riguardo questo continuo, improprio e fastidioso 
              accostamento a Kafka: “Kafka è stato la mia croce. Non c’è stato 
              mio racconto, romanzo, commedia, dove qualcuno non ravvisasse 
              somiglianze, derivazioni, imitazioni o addirittura sfrontati plagi 
              a spese dello scrittore boemo”. Certo, Buzzati, come si evince 
              dalle lettere scritte all’amico Brambilla, leggeva e apprezzava 
              Kafka e il chiuso universo, ossessivamente regolamentato, 
              alienante e assurdo di alcuni racconti, ma soprattutto di “La 
              fortezza Bastiani” del Deserto dei Tartari, rimanda alle atmosfere 
              dei romanzi kafkiani. Le analogie però finiscono qui, al limite si 
              estendono all’impianto strutturale di alcuni racconti; oltre a 
              profonde differenze stilistiche, infatti ciò che distingue Buzzati 
              da Kafka è un dato contenutistico di fondo: a differenza dello 
              scrittore boemo per Buzzati la condizione umana non si chiude nel 
              cerchio di una condanna, non si risolve in uno scacco metafisico, 
              in un disperato non sense; è aperta alla speranza, disponibile 
              alla possibilità della grazia, è attraversata da un soffio 
              interiore che dice della nostalgia e della possibilità di 
              qualcos’altro. Di qualcosa di totalmente altro. Non si tratta di 
              una formulazione consolatoria, di un atto di fede, ma di 
              un’apertura al mistero, che a poco a poco, con naturale 
              gradualità, diventa percezione di una realtà più vera, di un 
              universo più completo, in cui tra naturale e soprannaturale non 
              esiste frontiera. Anche stilisticamente Buzzati non ricorre mai 
              all’espediente del capovolgimento per introdurre il tema del 
              mistero, si affida, piuttosto, al mezzo espressivo della 
              progressione, per cui l’insolito non fa irruzione nella realtà 
              ordinaria, non la scardina, ma vi affiora, vi si acclìmata, 
              mescolandosi al quotidiano, riformandolo, arricchendolo di colore 
              e significato. Chi legge Buzzati non avverte lo spaesamento del 
              repentino slittamento dal registro cronachistico a quello 
              fantastico, non è stordito dall’amplificazione degli effetti, ma 
              si trova avvolto, quasi naturalmente, da un’atmosfera 
              positivamente straniante presagita sin dall’incipit e dove si sa 
              che qualcosa sta per accadere.
 
 La grandezza di Buzzati sta proprio in questa capacità evocativa, 
              sta cioè nel fatto che il suo stile piano, il suo linguaggio 
              esatto, apparentemente sommesso, parco di aggettivi, spoglio di 
              citazioni, fatto di frasi tenute sulla linea di una medietas 
              discorsiva, addirittura mutuate dal registro giornalistico e 
              tratte dal parlato, risulta appunto evocativo, capace cioè di 
              ricavare dalla realtà una risonanza recondita. E questa capacità 
              proviene a Buzzati da una facoltà del cuore, non del cervello, una 
              facoltà innata certamente, ma anche coltivata dall’esclusiva 
              frequentazione con l’essenzialità delle cose, con la tragicità 
              dell’esistenza umana, col suo avere a che fare con la morte. La 
              vita e l’opera di Buzzati sono una lunga, ininterrotta meditatio 
              mortis, un continuo esercizio di severa vigilanza, un’insistita ed 
              eroica affermazione di stile. La serietà di Buzzati del resto 
              traspare dal suo stesso volto: scavato, asciutto, segnato da 
              un’espressione austera, da uno sguardo gentile ma fermo, un volto 
              da alpinista più che da intellettuale, la faccia di una persona 
              seria, in grado di venire ai ferri corti con se stessa. Non a caso 
              Buzzati si è sempre tenuto alla larga dalle occasioni mondane, dai 
              ritrovi civettuoli di salotti e damazze, dai cenacoli di 
              intellettuali deraciné: non per snobismo, ma per serietà. Una 
              serietà che la vita gli impose abbastanza presto: a soli 
              quattordici anni, perde il padre per un tumore al pancreas, male 
              che ucciderà anche Dino. Ma la serietà non ne fa un individuo 
              triste: Dino ama la montagna, le corse in bicicletta (restano 
              magistrali e insuperate le sue cronache dal giro d’Italia), lo 
              sport (immortale il ricordo del grande Torino inghiottito dalla 
              tragedia di Superga) coltiva le gioie dell’immaginazione, ammira 
              le belle donne, apprezza i piaceri profondi del sesso.
 
 Dopo il servizio militare prestato come ufficiale, prima ancora di 
              conseguire la laurea in giurisprudenza, Dino entra come praticante 
              al Corriere della Sera. E’ il 1928, malgrado nel suo diario scriva 
              di temere di venire “cacciato come un cane” – resterà al giornale 
              di via Solferino fino al 1972, l’anno della sua morte. Non si 
              comprende fino in fondo Buzzati senza pensarlo assieme 
              all’esperienza giornalistica di redazione e a quella di ufficiale 
              di leva, senza cioè contestualizzarlo in quelle due plastiche e 
              concluse metafore della vita che sono gli ambienti semplificati di 
              una redazione giornalistica e di una caserma, universi ritmati da 
              regole ferree, automatismi ottusi, routine, turni, gerarchie, 
              rapporti di comando e obbedienza. Non si capisce Buzzati se non si 
              comprende il suo esser parte integrante di questo mondo e 
              contemporaneamente il suo esserne estraneo, la sua adesione alla 
              forma, alla regola, alla gerarchia e la sua parallela pulsione 
              vitalista, il suo essere un uomo d’ordine e, come tutti gli uomini 
              d’ordine, un anarca portato alla rivolta interiore, silenziosa, 
              terribilmente radicale.
 
 Pulsioni contraddittorie che trovano espressione compiuta ne “Il 
              deserto dei Tartari” (1940), il capolavoro di Buzzati che ha 
              assunto col tempo le connotazioni d’uno dei più efficaci miti 
              della modernità occidentale. Un’opera a cui avevano aperto la 
              strada i primi due romanzi della sua produzione: “Barnabo delle 
              montagne” (1933) e “Il segreto del bosco vecchio” (1935); racconti 
              fantastici ambientati in paesaggi che assomigliano molto alle 
              amate montagne bellunesi, storie dove sono contenuti in nuce tutti 
              i paradigmi della narrativa buzzatiana, dove il soprannaturale, la 
              tentazione, il demoniaco, il rimorso della coscienza, il riscatto 
              morale attraverso una morte o un gesto eroico (silenziosamente 
              eroico) diventano i topoi di una narrazione a sfondo morale. Il 
              deserto dei Tartari è il risultato creativo di un’intuizione che 
              immette gli spunti realistici dentro un’allegoria che sembra 
              assumere i tratti della parabola e, si diceva, di un mito.
 
 E’ stato giustamente detto che il Deserto non è un romanzo 
              realista né un romanzo fantastico: lo spazio e il tempo in cui ci 
              introduce Buzzati non sono quelli della storia, ma nemmeno 
              appartengono a quelli del fantastico. E’ piuttosto una dimensione 
              indeterminata, un tempo crepuscolare quello che con pennellate 
              essenziali e sfumate, riecheggianti i motivi dell’espressionismo 
              mitteleuropeo, Buzzati tratteggia. Un tempo cioè durante il quale 
              nulla avviene realmente se non il naufragio della stessa 
              temporalità storica e dei suoi possibili universi. Il tenente 
              Giovanni Drogo lascia dietro di sé tutto ciò su cui l’individuo 
              costruisce la sua personalità: famiglia, amici, gratificazioni 
              professionali: tanto che il carattere spoglio dell’universo 
              narrativo nel quale si penetra, sembra alludere proprio alla 
              solitudine del protagonista, attratto da un destino che lo isola, 
              sorretto solo dall’attesa dei Tartari che non arrivano mai. 
              L’attesa di Drogo è la stessa che Buzzati respirava, assieme ai 
              colleghi del Corriere, durante la routine del lavoro in redazione, 
              dove “le speranze, i sogni inevitabili quando si è giovani, si 
              sarebbero atrofizzati a poco a poco… e dove intorno a me vedevo 
              uomini, alcuni della mia età, altri molto più anziani, i quali 
              andavano trasportati dallo stesso lento fiume e mi domandavo se 
              anch’io un giorno non mi sarei trovato nelle stesse condizioni… 
              colleghi oscuri che non avrebbero lasciato dietro di sé che un 
              pallido ricordo destinato presto a svanire”.
 
 In questo amaro, ma realistico ritratto e più ancora nella sua 
              trasposizione letteraria del Deserto, è semplicemente raffigurata 
              la condizione umana che l’incalzare degli anni, lo svanire delle 
              illusioni, la calcinazione delle velleità, sempre riconducono alla 
              sua essenzialità e cioè al confronto con l’unico principio di 
              realtà che la vita possiede: la morte. Morte che per il 
              protagonista non arriverà come aveva desiderato, in battaglia, 
              circonfuso di gloria, in compagnia dei suoi giovani camerati, ma 
              in una stanza di locanda della “vile pianura”, dove Drogo, ormai 
              vecchio e allo stremo delle forze, umiliato nel corpo e prostrato 
              nell’anima, è stato condotto da un giovane attendente dopo 
              l’allontanamento in barella dalla Fortezza Bastiani. Ma in questo 
              ambiente squallido, banale, antiretorico Drogo riscatta tutta la 
              sua vita di inutile attesa con un atto di coraggio senza 
              testimoni, disponendosi ad accogliere con dignità, a piè fermo e 
              collet monté la morte: “E’ entrata, con passo silenzioso, e adesso 
              sta avvicinandosi alla poltrona di Drogo. Facendosi forza Giovanni 
              raddrizza un po’ il busto, si assesta con una mano il colletto 
              dell’uniforme, dà ancora uno sguardo fuori della finestra per 
              l’ultima sua porzione di stelle. Poi, nel buio, benché nessuno lo 
              veda, sorride”.
 
 Un gesto fine a se stesso, consumato senza attesa di 
              riconoscimenti, senza testimoni, e per questo esemplare, 
              autenticamente eroico: come quello del soldato di Pompei descritto 
              da Spengler che per non essere stato sciolto dalla consegna resta 
              al suo posto ad attendere la fine. Una fine che non è vana né 
              assurda e che anzi, come le stelle a cui guarda Drogo, illumina di 
              senso un’esistenza vissuta nell’attesa e nel progressivo spegnersi 
              di ogni umana vanità. Una fine che allude a qualcos’altro ma che 
              può essere da sola premio a se stessa secondo i dettami di 
              un’antica etica stoica. Da questo punto di vista Buzzati è un 
              autore tutt’altro che astratto, si rivela anzi in grado di 
              fornire, senza orpelli retorici, un orientamento spirituale e 
              un’etica dell’azione assieme a un messaggio preciso, che 
              chiaramente afferma come non nella storia ma in se stesso l’uomo, 
              creatura a configurazione spirituale, deve attendersi la sua 
              dannazione o la sua salvezza, perché egli, per dirla con 
              Chateaubriand “racchiude in sé un mondo a parte, estraneo alle 
              leggi e al destino dei secoli”. Si sbaglierebbe però nel pensare 
              Buzzati quale irreprensibile moralista, tagliato fuori dalla vita 
              e dai suoi smarrimenti.
 
 Nel 1963 esce “Un amore” ed è quasi uno scandalo. Buzzati con 
              quest’opera sembra infatti distaccarsi dal registro narrativo 
              della sua cifra, sembra dimenticare l’ansia metafisica per 
              tuffarsi nel gorgo pulsante di sangue dei desideri sessuali, della 
              brama per una giovane donna che ama ma che non possiede. Il 
              romanzo, che ha un evidente rimando autobiografico, racconta di un 
              architetto, Antonio Dorigo che in una casa d’appuntamenti si 
              innamora di Laide, una lolita che lo trascina negli abissi: “In me 
              sembra essere avvenuta un’inversione cronologica. Prima il tema 
              della morte, poi il tema vita e amore. Però si tratta di 
              un’inversione solo apparente. I due temi ci sono sempre stati nei 
              miei racconti. Sono strettamente uniti, relativi uno all’altro”. 
              Un amore insomma – la cui struttura ricalca l’archetipo del mito 
              di Orfeo, al quale Buzzati si ispirerà per il suo “Poema a 
              fumetti” (1969) – è parte coerente dell’avventura umana e 
              cognitiva di Buzzati: è il racconto di una discesa ad inferos, 
              tesa a scandagliare il fondo della propria anima, per rendersi 
              conto della falsità di un’esistenza edificata su equilibri 
              artificiali. La ricerca del protagonista attraverso l’eros giunge 
              ancora una volta alla percezione di un sottofondo oscuro della 
              vita, alla constatazione che la vita è dolore, che anche il 
              piacere è impastato di morte. Ancora una volta Buzzati ci porta a 
              fare i conti con una verità ulteriore, misteriosa, che sempre 
              costituisce il limite estremo oltre il quale i sensi e la ragione 
              non possono spingersi. Il 1963 è anche l’anno della morte di 
              Arturo Brambilla, l’alter ego di Buzzati, l’amico di infanzia con 
              cui Dino non smetterà mai di confidarsi. “Io dopo la sua morte 
              sono un sopravvissuto. Sono subito diventato vecchio… Sono 
              diventato l’omino che va al cimitero una sera di novembre”.
 
 Buzzati in effetti aveva detto tutto, continuerà a scrivere 
              articoli, poesie, – anche copioni cinematografici – a dipingere, 
              ma l’essenziale stava ormai nei romanzi e nei racconti che aveva 
              lasciato. La verità è che Dino sentiva l’arrivo della morte e si 
              stava preparando “come l’eroe di uno dei suoi racconti fuori del 
              tempo e dello spazio: sempre più solo, sempre più in ombra […] 
              ritirato nella sua inaccessibile spiaggia”. A chi gli raccontava 
              pietose bugie sulle sue condizioni aveva detto: “Ma che ulcera e 
              ulcera! Sono quarant’anni che scrivo sulla morte: perciò so 
              benissimo cosa ho”. Il 28 gennaio del 1972, alle 16,20, nella 
              stanza duecento della clinica “La Madonnina”, mentre su Milano 
              imperversa una bufera di vento e di neve Dino Buzzati, come 
              Giovanni Drogo nel Deserto dei Tartari, muore con dignità e 
              coraggio, penetrando in quel mistero a cui aveva dedicato la vita.
 
              10 ottobre 2003 |