| Narciso? Un nemico del popolo di Brunella Casalini
 
 Liquidato da Steven Holmes come un conservatore mascherato sotto 
				i panni dell’intellettuale democratico, Christopher Lasch è 
				stato senz’altro un personaggio scomodo. I suoi strali polemici 
				hanno colpito tanto la sinistra liberale, per la sua cieca 
				fiducia nel progresso, nelle politiche keynesiane e nello 
				statalismo, quanto la destra conservatrice per le politiche 
				liberiste reaganiane. Un fatto è certo: Marx – soprattutto 
				attraverso la sintesi di Marx e Freud proposta dalla Scuola di 
				Francoforte – ha in qualche modo ispirato la sua critica della 
				società di massa. E’ tuttavia, difficile comprendere la sua 
				posizione senza il richiamo ad un orizzonte di valori 
				profondamente americano: quello della tradizione populista di 
				cui, prendendo le distanze da una sua interpretazione quale 
				“cranky pseudo-conservatism” (R. Hofstadter), un movimento 
				regressivo e nostalgico, dai toni nativisti e antisemiti, Lasch 
				ha sottolineato, piuttosto, la forte componente radicale.
 
 La morale populista del “piccolo produttore”, secondo la quale 
				“la virtù paga, ma non solo in denaro”, fonda una specifica 
				tradizione che si riconosce nell’eroe piccolo-borghese della 
				cultura americana del XVIII e del XI secolo, nell’americano 
				medio, lettore attento delle massime del Poor Richard’s Almanack 
				di Benjamin Franklin. Questo individuo non è vittima, secondo 
				Lasch, di una passione acquisitiva illimitata, di un 
				individualismo possessivo, né nutre una concezione assoluta 
				della proprietà, scissa da ogni obbligo societario. Lotta contro 
				le corporations e apprezza i valori delle classi medio-basse: 
				l’egualitarismo politico, la fedeltà, il conservatorismo morale, 
				il valore dell’indipendenza personale, del lavoro produttivo; ha 
				un sano senso del limite, crede, più che nell’idea di un 
				progresso illimitato, nel valore della speranza e della memoria 
				del passato. L’individualismo populista è un individualismo 
				etico, razionale, spesso mosso da una componente religiosa. Ad 
				esso Lasch contrappone l’individualismo narcisistico, affetto da 
				uno Stato cronico di ansia e inquietudine, proprio di un 
				individuo ripiegato su se stesso, alla ricerca di un benessere 
				illimitato, frutto estremo di un liberalismo che ha assecondato 
				in modo acritico le dinamiche consumistiche della società di 
				massa. Prototipo dell’individuo narcisista è il modello del sé 
				“fluido” e “multiplo”, proposto dalla filosofia pos-tmoderna e, 
				secondo Lasch, da una cattiva sociologia e psicologia. Un sé 
				costituito dall’insieme dei suoi ruoli sociali, dalla somma 
				delle immagine di sé, piuttosto che da una nozione di identità 
				intesa quale “continuità della personalità”. Questi due modelli 
				di individualismo corrispondono, nell’analisi di Lasch – che in 
				questo ricalca l’impostazione che già era stata del Riesman de 
				La folla solitaria – a due fasi storiche distinte: la prima e la 
				tarda modernità.
 
 I due volti della modernità
 
 Nella ricostruzione storica del passaggio da una forma all’altra 
				di individualismo, Lasch attribuisce un significato cruciale 
				all’eredità intellettuale dell’epoca progressista, che ha 
				preparato a livello culturale e politico l’avvento del New Deal 
				rooseveltiano e delle politiche keynesiane. Proprio i primi 
				decenni del Novecento, in effetti, segnano la sconfitta della 
				prospettiva populista, una sconfitta che Lasch, fin dalle sue 
				prime opere, attribuisce all’avvento di un tipo di intellettuale 
				ottimisticamente fiducioso nell’idea di una gestione 
				scientifica, efficiente e manageriale della società e 
				nell’intervento dello Stato nel settore economico e sociale. Da 
				“The American Liberals and the Russian Revolution” (1962) fino a 
				“Il paradiso in terra” e “La rivolta delle élite”, Lasch ha 
				dedicato un’attenzione costante alla critica del pensiero 
				progressista. E’ nella cultura progressista che viene 
				individuata l’origine di un’élite intellettuale che ha tradito i 
				valori della democrazia, ed è divenuta incapace di mantenere il 
				contatto con la gente comune. Un’élite che, a cominciare dagli 
				anni Settanta, ha preferito risolvere alcuni fondamentali 
				problemi politici e sociali, come il razzismo o la questione 
				dell’aborto, ricorrendo alle corti di giustizia o ad una 
				burocrazia federale illuminata, piuttosto che alle vie della 
				partecipazione democratica. Un’intellettualità liberale 
				globalizzata, che propone soluzioni dall’alto, un’ingegneria 
				sociale astratta e universalistica, che non riesce a intaccare 
				le convinzioni diffuse tra la gente comune, e semmai provoca in 
				essa dure reazioni di rigetto. Un’élite liberale che negli Stati 
				Uniti contemporanei rischia, secondo Lasch, di lasciare campo 
				libero ad una destra conservatrice molto più abile e 
				spregiudicata nel toccare le corde giuste (come la religione e 
				il patriottismo) per arrivare al cuore della “middle America”, 
				al cuore di quell’ampia fetta di popolazione delle classi 
				medie-inferiori che vive lontana dalle coste, che nutre ancora 
				un profondo rispetto per valori come la famiglia e la 
				solidarietà di vicinato, che ha ancora quel senso del limite 
				perso dalle classi medio alte.
 
 Tra i primi esempi di questa figura di intellettuale liberale 
				Lasch ricorda personaggi come Walter Lippmann e Louis Mencken, 
				fautori di una visione elitista, che esprimeva quel disprezzo 
				per la maggioranza che sarebbe divenuto un tratto comune 
				all’intellettualità liberale successiva. La sfiducia di Lippmann 
				nelle capacità del “pubblico” di formulare giudizi ragionati si 
				fondava sulla netta contrapposizione tra “scienza” e “opinione”, 
				una contrapposizione che si accompagnava al culto dell’esperto e 
				della professionalità, e alla sottovalutazione dell’importanza 
				che nella vita democratica hanno non solo le regole, ma anche la 
				discussione pubblica. Una discussione pubblica che muova dai 
				sentimenti e dalle convinzioni condivisi, in cui, per poter 
				aspirare ad essere collocati al di sopra della categoria delle 
				“opinioni” e per poter essere persuasivi e condurre anche altri 
				a riconoscerli come propri, i punti di vista personali devono 
				essere articolati e difesi. Affidatasi alle istituzioni e alle 
				procedure, la democrazia americana ha perso di vista 
				l’importanza delle virtù civiche e delle condizioni che 
				consentono ad esse di riprodursi, condizioni quali le strutture 
				di vicinato, le famiglie, le chiese, tutte quelle istituzioni in 
				cui circolano informazione ed esperienza, che contribuiscono, 
				per dirla con Robert Putnam, alla genesi del “capitale sociale”.
 
 Secondo Lasch, nella società dei consumi la capacità di “fare da 
				sé”, di pensare in modo autonomo e indipendente, è stata 
				gravemente minacciata dalla crescita dello Stato terapeutico, da 
				una sempre più diffusa dipendenza dai mass-media, dalla scienza 
				e dalle nuove tecnologie, dal moltiplicarsi di figure quali 
				dottori, psicologi, insegnanti, e insieme dallo svuotamento 
				delle città, sostituite dai sobborghi di grandi megalopoli dai 
				confini sempre più incerti, e dagli anonimi shopping malls. La 
				cultura dei sobborghi metropolitani, così come la cultura della 
				droga nei ghetti, per Lasch, si fonda su una “fantasia di fuga”, 
				su un’idea di libertà come assoluta assenza di legami e limiti. 
				La crisi della virtù civica non è, però, dovuta solo al venire 
				meno degli spazi pubblici, delle assemblee, dei caffè, delle 
				associazioni, del vicinato, ma anche alla crisi della sfera 
				privata. Sbagliano coloro che come Richard Sennett, hanno 
				collegato il declino dell’uomo pubblico alla fuga nel privato. 
				La famiglia è stata una delle principali vittime della crescita 
				dello Stato terapeutico, che l’ha progressivamente svuotata 
				tanto delle sue funzioni produttive quanto delle sue funzioni 
				riproduttive.
 
 La sfera privata è andata gradualmente perdendo, secondo Lasch, 
				quelle che Hannah Arendt riconosceva come le sue principali 
				“caratteristiche non privative”: il senso della concretezza 
				derivante dal possedere un mondo proprio, la possibilità di 
				proteggersi da un eccessivo svelare in pubblico la parte più 
				profonda del nostro io. Indebolita dal ruolo sempre più 
				importante che medici, psicologi, insegnanti, e non ultima la Tv 
				hanno assunto nella crescita dei bambini, la famiglia della 
				tarda modernità appare a Lasch insicura sul suo ruolo e sulla 
				sua funzione, tendente a delegare ad altre istituzioni (mediche, 
				scolastiche, assistenziali) compiti relativi all’educazione e 
				alla disciplina dei figli. Responsabile di tutto questo sarebbe 
				stato, per Lasch, anche il movimento femminista, con cui egli ha 
				avuto un rapporto difficile e polemico – forse, inevitabile, 
				visto il significato quanto meno ambiguo di certe sue 
				affermazioni, e in ogni caso aperto fino all’ultimo, come emerge 
				dalla raccolta di saggi “Women and the Common Life. Love 
				Marriage, and Feminism” (1997), pubblicata postuma dalla figlia, 
				Elisabeth Quinn Lasch. La famiglia democratizzata della tarda 
				modernità è divenuta un luogo di relazioni prive di quel 
				conflitto dinamico e dialettico attraverso il quale si può 
				formare una personalità forte, capace di un giudizio 
				indipendente, di disciplina e di iniziativa, quelle qualità di 
				carattere che sono indispensabili per il funzionamento di una 
				democrazia che non veda il cittadino ridotto al ruolo di mero 
				consumatore.
 
 Liberato dal “super-io”, dalla tirannia di genitori e autorità 
				forti e riconoscibili, l’individuo della società di massa non 
				solo non realizza la propria emancipazione, ma perde, secondo 
				Lasch, le risorse psicologiche che consentono di fronteggiare 
				paure e tensioni provenienti dal contatto col mondo esterno, 
				venendo soggiogato dalla “tirannia delle angosce interne”. Per 
				l’acquisizione di capacità di controllo e auto-direzione è 
				fondamentale il momento della distinzione tra io e non-io, che 
				si sviluppa attraverso la mediazione dell’esperienza e 
				dell’esplorazione del mondo esterno. Momenti che sono ridotti a 
				nulla dalla società dei consumi. Pur essendo il mondo costituito 
				sempre più da oggetti costruiti dall’uomo, essi non fungono più 
				da mediazione tra mondo esterno e mondo interiore, non rivestono 
				più la funzione di “oggetti transizionali” (D. Winnicott). Il 
				primo, più evidente, prodotto dell’erosione dell’esperienza e 
				della competenza dell’individuo contemporaneo è la sua debolezza 
				psicologica, una debolezza legata all’incapacità di fronteggiare 
				la tensione tra fusione e separazione, tra desiderio di 
				immortalità e paura della finitezza. L’individuo narcisista, 
				descritto fin da The Culture of Narcissism (1979), non è 
				l’egoista o colui che ama eccessivamente se stesso.
 
 Il narcisismo è una patologia che esprime l’esatto opposto 
				dell’amore di sé: timoroso delle situazioni ambivalenti e dei 
				propri impulsi aggressivi, associati a paure di annientamento, 
				il narcisista rifugge il coinvolgimento affettivo, mentre è alla 
				costante ricerca dell’approvazione altrui e di appagamenti 
				immediati, purché fugaci e non impegnativi. Il narcisista vive 
				nella dimensione temporale del presente, non ha legami e memorie 
				che lo legano al passato, non sente responsabilità per quanto 
				accadrà nel futuro. La mentalità del narcisista ricalca quella 
				del sopravvissuto. Afflitto da un perenne senso di vuoto, di 
				ansia e di insoddisfazione l’individuo narcisista mediante la 
				terapia e l’autoauscultazione fa ricorso ad una religione della 
				salvazione di sé, che è un sostituto solo apparente delle 
				vecchie religioni. Le religioni del passato, infatti, non 
				avevano solo una funzione consolatoria: esigevano impegno, 
				dedizione, creavano dubbi sull’effettiva conformità della 
				condotta pratica alle professioni verbali, imponevano 
				l’espiazione del peccato, imprimevano il senso di colpa, 
				stimolando così la riflessione e la capacità di giudizio morale.
 
 La concentrazione dell’individuo contemporaneo sulla sua sola 
				vita individuale tende a svuotare la sfera pubblica dallo 
				scontro politico e ideologico: lo spazio del dibattito pubblico 
				si consuma e l’individuo si riduce sotto la direzione della 
				società; oggi, ci dice Lasch, lo Stato controlla non soltanto il 
				corpo degli individui, ma anche i recessi più segreti della vita 
				privata, che un tempo sfuggivano al dominio politico. L’intera 
				vita del cittadino è ormai sottoposta alla direzione della 
				società, mentre si affievolisce sempre più la mediazione della 
				famiglia e delle altre istituzioni alle quali una volta era 
				delegata l’opera di socializzazione. Al dominio di coloro, 
				terapeuti e manager, che possono appellarsi alla scienza dei 
				fatti, si contrappone l’esautorazione dell’io democratizzato, il 
				cui giudizio morale ha perduto ogni peso effettivo, per divenire 
				mera espressione di una preferenza personale. È su questo 
				terreno che si diffonde la mentalità del generale 
				giustificazionismo e della generale de-responsabilizzazione 
				tipica dell’individuo narcisista o “emotivista” – come 
				preferisce definirlo MacIntyre. Non contrastando l’avvento della 
				società consumistica, e delegando il funzionamento della 
				democrazia alle sole istituzioni e procedure, il liberalismo ha 
				finito, secondo Lasch, per “scialacquare il capitale di 
				tradizioni religiose e morali antecedenti l’ascesa del 
				liberalismo”, producendo un diffuso cinismo verso la politica e 
				le istituzioni stesse. La democrazia, per Lasch, ha bisogno 
				delle capacità di esseri autosufficienti (il che non significa 
				incapaci di cooperare e collaborare) e responsabili delle 
				proprie azioni e dei propri giudizi. Tutte le versioni classiche 
				della teoria liberale hanno sempre presupposto un grado minimo 
				di cultura, un consenso diffuso su un insieme minimo di valori 
				condivisi e la possibilità di conciliare l’interesse particolare 
				e quello generale, mediante la nozione di interesse ben inteso.
 
 Famiglia, vicinato,comunità locali
 
 Nelle società industriali avanzate, tuttavia, l’esistenza di 
				quelle condizioni minime non può più essere data per scontata e 
				l’esplosione delle “contraddizioni culturali” del capitalismo 
				sembra dimostrare che una società liberale richiede più virtù di 
				quelle che i liberali sono stati disposti ad ammettere. Di ciò, 
				secondo Lasch, si erano resi conto i populisti americani che, 
				riprendendo la tradizione jeffersoniana, avevano individuato 
				nella gestione di una piccola proprietà o nel commercio quegli 
				oggetti “transizionali”, quegli strumenti di mediazione tra sé e 
				il mondo esterno, che sono in grado di dare all’individuo una 
				base di fiducia in se stesso, lo spirito di iniziativa e il 
				senso della responsabilità personale. Il carattere democratico 
				non può trovare condizioni favorevoli al suo sviluppo senza il 
				supporto della famiglia, del vicinato, delle comunità locali, di 
				legami e appartenenze, come avevano compreso all’inizio del 
				secolo autori come Dewey, Cooley, Royce, Jane Addams e Mary 
				Parker Follett, appartenenti a quella tradizione della Great 
				Community che Lasch preferisce al pensiero dei contemporanei 
				Communitarians. Se, infatti, anche i comunitari propongono, come 
				i suoi populisti, una terza via rispetto all’alternativa Stato 
				assistenziale/mercato – via che consiste nel ricercare il 
				fondamento dell’obbligo morale nel “senso comune” – il 
				comunitarismo ha, per Lasch, il limite di parlare molto di 
				responsabilità sociale, con sfumature di “compassione”, e ben 
				poco di responsabilità individuale e di “rispetto”. Peccato che 
				Lasch ci abbia detto molto poco sul modo in cui sarebbe oggi 
				possibile ricreare una qualche dimensione di spazio pubblico, se 
				non con richiami ad un passato che appare difficile, e non 
				sempre desiderabile, recuperare.
 
 5 dicembre 2003
 
 (da Ideazione 4-2003, luglio-agosto)
 
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