| Elogio del populismo democratico di Christopher Lasch
 
 Il collasso del comunismo come temibile antagonista del 
				liberalcapitalismo ha diffuso uno stato di euforia tra i 
				liberali di destra e di centro, mitigato solo dalla riflessione 
				per cui “la fine della storia”, della tanto celebrata 
				espressione di Francis Fukuyama, sarà “un’epoca molto triste” 
				per coloro che apprezzano “l’audacia, il coraggio, la fantasia e 
				l’idealismo”. L’“indiscutibile vittoria del liberalismo 
				economico e politico”, per come la vede Fukuyama, significa il 
				ruolo universale della legge, la globalizzazione di quella 
				“società senza classi” che si è già affermata negli Stati Uniti, 
				una grande espansione dell’offerta di beni di consumo, uno 
				“Stato universale omogeneo”, ed una “consapevolezza 
				post-storica” in cui “la lotta ideologica […] sarà sostituita 
				dal calcolo economico, dalla costante soluzione di problemi di 
				natura tecnica, dalle preoccupazioni ambientali, e dalla 
				soddisfazione delle sempre più sofisticate domande dei 
				consumatori”.
 
 L’analisi di Fukuyama riprende precedenti profezie da parte 
				liberale sulla fine delle ideologie. Ma richiama curiosamente 
				alla mente l’uomo a una dimensione di Marcuse e la terribile 
				visione della Scuola di Francoforte di una società totalmente 
				amministrata priva di contraddizioni e, per questo, 
				completamente refrattaria al cambiamento. Dal momento che 
				Fukuyama, così come Marcuse e i suoi sodali, trae ispirazione da 
				Hegel, non sorprende che le loro differenti visioni della fine 
				della storia abbiano così tanto in comune. Da questo punto di 
				vista, la convergenza dell’ottimismo tecnologico con la 
				disperazione culturale, del culto del progresso con la 
				nostalgia, è stata una caratteristica ricorrente del pensiero 
				moderno sin dai tempi dell’Illuminismo. Il trionfo della ragione 
				appare come la terra promessa dell’armonia e della libertà fino 
				a quando non ci ricordiamo che gli uomini hanno imparato ad 
				apprezzare la libertà solo grazie alla competizione ed al 
				conflitto. A questo punto, la weberiana “gabbia d’acciaio” della 
				razionalità appare una descrizione più plausibile del nostro 
				futuro. Fukuyama, dopo essersi intrattenuto a lungo nella 
				descrizione delle beltà del liberalismo e della debolezza delle 
				forze che oggi gli si oppongono, ci fa piombare inaspettatamente 
				nella prospettiva di “secolo di noia”. Il nuovo ordine, afferma, 
				risveglia “le più ambigue sensazioni” – da un lato, la 
				soddisfazione della consapevolezza che il liberalismo non deve 
				più far fronte ad alcuna sfida ideologica di un qualche peso; 
				dall’altro, “una profonda nostalgia per l’epoca in cui ancora 
				esisteva la storia”.
 
 Ma l’ordine liberale non è così saldo come poteva sembrare. 
				Nell’ora del suo ipotetico trionfo, la fragilità del liberalismo 
				si manifesta in modo più chiaro che mai, in primo luogo proprio 
				negli Stati Uniti. Dopo aver disintegrato i suoi avversari 
				totalitari, il liberalismo si sta sgretolando dall’interno. 
				L’assenza di una minaccia esterna rende più che mai difficile 
				ignorare questo processo di decadenza. La guerra del Golfo [del 
				1991, ndT] ha offerto una distrazione momentanea, ma è finita 
				troppo presto; e sebbene possiamo aspettarci in futuro altre 
				distrazioni di questo genere, sarà impossibile, nel lungo 
				periodo, evitare il giorno della resa dei conti. I segni di un 
				imminente crollo sono già evidenti. La droga, il crimine, la 
				guerra tra bande stanno rendendo le nostre città inabitabili. Il 
				nostro sistema scolastico è prossimo al collasso. I nostri 
				partiti politici sono incapaci di favorire l’ingresso di intere 
				masse di potenziali elettori nel processo politico. La 
				circolazione globale delle merci, dell’informazione e delle 
				persone, lungi da rendere ciascuno di noi ricco (come i teorici 
				della modernizzazione avevano previsto con grande sicurezza), ha 
				allargato il gap tra le nazioni ricche e quelle povere e ha 
				generato una vasta migrazione verso Ovest e verso gli Stati 
				Uniti in particolare, in cui i nuovi arrivati vanno a riempire 
				le fila dell’esercito dei senza casa, dei disoccupati, degli 
				analfabeti, degli schiavi della droga, dei derelitti, e di 
				coloro che sono tutto fuorché “affrancati”. La loro presenza 
				spinge le risorse esistenti fino al punto di rottura. Le 
				istituzioni mediche ed educative, le agenzie di applicazione 
				della legge, e l’offerta disponibile di beni – per non parlare 
				della tolleranza interrazziale, mai abbondante sin dall’inizio – 
				appaiono tutte inadeguate per il difficilissimo compito di 
				assimilare quello che, a tutti gli effetti, è un surDaily di 
				popolazione.
 
 Liberalismo e virtù civica
 
 Anche i figli del privilegio non vengono più assimilati alla 
				cultura del liberalismo. Un sondaggio dopo l’altro, viene 
				dimostrato che gli studenti dei college non possiedono neppure 
				una conoscenza rudimentale della storia, della letteratura o 
				della filosofia occidentali. Una sorta di deculturazione ha in 
				un certo qual modo preso piede da un po’ di tempo, un processo 
				di diffusione dell’ignoranza (unlearning) senza precedenti 
				storici (il che spiega perché non abbiamo una parola migliore 
				per descriverlo). Quello che E.D. Hirsch chiama analfabetismo 
				culturale rappresenta probabilmente un pericolo più serio degli 
				attacchi, ovviamente a caratterizzazione ideologica, portati 
				alla cultura liberal. La destra ripudia “l’umanismo secolare”, 
				mentre la sinistra denuncia qualsiasi tentativo di sostenere un 
				nucleo di valori comuni come imperialismo culturale e domanda 
				parità di trattamento per le minoranze. La “modernizzazione” del 
				mondo, come veniva concepita quando i liberali stavano 
				conducendo lo spettacolo, implicava la creazione non solo di un 
				mercato globale ma di una cultura globale in cui i valori 
				liberali – la libertà individuale, la libertà di ricerca, la 
				tolleranza religiosa, la dignità umana – sarebbero stati 
				universalmente rispettati. Noi oggi abbiamo una cultura globale, 
				ma è la cultura di Hollywood, del rock & roll e di Madison 
				Avenue – una cultura dell’edonismo, della crudeltà, del 
				disprezzo e del cinismo.
 
 E' inutile mettersi a speculare sul da farsi – se cercare di 
				salvare il liberalismo, sostituirlo con qualcos’altro, o 
				rassegnarci non solo al declino del liberalismo ma del nostro 
				esperimento nazionale nel suo complesso – fino a che non 
				riusciremo a comprendere meglio cosa sta esattamente accadendo 
				alle nostre tradizioni politiche e perché. Se il liberalismo sa 
				conservare e innovare la sua capacità di crescita e sviluppo, 
				sarebbe stupido abbandonare la nostra tradizione dominante. Se, 
				invece, ha raggiunto i limiti esterni della sua crescita, 
				dovremmo allora probabilmente rivolgerci a quelle tradizioni 
				sommerse della storia americana che sono state messe in ombra, 
				ma mai completamente estinte, dal credo politico dominante.
 
 Già parlare di limiti in quanto tali è un altro modo per parlare 
				della condizione attuale del liberalismo, una tradizione 
				politica fondata sull’espansione economica illimitata. Nella sua 
				forma più convincente, il liberalismo poggia su una temperata 
				fiducia nel progresso, che non presuppone alcuna ingenua 
				illusione riguardo alla perfettibilità della natura umana ma 
				assume semplicemente che una decisa crescita della domanda dei 
				consumatori – una rivoluzione delle aspettative crescenti – farà 
				da sostegno in maniera indefinita alla crescita economica. Il 
				liberalismo si è identificato con le politiche immaginate per 
				assicurare il pieno impiego e, così, espandere la capacità di 
				consumo. La promessa di un’abbondanza universale conteneva 
				quelle implicazioni ugualitaristiche senza le quali il 
				liberalismo non avrebbe potuto rivendicare la propria autorità 
				morale. Tali implicazioni, in verità, sono state aperte ad 
				interpretazioni conflittuali. Alcuni sostenevano che fosse 
				sufficiente accrescere le quantità disponibili di risorse e 
				servizi, nell’aspettativa che il risultato sarebbe stato la 
				crescita del tenore di vita di ciascuno. Altri domandavano 
				misure più radicali, pensate non solamente per accrescere la 
				ricchezza totale, ma per distribuirla in modo più equo. Ma 
				nessuno di coloro che credeva nel progresso poteva concepire 
				alcun limite alla capacità produttiva nel suo complesso. Nessuno 
				immaginava il ritorno ad un’esistenza più frugale: ipotesi di 
				questo tipo non potevano trovare spazio nel progressismo del 
				pensiero dominante.
 
 La scoperta tardiva che l’ecologia terrestre non potrà più 
				sostenere un’espansione indefinita delle forze produttive dà il 
				colpo di grazia alla fede nel progresso. Una distribuzione più 
				equa della ricchezza richiede una riduzione del tenore di vita 
				goduto dalle nazioni ricche e dalle classi privilegiate. I 
				tentativi di estendere il tenore di vita occidentale al resto 
				del mondo porterebbero molto velocemente all’esaurimento delle 
				risorse non rinnovabili, l’irreversibile inquinamento 
				dell’atmosfera terrestre, drastici mutamenti di clima, e la 
				distruzione del sistema ecologico da cui dipende la vita umana. 
				“Immaginiamo”, scrive Rudolf Bahro, “cosa potrebbe accadere se 
				il consumo di materie prime e di energia della nostra società 
				fosse esteso ai 4,5 miliardi di persone che oggi abitano il 
				pianeta, o ai 10-15 miliardi di un probabile futuro prossimo. E' 
				immediatamente evidente che la Terra è in grado di sopportare 
				gli attuali volumi di produzione […] ancora per poco tempo”. 
				Immaginiamo, per fare un altro esempio, un’India in cui ciascuna 
				famiglia possieda un paio di automobili e in cui ogni casa 
				possieda aria condizionata, stereo, videoregistratore e una 
				cucina fornita dei più moderni accessori.
 
 L’importanza crescente delle questioni ambientali è uno degli 
				indicatori più drammatici, ma certo non il solo, che abbiano 
				fatto ingresso in una nuova epoca dei limiti – limiti non solo 
				allo sviluppo economico ma, più in generale, limiti al controllo 
				dell’uomo sulla natura e sulla società. E' un luogo comune 
				osservare che le innovazioni tecnologiche hanno conseguenze 
				imprevedibili che spesso le rendono auto-annullanti, poiché 
				peggiorano i problemi per la cui soluzione erano state pensate. 
				L’uso su larga scala degli antibiotici porta alla proliferazione 
				di batteri resistenti agli antibiotici. Le tecnologie mediche 
				che prolungano la vita creano un’ulteriore classe di persone 
				bisognose di aiuto, il cui numero sopravanza le attrezzature 
				costruite per prendersi cura di loro. Le automobili, 
				ipoteticamente un mezzo di trasporto veloce, economico ed 
				efficiente, semplicemente nascondono il tempo che ci vuole per 
				portare qualcuno da un posto ad un altro. Prendendo in 
				considerazione il tempo richiesto per mantenere in buono stato e 
				pagare per queste macchine, guidare e parcheggiarle, e spendere 
				denaro per acquistare il combustibile, pagare l’assicurazione e 
				le riparazioni, una volta Ivan Illich ha calcolato che il 
				guidatore medio raggiungeva una velocità di sole 4,7 miglia 
				all’ora – una distanza solo leggermente maggiore di quella che 
				avrebbe potuto coprire a piedi. David Ehrenfeld, dopo aver 
				citato molti altri esempi di tecnologie auto-annullantisi nel 
				suo Arrogance of Humanism, sostiene che non sia più possibile 
				evitare la conclusione che la nostra incapacità di fare 
				previsioni a lungo termine con una certa precisione, controllare 
				le innumerevoli complessità che entrano in questi calcoli, o 
				calcolare gli effetti non previsti causati dalle nostre 
				procedure di diagnosi e misurazione, impone limiti severi alla 
				nostra capacità di controllo. In un recente articolo, Ehrenfeld 
				continua la sua analisi della nostra “fede sbagliata nel 
				controllo” in cui dimostra come l’eccesso di gestione nel 
				settore privato come in quello pubblico rende le società sempre 
				più ingestibili.
 
 Il semplice volume del lavoro burocratico assorbe energie che 
				potrebbero essere utilizzate in maniera più costruttiva. La 
				catalogazione ossessiva della realtà (l’archiviazione di 
				qualsiasi avvenimento) rende sempre più difficile distinguere 
				l’informazione utile da quella inutile o individuare 
				l’informazione appropriata quando ne abbiamo bisogno. La 
				supervisione ossessiva indebolisce la capacità di giudizio, la 
				competenza e la fiducia in sé di coloro che vi sono sottoposti e 
				crea la necessità di ancora più supervisione. I costi di 
				mantenimento di grandi strutture di gestione drenano risorse da 
				investimenti maggiormente produttivi. La società amministrata, 
				per come ci appare, è intrinsecamente instabile. Esistono dei 
				limiti oltre i quali non può funzionare senza crollare sotto il 
				proprio peso – limiti a cui ci stiamo rapidamente avvicinando. 
				Nella sua versione classica, il liberalismo aveva ridotto al 
				minimo le funzioni del governo. La diplomazia, la guerra, la 
				sicurezza e l’educazione pressoché esaurivano le responsabilità 
				dello Stato, per come veniva concepito dai liberali nel XVIII e 
				XIX secolo. Questo dimagrimento delle competenze governative, 
				insieme con la sua promozione della tolleranza religiosa e della 
				libertà di parola, rappresentava una fonte importante del 
				fascino del liberalismo.
 
 Una via non progressista alla libertà
 
 Oggi anche il liberalismo ha trasformato lo Stato in un 
				leviatano, ed anche il settore erroneamente definito privato è 
				dominato da potenti burocrazie che esercitano un potere 
				“semi-governamentale” e strettamente legato alla burocrazia 
				pubblica, nonostante la loro insofferenza nei confronti della 
				regolazione. Che cosa spiega questa curiosa strada che ha preso 
				lo sviluppo storico, il cui risultato è che il liberalismo è 
				arrivato ad essere associato ad una forma di ordine sociale che 
				sarebbe apparso ripugnante ai padri fondatori del liberalismo? 
				Semplicemente è accaduto che i liberali hanno tradito le proprie 
				origini, come sostengono i critici di destra quando cercano di 
				ricondurre il liberalismo alle sue origini liberiste? O c’è 
				qualcosa nella natura stessa del liberalismo – qualche 
				contraddizione interna, come siamo soliti dire – che spinge 
				necessariamente alla proliferazione di elaborate strutture di 
				gestione, supervisione e controllo?
 
 Due caratteristiche dell’ideologia liberale sono sopravvissute 
				nel corso degli anni: la venerazione per il progresso e la 
				convinzione che uno Stato liberale avrebbe potuto fare a meno 
				della virtù civica. Da sola, la dedizione nei confronti del 
				progresso ha generato molte delle difficoltà che ora minacciano 
				di seppellire lo Stato liberale, dal momento che il progresso ha 
				significato produzione su larga scala, e centralizzazione del 
				potere economico e politico. La fede nel progresso ha anche 
				contribuito a tenere in vita l’illusione che una società baciata 
				dalla fortuna dell’abbondanza materiale avrebbe potuto fare a 
				meno della partecipazione attiva del cittadino comune al 
				governo, il che ci porta al secondo punto, che poi è il cuore 
				della faccenda. Conclusa la Rivoluzione americana, i liberali 
				cominciarono a sostenere, in opposizione al tradizionale punto 
				di vista secondo cui, nelle parole di John Adams, “la virtù 
				pubblica è il solo fondamento della Repubblica”, che un sistema 
				appropriato di controlli ed equilibri (checks and balances) 
				costituzionali avrebbe “reso vantaggioso anche per gli uomini 
				cattivi agire per il bene pubblico” come diceva James Wilson. 
				Secondo John Taylor, “una società avida può formare un governo 
				in grado di difendersi contro l’avidità dei suoi membri” 
				arruolando “l’interesse del vizio […] sul lato della virtù”. La 
				virtù sta nei “princìpi del governo”, sosteneva Taylor, non 
				nelle “evanescenti qualità degli individui”. Le istituzioni e “i 
				principi di una società possono essere virtuosi, anche se i 
				membri che la compongono sono viziosi”.
 
 Il problema di questo gradevole paradosso di una società 
				virtuosa che si fonda su individui viziosi è, in verità, che i 
				liberali non immaginavano una situazione di questo genere. In 
				realtà, essi davano per scontata una quantità di virtù private 
				certo maggiore di quanto non fossero disposti a riconoscere. 
				Anche oggi, i liberali che fanno propria questa visione 
				minimalista della cittadinanza infilano sempre una certa 
				quantità di cittadinanza tra le fessure della loro ideologia del 
				libero mercato. Milton Friedman ammette che una società liberale 
				richiede “un livello minimo di alfabetizzazione e di conoscenza 
				diffusa” insieme ad una “diffusa accettazione di un nucleo 
				comune di valori”. Osservando la situazione attuale, non è 
				neppure sicuro che la nostra società possa soddisfare queste 
				condizioni minime; ciò che è sempre stato chiaro, invece, è che 
				una società liberale ha bisogno di più virtù di quanto non sia 
				disposto ad ammettere Friedman. Un sistema che si fonda in 
				maniera così forte sul concetto dei diritti presuppone che 
				ciascun individuo rispetti i diritti altrui, non fosse altro 
				perché si aspetta che a loro volta gli altri rispettino i suoi. 
				Il mercato, l’istituzione centrale di una società liberale, 
				presuppone perlomeno individui perspicaci, calcolatori e lucidi 
				– incarnazione pura della scelta razionale; spinti non 
				semplicemente dall’interesse individuale ma da un interesse 
				individuale illuminato. E' per questa ragione che i liberali del 
				XIX secolo attribuivano così tanta importanza alla famiglia. 
				L’obbligazione consistente nel mantenere una moglie e un figlio, 
				dal loro punto di vista, avrebbe disciplinato l’individualismo 
				possessivo e trasformato un potenziale giocatore d’azzardo, 
				speculatore, bellimbusto e truffatore in un coscienzioso padre 
				che provvede ai bisogni della famiglia. Avendo abbandonato il 
				vecchio ideale repubblicano della cittadinanza insieme alla 
				condanna repubblicana del lusso eccessivo, i liberali non 
				avevano più alcuna base per rivolgersi agli individui e 
				convincerli a subordinare l’interesse privato al bene pubblico 
				ma, almeno, potevano fare appello alla più nobile forma 
				egoistica del matrimonio e della genitura. Essi potevano 
				chiedere, se non proprio la sospensione dell’interesse 
				personale, almeno la sua elevazione e il suo perfezionamento 
				etico.
 
 Le aspettative crescenti avrebbero spinto uomini e donne ad 
				investire le loro ambizioni sui loro discendenti. Il solo 
				richiamo etico che non poteva essere liquidato con cinismo o 
				indifferenza era l’appello riassunto dallo slogan tipico dei 
				nostri giorni: “I nostri bambini: il futuro” – uno slogan che fa 
				la sua comparsa solo quando la sua efficacia non può più essere 
				data per scontata. Senza un tale appello al futuro prossimo, la 
				fede nel progresso non avrebbe mai potuto essere utilizzata come 
				mito sociale unificante, che manteneva in vita un persistente 
				senso di obbligazione sociale e dava al miglioramento 
				individuale (self-improvement), accuratamente distinto dalla 
				mera soddisfazione dei propri desideri (self-indulgence), la 
				forza di imperativo morale.
 
 Thomas Hopkins Gallaudet, un importante educatore e filantropo 
				(uno dei primi, tra le altre cose, ad occuparsi dell’educazione 
				dei sordi) sosteneva un punto di vista largamente condiviso dai 
				liberali dell’epoca – eravamo nel 1837 – per cui “il buon 
				ordinamento e il benessere della società” doveva poggiare su 
				“quell’indescrivibile attaccamento dei genitori ai figli che 
				assicura al bambino qualunque attenzione speciale, costante e 
				affettuosa che la sua particolare condizione richiede”. Né i 
				“decreti della legge” né le prigioni né, ancora, un vasto corpo 
				di polizia avrebbe garantito l’ordine sociale. Anche la scuola, 
				su cui normalmente i liberali ripongono molta fiducia riguardo 
				alle sue potenzialità di miglioramento e controllo sociali, non 
				poteva avere successo nei suoi obiettivi a meno che non la si 
				considerasse “in cooperazione [con la famiglia e] nella veste di 
				supporto alle sue funzioni”. Ora che il ruolo educativo della 
				famiglia è stato così fortemente ridimensionato, con il 
				risultato che la scuola spende gran parte dei propri sforzi ad 
				insegnare cose che dovrebbero essere apprese a casa, possiamo 
				apprezzare la saggezza dei luoghi comuni che vogliono la scuola 
				dipendente dalla famiglia. Nel XX secolo gli educatori hanno 
				provato a convincerci che scuole gestite a dovere possono, in 
				realtà, rimpiazzare la famiglia.
 
 La versione data da John Dewey di questa opinione generale era 
				una delle più misurate. Dal momento che l’industria moderna “ha 
				in pratica eliminato le attività occupazionali familiari e di 
				quartiere”, sosteneva Dewey, la scuola avrebbe dovuto “offrire 
				quella formazione che prima si aveva cura di assicurare in casa” 
				– ovvero, formazione alla “realtà della vita vissuta”. Abraham 
				Flexner e Frank Bachman si spingevano oltre. “I mutamenti 
				sociali, politici e industriali”, scrivevano nel 1918, “hanno 
				imposto alla scuola una serie di responsabilità che prima erano 
				di pertinenza della famiglia. Una volta il compito principale 
				della scuola era quello di insegnare i fondamenti della 
				conoscenza, oggi la scuola è incaricata anche della formazione 
				fisica, mentale e sociale del bambino”. Ai nostri giorni, in 
				aggiunta a tutto ciò, la scuola ha il compito ancora più 
				radicale di risvegliare il senso di orgoglio razziale ed etnico 
				nelle minoranze non emancipate, alle spese dell’educazione di 
				base, che è quella che in realtà sarebbe necessaria. A dire il 
				vero sono sempre di più, anche fra gli educatori, coloro che 
				riconoscono che le scuole non possono insegnare qualunque cosa, 
				a meno che l’importanza dell’apprendimento non venga 
				incoraggiata a casa. In assenza di una substruttura di famiglie 
				su cui poggiare, il sistema scolastico continuerà a 
				deteriorarsi.
 
 La storia dell’educazione offre un’illustrazione particolarmente 
				efficace di un principio generale, ovvero che la sostituzione 
				delle associazioni di tipo informale con i sistemi formali di 
				socializzazione e di controllo indebolisce la fiducia sociale, 
				fiacca la disponibilità ad assumersi la responsabilità delle 
				proprie azioni e a considerare gli altri responsabili delle 
				proprie, distrugge il rispetto per l’autorità e, così, finisce 
				per produrre effetti perversi. Le associazioni informali che si 
				è permesso potessero appassire (fatta eccezione per le 
				situazioni in cui sono state deliberatamente e sistematicamente 
				distrutte dalle folli fughe in avanti dell’ingegneria sociale) 
				comprendono non solo la famiglia ma anche il quartiere, che 
				svolge in maniera molto più efficace rispetto alla scuola il 
				ruolo di intermediario tra la famiglia e gli orizzonti più vasti 
				del mondo. Jane Jacobs parla della “normale, casuale manodopera 
				per crescere i figli” che viene sciupata quando i pianificatori 
				urbani e altri riformatori animati da buone intenzioni cercano 
				di togliere i bambini dalle strade per infilarli in parchi, 
				campi da gioco e scuole in cui possono essere sorvegliati in 
				modo professionale. La spinta complessiva della politica 
				liberal, a partire dalla crociata contro il lavoro minorile, si 
				è indirizzata a trasferire la cura dei bambini dai contesti 
				informali a istituzioni disegnate specificamente per questo 
				scopo.
 
 Oggi questa tendenza continua nel movimento per l’assistenza 
				quotidiana (day care), spesso difeso non in base alla tesi per 
				cui, semplicemente, le madri lavoratrici ne hanno bisogno ma in 
				base al fatto che i centri di assistenza quotidiana possono 
				servirsi delle ultime innovazioni in pedagogia e in psicologia 
				infantile. Questa politica di segregazione dei bambini in 
				istituzioni a base generazionale sotto la supervisione di 
				professionisti si è rivelata un grande fallimento, per le 
				ragioni suggerite da Jacobs in The Death and Life of Great 
				American Cities – un attacco alla pianificazione urbana che si 
				estende all’ingegneria sociale in generale: “Il mito per cui i 
				campi da gioco e le guardie o i supervisori stipendiati siano a 
				prescindere positivi per i bambini e che le strade delle città, 
				piene di gente comune, siano a prescindere negative per i 
				bambini, finisce per trasformarsi nel disprezzo per la gente 
				comune”. Nel loro disprezzo generalizzato, i pianificatori 
				perdono di vista il modo in cui le strade urbane, se funzionano 
				nel modo in cui dovrebbero, insegnano ai bambini cose che non 
				possono essere insegnate dagli educatori o da sorveglianti di 
				professione – che “la gente deve sempre avere un briciolo di 
				responsabilità nei confronti del prossimo, anche se non abbiamo 
				alcun legame particolare che ci tiene unito all’altro”. Quando 
				il droghiere all’angolo o il ferramenta sgridano un bambino 
				perché corre per la strada, il bambino impara qualcosa che non 
				può essere appreso semplicemente parlandogliene. Ciò che il 
				bambino apprende è che adulti legati tra loro esclusivamente 
				dalla prossimità di quartiere appoggiano determinate regole e si 
				assumono delle responsabilità nei confronti del vicinato. A 
				ragione Jacobs definisce questo il “primo fondamento di una 
				corretta vita cittadina” – un fondamento che “persone 
				stipendiate per badare ai bambini non possono insegnare poiché 
				l’essenza di questa responsabilità è che tu la assumi senza 
				essere pagato per farlo”.
 
 I quartieri stimolano una “fiducia pubblica accidentale”, 
				secondo Jacobs. Quando mancano, la città deve ricorrere ad 
				agenzie formali di applicazione della legge. A Los Angeles, una 
				città che ha voltato le spalle alle sue strade, possiamo 
				osservare questo modello nella sua forma più sviluppata – la 
				“militarizzazione della vita civile”, come Mike Davis la 
				definisce in Città di quarzo. Una forza di polizia espansa a 
				dismisura, fornita di tecnologia e sempre più della mentalità 
				propria di uno Stato di polizia, continua a scoprirsi incapace 
				di assicurare la sicurezza e l’ordine e deve essere coadiuvata 
				da un esercito di poliziotti privati. Secondo Davis, il settore 
				privato si specializza nell’opera di manovalanza 
				nell’applicazione della legge, il settore pubblico nella 
				sorveglianza dell’area, nelle operazioni paramilitari, nelle 
				intercettazioni telefoniche e nella cura dei suoi schedari di 
				criminali. “La Fortezza Los Angeles”, come la chiama Davis, si 
				sta trasformando in una città di “comunità chiuse, aggregati 
				sottoposti a stretta sorveglianza e pronti a respingere gli 
				intrusi al primo accenno di problema”.
 
 Trionfo o collasso del liberalismo?
 
 Los Angeles, il trionfo della contro-urbanizzazione, incarna al 
				tempo stesso il trionfo e il collasso del liberalismo. Essa 
				rappresenta letteralmente la fine del percorso, nello stesso 
				momento l’ultimo rifugio del sogno liberal e l’incubo che è 
				sempre stato implicito in quel sogno. Il liberalismo ha promesso 
				progresso, abbondanza, e soprattutto privacy. La libertà di 
				vivere come ti piace, pensare e praticare la confessione 
				religiosa che più ti aggrada: in questa liberalizzazione del 
				buon vivere sta tutto il fascino del liberalismo. Avendo posto 
				una serie di limiti ben precisi al potere dello Stato, e al 
				tempo stesso avendo sollevato gli individui da gran parte dei 
				propri obblighi civici, i liberal hanno pensato di aver rimosso 
				la maggioranza degli ostacoli al perseguimento della felicità. 
				Ciò che si sono dimenticati strada facendo è che l’ordine 
				pubblico non è una mera funzione dello Stato, che può essere 
				svolta con sicurezza attraverso la responsabilità statale per 
				l’educazione e l’applicazione della legge, mentre i cittadini si 
				curano dei loro affari privati.
 
 Una società capace di funzionare correttamente deve essere in 
				primo luogo in grado di badare a se stessa (self-policing) e, in 
				buona misura, anche di assicurare autonomamente l’educazione ai 
				propri princìpi (self-schooling). Le strade delle città, come ci 
				ricorda Jacobs, mantengono la pace e istruiscono i giovani ai 
				princìpi della vita civica. I quartieri ricreano molte delle 
				caratteristiche della vita di paese celebrata dal folklore 
				americano, anche quando gli americani rifiutano la particolare 
				socialità dei paesi in favore delle “enclave degli stili di 
				vita” (life-style enclaves), come le definisce Robert Bellah, in 
				cui possono stringere legami solo con coloro che condividono i 
				loro gusti e il loro modo di vedere le cose. I quartieri 
				forniscono la substruttura informale dell’ordine sociale, in 
				assenza della quale la gestione della vita quotidiana deve 
				essere delegata a burocrati di professione.
 
 A Los Angeles, una città progettata coscientemente per 
				massimizzare la privacy, noi osserviamo come questa 
				iper-estensione del settore organizzativo sia la necessaria 
				conseguenza della ritirata dai quartieri. Ma Los Angeles è 
				un’eccezione solo per l’assoluta pervicacia con cui persegue una 
				versione profondamente antisociale del sogno americano, e per la 
				crescita smisurata dei problemi sociali che da ciò derivano. Lo 
				stesso modello può essere riscontrato in ogni altra città 
				americana, in cui la polizia, la burocrazia dell’educazione e le 
				burocrazie della sanità e del welfare combattono una battaglia 
				persa in partenza contro il crimine, il disagio e l’ignoranza. 
				La crisi delle finanze pubbliche è l’indicatore più chiaro della 
				debolezza di uno Stato che non può più contare sui meccanismi 
				informali quotidiani della fiducia e del controllo sociali. La 
				rivolta dei contribuenti, sebbene sia in sé caratterizzata da 
				un’ideologia privatistica aliena a qualsiasi tipo di richiamo 
				civico, promana anche dal plausibile sospetto che il denaro 
				delle tasse serva esclusivamente a sostenere l’elefantiasi 
				burocratica.
 
 Lo Stato è ovviamente sovraccaricato, e nessuno coltiva più 
				alcuna fiducia nella sua capacità di risolvere i problemi che 
				andrebbero risolti. Certamente, la disillusione nei confronti 
				del welfare state non implica in sé l’individuazione di un 
				qualche altro tipo di soluzione. Ciò potrebbe significare 
				null’altro che indifferenza, cinismo o rassegnazione. Sebbene 
				quasi ciascuno di noi ritenga che nel nostro Paese molte cose 
				non siano andate per il verso giusto, nessuno ha le idee chiare 
				riguardo a come riparare ai guasti provocati. La qualità sempre 
				più conflittuale e urlata del dibattito pubblico senza dubbio 
				riflette questa mancanza di idee e la frustrazione che ne 
				deriva.
 
 L’agonia del welfare
 
 Quando le istituzioni formali falliscono, la gente dovrà 
				improvvisare degli stratagemmi per soddisfare le loro necessità 
				immediate: pattugliare i propri quartieri, togliere i propri 
				bambini dalle scuole pubbliche per educarli a casa. Così, le 
				inadempienze dello Stato contribuiranno da parte loro al 
				ripristino dei meccanismi informali di autotutela. Ma è 
				difficile vedere come i fondamenti della vita civica possano 
				essere rigenerati senza che questo compito divenga un obiettivo 
				prioritario delle politiche pubbliche. Abbiamo sentito parlare 
				molto della necessità di intervenire sulla nostra infrastruttura 
				materiale, ma anche la nostra infrastruttura culturale, come 
				potremmo chiamarla, ha bisogno di attenzione, un’attenzione che 
				deve andare ben al di là dell’attenzione retorica dei politici 
				che elogiano i “valori della famiglia” mentre sponsorizzano 
				politiche economiche che remano contro questi valori. È sia 
				sciocco che cinico spingere l’opinione pubblica a pensare che 
				smantellare il welfare state sia sufficiente ad assicurare il 
				ritorno della cooperazione informale – “i mille punti di luce”.
 
 E' probabile che persone che hanno perso l’abitudine 
				all’autotutela, che vivono in città e sobborghi in cui i centri 
				commerciali hanno preso il posto dei quartieri, e che 
				preferiscono la compagnia degli amici più stretti (o 
				semplicemente la compagnia della televisione) alla socialità 
				informale della strada, del localino o dell’osteria, non 
				decidano di ricreare le comunità solo perché lo Stato si è 
				dimostrato un loro sostituto insoddisfacente. La gente ha ancora 
				bisogno di aiuto da parte dello Stato, nella fattispecie di 
				politiche disegnate per rafforzare la famiglia e per permettere 
				alle famiglie di esercitare un maggiore controllo sui 
				professionisti quanto devono dipendere da essi o, almeno, dare 
				alla famiglie maggiore libertà nella scelta dei professionisti. 
				Un sistema di buoni-scuola è il genere di riforma che risponde a 
				questa necessità, e lo stesso principio potrebbe anche essere 
				applicato ad altri servizi professionali.
 
 La tradizione populista nella politica americana ci offre un 
				buon esempio di una riforma, il cosiddetto sistema di 
				subtreasury proposto dagli agricoltori negli anni Ottanta e 
				Novanta del XIX secolo, pensato per usare le risorse dello Stato 
				per promuovere l’autotutela collettiva invece di sostituirla con 
				forme professionistiche di aiuto. I populisti nutrivano nei 
				confronti della fattoria a conduzione familiare ben più di 
				un’attenzione retorica. I tempi difficili gli avevano insegnato, 
				ad ogni modo, che le fattorie a conduzione familiare potevano 
				sopravvivere solo se gli agricoltori acquisivano il controllo su 
				acquisti e vendite mediante la cooperazione, e quando le banche 
				rifiutarono di finanziare le cooperative (preferendo spingere le 
				cooperative fuori dal mondo degli affari) gli agricoltori si 
				rivolsero al governo federale. Dal momento che il loro piano di 
				subtreasury, pensato per aumentare il credito federale alle 
				cooperative di agricoltori, richiedeva una considerevole 
				espansione dei poteri statali, insieme ad una corrispondente 
				diminuzione dei poteri delle banche private, i populisti sono 
				sempre stati considerati antesignani del welfare state. Ciò che 
				stavano proponendo, invece, deve essere inquadrato come 
				un’alternativa al welfare state. Gli agricoltori stavano 
				chiedendo allo Stato di proteggere l’integrità delle comunità 
				esposte agli effetti perniciosi del libero mercato. Col senno 
				del poi, possiamo constatare che se lo Stato avesse investito 
				sulle comunità, i sistemi di welfare non sarebbero stati 
				necessari. Sfortunatamente, coloro che controllavano lo Stato 
				assunsero invece la decisione cruciale di investire nel 
				“progresso”, e tutti quanti stiamo pagando il prezzo di questa 
				decisione – anche i benestanti rinchiusi nelle loro enclave 
				fortificate.
 
 L’analisi populista raggiunge il cuore delle patologie 
				contemporanee meglio di altre tradizioni politiche, non solo 
				perché mostra che le risorse dello Stato possono essere 
				impiegate per promuovere soluzioni non burocratiche ma perché 
				rappresenta cose in cui la maggior parte degli americani ancora 
				crede e che sarebbe disposta a difendere. In un’epoca in cui le 
				altre ideologie vengono considerate con apatia, il populismo 
				possiede la capacità di generare entusiasmo reale. Gran parte 
				del successo della “nuova destra” va ascritto alla sua capacità 
				di rivendicare il populismo come parte della propria tradizione. 
				In primo luogo sono gli stessi elettori democratici ad essere 
				attratti dalla “nuova destra”, e potrebbero essere attratti da 
				una forma più vigorosa e genuinamente ugualitaria di populismo, 
				poiché questo offre la critica più penetrante dei lati oscuri 
				della nostra politica. Il populismo sostiene l’importanza della 
				responsabilità individuale sia nei confronti 
				dell’irresponsabilità istituzionalizzata nelle burocrazie, in 
				cui nessuno può essere considerato responsabile per alcunché, 
				sia nei confronti del culto del vittimismo e della politica dei 
				diritti acquisiti e delle azioni positive.
 
 I gruppi che rivendicano la riparazione dei torti subiti, che 
				mostrano le loro ferite, supplicando l’elemosina e scaricando le 
				colpe di tutti i loro problemi su un sistema di oppressione 
				organizzata, sono la controparte naturale dei burocrati che 
				distribuiscono selettivamente la propria munificenza. Queste 
				forze apparentemente rivali, gli attori principali della nostra 
				soap opera politica, dipendono gli uni dagli altri, e la loro 
				relazione simbiotica viene saldata da un’ideologia umanitaria 
				che inorridisce al solo pensiero di “dare la colpa anche alle 
				vittime” per la condizione in cui si trovano. L’ideologia 
				liberal nella sua versione corrente – l’ideologia del 
				multiculturalismo e della “compassione” – soddisfa al tempo 
				stesso le necessità dei gruppi che domandano tutela e degli 
				stessi professionisti della solidarietà. Ciò che sembra 
				radicale, quasi rivoluzionario, porta invece solo alla creazione 
				di nuove burocrazie e allo sviluppo di quelle già esistenti. 
				L’ideologia liberal, inoltre, è una delle cause principali di 
				quel tipo di indignazione morale fatta apposta per assolvere 
				ciascuno da responsabilità e colpe, dal momento che 
				l’ingiustizia può sempre essere ricondotta ad una fonte 
				impersonale – “il razzismo delle istituzioni” o qualche altro 
				fattore sistemico. Al contrario, la tradizione populista è 
				fortemente scettica nei confronti di una politica fondata 
				sull’indignazione morale e sulla rettitudine fai-da-te. Con 
				questo non vogliamo affermare che le classi medio basse 
				tradizionalmente attratte dai movimenti populisti siano esenti 
				dalle tentazioni dell’invidia e del risentimento. Anzi, è più 
				probabile che indulgano a queste forme passionali più di altre 
				classi; ed è proprio per tale ragione che la “disciplina 
				spirituale contro il risentimento”, per citare una frase di 
				Reinhold Niebuhr, è stata una delle caratteristiche principali 
				dei movimenti populisti al loro apice.
 
 Sarebbe stupido negare l’esistenza di altre caratteristiche 
				peculiari dei movimenti populisti – la xenofobia, il nativismo, 
				l’anti-intellettualismo, e tutte le altre brutture così spesso 
				citate dai critici liberal. Ma sarebbe ugualmente stupido negare 
				ciò che è davvero indispensabile per parlare di una tradizione 
				populista – il suo apprezzamento per il valore morale del lavoro 
				onesto, il suo rispetto per la competenza, la sua opposizione di 
				taglio ugualitario al privilegio ereditario, il suo rifiuto di 
				farsi abbindolare dal linguaggio esoterico degli esperti, la sua 
				insistenza sulla semplicità del parlare e sul fatto che le 
				persone dovevano essere considerate responsabili per le proprie 
				azioni. Il populismo non offre una panacea per i mali che 
				affliggono il mondo moderno, e nella sua particolare forma di 
				populismo agrario è senza dubbio fuori dal tempo. Ma qualsiasi 
				movimento che offre una speranza reale per il futuro dovrà 
				trovare gran parte della sua ispirazione morale nel radicalismo 
				plebeo del passato e, più in generale, nella condanna del 
				progresso, della produzione su larga scala, e nella burocrazia 
				che è stata allevata da una lunga catena di moralisti le cui 
				intuizioni hanno preso forma in base alla visione del mondo dei 
				produttivisti.
 
 5 dicembre 2003
 
 (traduzione di Angelo Mellone. Da Ideazione 4-2003, luglio-agosto)
 
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