| Un calzolaio salverà l’America di Angelo Mellone
 
 “Prevedo che il ventunesimo secolo sfaterà la nozione che ha del 
				futuro il ventesimo secolo come di una cosa eccitante, nuova, 
				inaspettata o radiosa: il Progresso, insomma”. Questa frase di 
				Tom Wolfe, newyorkese fine conoscitore dei tic “rococò” delle 
				classi alte dell’East Coast, sarebbe un ottimo epitaffio posto 
				sulla lapide commemorativa delle fatiche intellettuali di 
				Christopher Lasch. Così come, per completare il quadro, nulla di 
				meglio c’è delle espressioni che Arthur Miller, rivisitando 
				l’ibseniano “nemico del popolo”, mette in bocca al suo 
				idealistico attore protagonista quando esclama che “diventare 
				uomini – diremmo noi, cittadini - è un onore che bisogna 
				meritarsi”, così come anche la democrazia è frutto del senso 
				quotidiano dell’onore speso per difenderla. Prese singolarmente 
				queste due citazioni, potremmo vestire tranquillamente 
				Christopher Lasch (1932-1994) con i panni dell’intellettuale 
				financo reazionario, dell’americano innamorato del proprio 
				centro di gravità permanente e impegnato a porre argini contro 
				la “decadenza” della sua civiltà. Un conservatore dalla mascella 
				larga, anche se oberato di preoccupazioni di taglio sociale. Ma 
				forse sbaglieremmo di grosso. Come ha affermato a più riprese 
				nei suoi ultimi anni di vita, Lasch è cresciuto “nella 
				tradizione del progressismo del Middle West”, per cui tentare di 
				attribuire facili patenti di appartenenza all’autore di 
				capisaldi della teoria politica come La cultura del narcisismo, 
				Rifugio in un mondo senza cuore, Il Paradiso in terra o La 
				ribellione delle élite è, fortunatamente, una battaglia persa.
 
 Conservatore o democratico? Intellettuale radicale o esponente 
				involontario della resipiscenza dei sentimenti reazionari dell’ 
				“America profonda”? Cantore delle virtù della democrazia e, 
				soprattutto, delle antiche virtù civiche che hanno fatto 
				l’America dei fondatori o sostenitore di un populismo nemico del 
				moderno sistema dei diritti? Risposta certa non c’è. Come tutte 
				le figure intellettuali intriganti del secolo scorso, anche 
				Lasch non si presta facilmente al passaggio sotto le forche 
				caudine della catalogazione ideologica. Anzi, scorrendo la sua 
				bibilografia, e il denso archivio delle sue opere, centinaia e 
				centinaia di scritti, conservato presso l’Università di 
				Rochester, nello Stato di New York, dove trascorse i suoi anni 
				di insegnamento fino alla morte avvenuta nel 1994, balza subito 
				agli occhi l’immagine di un pensatore che ha sistematicamente 
				evitato di essere assorbito testa e piedi nelle correnti di 
				pensiero che hanno fatto la moda intellettuale, anche in 
				America. Sovversivo, perché mai ha smarrito l’impostazione 
				radicale e l’interrogativo scandaloso nella sua prosa, e 
				aristocratico, con la sua memoria capace di tessere i fili di 
				una storia americana inzuppata nei sentimenti dell’onore e, 
				aggiungerebbe Charles Taylor, dell’autenticità. Un pensatore che 
				affascina perché spiazza. Anche nel nostro Paese, tanto per 
				citare un attimo il dibattito culturale italiano, basta pensare 
				che, se riviste così lontane tra loro nei primi anni Novanta 
				come Micromega o Futuro presente non hanno avuto difficoltà a 
				collocarlo tra i “fuori squadra” della sinistra, solo poco tempo 
				più tardi Stephen Holmes, nella prosa acida della sua Anatomia 
				dell’antiliberalismo, non esiterà, mettendolo in bella mostra in 
				un album di famiglia in cui non si sarebbe certo ritrovato, a 
				tacciarlo di ipocrisie conservatrici mascherate sotto l’ombrello 
				protettivo della gauche, tanto che, come scrive Russell Jacoby, 
				“per molti a sinistra [...] Lasch è divenuto un 
				neo-conservatore, di cui non bisognava parlare se non per 
				condannarlo”. E lui stesso affermerà, poco tempo prima di 
				morire, di desiderare “un movimento che fosse per un verso 
				egualitario e democratico sul piano economico, e per un altro 
				verso conservatore sul piano dei valori”.
 
 Refrattario alle destre e alle sinistre istituzionalizzate, 
				all’impegno partitico e ai cenacoli autoreferenziali delle 
				università, probabilmente si sarebbe infastidito anche per 
				questa discussione sulla sua collocazione tra i soprammobili 
				delle gallerie dei conservatori o dei nemici di sinistra dei 
				liberal. E che questo figlio di un quotato giornalista premio 
				Pulitzer nel 1966, Robert, a sua volta abile polemista su tante 
				riviste americane, in grado di convivere dialetticamente, sempre 
				sull’orlo della rottura, con le infatuazioni progressiste della 
				gioventù e costruire “una delle avventure intellettuali più 
				appassionanti di questi ultimi decenni”, non abbia rappresentato 
				una cometa nel firmamento della storia delle idee, lo dimostra 
				la straordinaria – anche se confusa – attualità delle sue opere, 
				a partire da quelle dedicate al radicalismo americano negli anni 
				Sessanta, tra cui The New Radicalism in America (1965) o The 
				Agony of the American Left (1970), per arrivare a La ribellione 
				delle élite, il lavoro postumo laschiano che rappresenta una 
				delle colonne portanti della riflessione sulla democrazia negli 
				anni Novanta. Con un elemento comune, come ci ricorda Norbert 
				Kanchelkis: “L’approccio di Lasch si distingue [...] per la sua 
				radicalità”. Radicalità a livello della riflessione, ma anche 
				radicalità a livello nell’invocare per la democrazia americana 
				un salto di livello che non sia salto nel vuoto, ma attinga alle 
				inesauribili fonti della memoria storica di un popolo 
				perennemente in bilico tra innovazione e conservazione.
 
 Provare a presentare l’intera opera di Lasch in poche pagine è 
				un’impresa improba, altri lo hanno fatto con alterne fortune. 
				Invece, il tentativo che può essere fatto è quello di cercare di 
				attualizzare e confrontare con l’estrema vorticosità del 
				presente alcune delle sue intuizioni principali. Pur consapevoli 
				che si parla di un autore che, ad ogni modo, in Italia ha 
				ricevuto grande eco e grandi attenzioni, seppur con una certa 
				“selettività”, se non proprio distorsione, delle chiavi di 
				lettura. Il punto da cui partire, e che porterebbe a facili 
				analogie con tante biografie sparse anche nel nostro Paese, è 
				che l’intera produzione di questo autore è segnata dalla 
				delusione nei confronti di due delle principali correnti 
				intellettuali del Novecento, il radicalismo progressista e la 
				psicanalisi, nelle loro varie declinazioni storiche, soprattutto 
				rispetto alla promessa di creare forme più “reali” di democrazia 
				e criteri più profondi di indagine dell’animo umano. Questo 
				disincanto produce effetti di rilievo sulla commistione tra 
				interessi di studio e militanza politica del primo Lasch: lo 
				allontana ben presto dalle infatuazioni gramsciane, e lo spinge 
				a guardare con lucidità l’intima incoerenza dei processi che il 
				Sessantotto americano stava innescando dentro e fuori le 
				università, nel sistema educativo statunitense nel suo 
				complesso, ma non cancellerà mai fino in fondo una venatura 
				idealistica che spinge Lasch a cercare, pur con una certa 
				vaghezza, le strade possibili di uscita per la crisi della 
				persona e della comunità. Così, dall’interesse per il recinto 
				individuale a quello per il popolo, cambieranno gli oggetti, nel 
				corso degli anni, della sua ansia terapeutica. Se Lasch si 
				occupa delle questioni legate alla personalità ne La cultura del 
				narcisismo e L’io minimo, anche in relazione al rapporto tra 
				“individuo democratico” e “individuo narcisistico”, e in Rifugio 
				in un mondo senza cuore prova a fare i conti con il disfacimento 
				di un’istituzione familiare frantumata da Stato e mercato, la 
				democrazia è la filigrana attraverso cui leggere le sue opere 
				più recenti, nel loro complesso un grande atto d’accusa nei 
				confronti delle classi dirigenti americane contemporanee, 
				ritenute responsabili del tradimento degli ideali dei padri 
				fondatori e dello scadimento della società americana a bazar 
				multiculturale privo di veri spazi pubblici e di idee pubbliche, 
				scintille capaci di attizzare la politicità della passione 
				civica e rinfocolare lo spirito comunitario.
 
 E’ la democrazia in crisi a salire sul banco degli imputati, 
				insieme a chi è responsabile del suo governo. E l’interrogativo 
				è pregno di radicalità. Lasch non nasconde che “la democrazia 
				non è un fine in sé. Essa va giudicata in base ai suoi successi, 
				alla sua capacità di produrre beni superiori, opere d’arte e di 
				cultura superiori, un tipo superiore di carattere”. Scendiamo 
				nel campo della strumentalità di una forma di regolazione dei 
				rapporti politici che in partenza, se non viene farcita di 
				altro, non è né più né meno desiderabile di altri regimi 
				politici, ma va giudicata alla prova dei fatti. Qui scatta la 
				molla del disincanto e si palesa l’irriverenza dell’analisi. 
				Lasch si spinge a chiedersi, certo di suscitare non poco 
				scandalo, se “la democrazia merita di sopravvivere?” Un simile 
				interrogativo, proprio nei mesi in cui si discute addirittura 
				della possibilità di esportarla manu militari, almeno nella 
				versione liberale di un sistema di regole, dividendo il campo 
				delle opinioni tra “imperialisti culturali” e “relativisti”, può 
				sembrare fuori tempo massimo, ma invece fa esplodere un ordigno 
				in grado di sciogliere i grumi che hanno intorpidito capacità 
				degli occidentali di pensare al bene comune e alla “migliore” 
				forma di governo non come un qualcosa di popperianamente 
				acquisito nella veste ambigua del “migliore dei mondi 
				possibili”, ma come un traguardo da tagliare con fatica giorno 
				dopo giorno, senza mai la sicurezza di essere arrivati alla 
				meta.
 
 A cosa serve la democrazia, dunque? Ancora: serve? Lasch non fa 
				mistero di iscriversi al partito fantasma dei custodi della 
				tradizione “repubblicana”, che nulla o poco hanno a che fare con 
				l’elefante del Grand Old Party e che invece possiedono un 
				nutrito album di famiglia che lo stesso autore non esita a 
				descrivere nelle sue lunghe catene ereditarie, definendo 
				“un’esile linea di continuità intellettuale” che parte dalla 
				polis greca, passa per Roma, riappare nel Rinascimento per 
				arrivare a James Harrington in Inghilterra, Montesquieu e 
				Rosseau in Francia, fino a sbarcare oltreoceano con i padri 
				fondatori della Repubblica americana. E residui di 
				repubblicanesimo, seppure sottoposti a decisi processi di 
				revisione, continuano a sopravvivere anche oggi.
 
 Quanta parte le idee repubblicane di “onore” e di virtù civica 
				abbiano spazio nell’analisi di Lasch lo dimostra la sua 
				concezione della cittadinanza. Sulla scia di due dei pensatori 
				più interessanti della seconda metà del Novecento, l’Hannah 
				Arendt di Vita activa e l’Alasdair MacIntyre di Dopo la virtù, 
				si sostiene che è la condizione di cittadino a creare 
				l’uguaglianza (politica), non il contrario, che l’uguaglianza 
				politica assimila individui altrimenti profondamente diversi e 
				li addestra alle virtù civiche, alla capacità di assumere 
				decisioni e accettarne la responsabilità, di agire nello spazio 
				pubblico e condividere le responsabilità politiche ed economiche 
				della comunità, cercare l’affermazione di sé anche spingendosi 
				sino ai confini mobili del sacrificio. Così non sorprende 
				l’affermazione per cui “la diffusione universale della 
				condizione di cittadino implica davvero un mondo di eroi. È la 
				democrazia che ha bisogno di un mondo del genere, se la 
				cittadinanza non deve ridursi a mera formalità”.
 
 Il middle man americano: mercato e foro 
				pubblico
 
 Come si vede, ci troviamo di fronte ad un’idea di cittadinanza 
				impostata su ambiziose coordinate assiologiche, distante in 
				termini etici e antropologici tanto dalla concezione della 
				democrazia procedurale come sistema di regole per controllare 
				gli eccessi di potere dei governanti e per costruire una gabbia 
				protettiva per le minoranze politiche, quanto dalla retorica 
				liberal della “cittadinanza democratica”, ipostatizzata nello 
				Stato sociale del Novecento, come insieme di diritti che 
				rappresentano altrettante rivendicazioni e allontanano 
				progressivamente l’uomo dalla percezione della propria 
				responsabilità sociale di persona. Il cittadino di Lasch, in 
				questo davvero figlio dell’originarietà e originalità americana, 
				è oplita e uomo di lettere, nobile perché cosciente dei doveri 
				nei confronti del proprio popolo, radicato nelle comunità 
				contadine o nella vita di quartiere, responsabile nei confronti 
				della famiglia e del vicinato, “colato” in un contesto da cui 
				trae le armi e le fonti della propria legittimazione in quanto 
				cittadino, eroe, protagonista del proprio tempo, soggetto e non 
				oggetto dei processi sociali. Nei capitoli più politici delle 
				opere di Lasch emerge, a poco a poco, la figura di un cittadino 
				che sa stare nel mercato, la piazza degli scambi, ma soprattutto 
				nel foro pubblico, che forte del suo carico di virtù vissute 
				virilmente sa bene che “una vita dedita solo alla ricerca della 
				ricchezza e del benessere privato viene condannata non in quanto 
				egoistica, ma perché non fornisce all’ambizione un campo 
				sufficiente in cui eccellere”.
 
 Sono frasi come queste che allontanano Lasch da un’altra 
				tradizione che in questi anni si è fatta strada negli Stati 
				Uniti, quel filone communitarian che, ponendo la centralità del 
				dato comunitario in modo ambiguo, critica il mercato ma si 
				risolve in una deriva socialdemocratica che scarica sul 
				collettivo il carico di responsabilità che, invece, il cittadino 
				virtuoso dovrebbe portare sulle proprie spalle; il comunitarismo 
				così inteso, poco dista dal principale bersaglio polemico di 
				Lasch, la sinistra liberal e il suo statalismo che ha inaridito 
				i pilastri naturali della convivenza sociale, in primo luogo la 
				famiglia, per sostituirli con la vuota competenza delle 
				tecnostrutture. E’in questi “tecnici”, figli della contemporanea 
				espansione indefinita del mercato come motore mobile di tutte le 
				cose e dello Stato come paracadute burocratico per 
				l’avvizzimento delle solidarietà spontanee, di un cosmopolitismo 
				nemico delle radici e del potere sproporzionato in mano ai mezzi 
				di informazione, che Lasch, in questo ricongiungendosi solo in 
				parte con la teoria critica della società, ritrova i 
				protagonisti della Nuova Classe: giornalisti, grandi avvocati, 
				finanzieri di Wall street, critici, artisti, intellettuali dei 
				campus, femministe, militanti salottieri dei diritti civili, 
				progressisti di ogni razza, colore e credo politico, a proprio 
				agio in qualsiasi angolo del globo purché in possesso dei propri 
				strumenti di ben-essere e ben-avere; élite capovolte, le 
				potremmo definire, che per trovare la via esotica dello 
				sradicamento hanno perso prima di ogni altra cosa qualsiasi 
				percezione del dovere nei confronti delle proprie comunità. 
				Cittadini dimezzati.
 
 Queste suggestioni a metà strada tra Sparta e Atene che 
				provengono dalle pagine di Lasch, hanno significativamente 
				trovato eco in Italia nel richiamo alla “democrazia eroica” di 
				uno Stefano Zecchi, filosofo impegnato a ridonare un senso 
				estetico ad una democrazia ormai svuotata della propria 
				dimensione verticale. L’unica verticalità possibile oggi si 
				riduce difatti, per Lasch, a un ascensore artificiale costruito 
				per garantire l’intercomunicabilità tra le classi sociali, a cui 
				diamo il nome di “mobilità”. Su e giù tra i sobborghi, dove 
				vivono in loculi incomunicanti vecchie e nuove povertà, 
				analfabetismo sociale e borghesia proletarizzata, e i centri 
				dell’industria culturale e del potere politico. Non per 
				seppellire le classi o per riattivare dispersi spiriti 
				comunitari, ma semplicemente per garantire che vengano nutriti i 
				quattro totem delle credenze democratiche contemporanee: il 
				progressismo (la filosofia di fondo), la mobilità sociale (il 
				meccanismo), la meritocrazia (l’alibi), e la Nuova Classe (il 
				prodotto autoreferenziale). Lasch su questo punto è chiaro: “La 
				meritocrazia è una parodia della democrazia” poiché, grazie al 
				marchingegno della mobilità sociale, rafforza e stabilizza 
				l’autorità di élite sradicate e irresponsabili e drena “i 
				talenti delle classi inferiori, privandole di una leadership 
				capace”; infatti “un alto livello di mobilità non è affatto 
				contraddittorio con un sistema di stratificazione che concentri 
				potere e privilegi in un’élite dominante. Anzi, la circolazione 
				delle élite rafforza il principio gerarchico” e conferma l’idea 
				di Laurence Goodwyn per cui “la politica moderna ha luogo nella 
				tensione tra l’idea democratica e una realtà di tipo élitario”.
 
 Quindi, così come non va fatta “confusione della democrazia con 
				la libera circolazione dei beni di consumo”, non bisogna farsi 
				irretire dalle magnifiche sorti e progressive della mobilità 
				sociale, che mantiene in vita quel sistema di sperequazioni che 
				svilisce la cittadinanza, agisce contro l’uguaglianza e le 
				possibilità di riscatto economico delle masse, e perpetua le 
				differenze di classe, politiche, ma anche di razza, come 
				denuncia Lasch riguardo al caso storico delle battaglie sul 
				busing. Il dilemma investe “qual è la scelta più importante che 
				una società democratica deve compiere: se cercare di innalzare 
				il livello generale di competenza, di energia e di impegno – di 
				“virtù”, nel linguaggio della tradizione politica più antica – o 
				limitarsi a promuovere un più ampio reclutamento delle élite”.
 
 I frutti migliori della “Rivoluzione 
				americana”
 
 Nel momento in cui Lasch invoca una società senza classi ad alta 
				percentuale di impegno civico, in cui i soggetti più agiati 
				siano al servizio della comunità e non viceversa, in cui la 
				cultura sia fenomeno diffuso; nel momento in cui disegna i 
				tratti di un sistema sociale in cui il mercato sia delimitato da 
				precisi confini e popolato di piccoli proprietari e lo Stato non 
				entri dentro le case, chiede, senza dirlo chiaramente, il 
				ritorno della politica nella sua dimensione locale e vitale, 
				come “somma delle azioni pubbliche degli uomini liberi”, la 
				netta distinzione tra spazio pubblico e ipertrofia delle 
				competenze dello Stato, la riscoperta dei frutti più saporiti 
				della Rivoluzione americana, il repubblicanesimo e l’etica della 
				proprietà diffusa. Perché il mercato lasciato a se stesso 
				produce sradicamento e omologazione, accumulazioni di fortune ed 
				economie finanziarizzate, il welfare state difeso dai liberal 
				comporta la crescita del germe del paternalismo e altrettanta 
				tensione all’indifferenziazione sociale, con un’azione a 
				tenaglia che, scrive acutamente Lasch, stabilizza il dominio 
				della Nuova Classe e moltiplica all’infinito i problemi di 
				insostenibilità, in primo luogo in termini di sicurezza: “I 
				nuovi metodi di controllo sociale uniti all’ascesa del movimento 
				progressista hanno stabilizzato il capitalismo senza risolvere 
				neppure uno dei suoi problemi fondamentali [...] Il nuovo 
				paternalismo ha impedito che le tensioni sociali assumessero una 
				connotazione politica, ma non ne ha rimosso le cause [...] I 
				costi di gestione del sistema, per giunta, sono diventati più 
				alti”. E, qui, appare superfluo citare le statistiche 
				sull’innalzamento dei costi per mantenere in vita apparati di 
				controllo e repressione dei fenomeni di criminalità e devianza 
				sociale, o descrivere, come il Mike Davis di Città di quarzo, i 
				processi di “fortificazione” dei quartieri benestanti.
 
 E le masse, con la loro presunta emancipazione? La massa – 
				incontriamo di nuovo la teoria critica della società, le 
				reminiscenze di Ortega y Gasset, ma anche le suggestioni di un 
				certo pensiero “di destra” – viene osservata da Lasch con un 
				misto di rabbia e diffidenza. Le processioni del sabato 
				pomeriggio negli shopping malls, l’ignoranza diffusa nelle 
				scuole pubbliche, il disprezzo verso il passato sono i sintomi 
				di una pericolosa omologazione, e di una caduta verso il basso 
				della maggioranza che scava fossati ancora più ampi tra la base 
				e il vertice della struttura sociale. Per questa ragione Lasch 
				prende di petto sociologi come Herbert Gans o pensatori come il 
				Walter Benjamin de L’opera d’arte nell’epoca della 
				riproducibilità tecnica, che ritengono la cosiddetta “cultura di 
				massa” l’architrave dell’affrancamento delle classi inferiori, 
				quando invece si tramuta in un semplice nuovo “strumento di 
				controllo sociale”, accanto alla sempre maggiore pervasività dei 
				mezzi di comunicazione (appunto) di massa.
 
 E’ certamente un’idea diversa di popolo – ma anche di nazione – 
				che Lasch ha in mente quando descrive il suo modello di 
				cittadinanza e di sistema economico a proprietà diffusa, un’idea 
				che frantuma la massa in individui autocoscienti e rifiuta le 
				sue forme di espressione culturale perché triviali ed 
				omologanti. Il senso dell’ormai celeberrima difesa del 
				populismo, nella sua irripetibile variante americana, agraria, 
				dei piccoli centri cittadini e “delle praterie”, il populismo 
				“ultimo baluardo dei produttori” – come scrive ne Il paradiso in 
				terra – sta tutta qui: immaginare una democrazia fondata su 
				cittadini consapevoli e autosufficienti, che non dipendono né 
				dalle tecnoburocrazie statali né dalle bizze cieche dei 
				meccanismi concorrenziali per essere uomini virtuosi, 
				responsabili padri di famiglia e buoni cives: “I populisti 
				ereditavano da tutta la tradizione politica precedente, liberale 
				e repubblicana, il principio per cui il diritto di proprietà, e 
				l’indipendenza personale che esso assicura, sono due 
				precondizioni assolutamente essenziali dell’esercizio delle 
				funzioni e dei doveri del cittadino”.
 
 La storia del populismo americano, degli agricoltori, degli 
				uomini di bottega, dei piccoli commercianti, del volto buono dei 
				self made man a cui Lasch si rifà, così distante da quella dei 
				populismi europei eppure soggetta anch’essa a gravi distorsioni 
				interpretative da parte di storici e politologi – da Richard 
				Hofstadter al libro Populism curato da Ghita Ionesco ed Ernst 
				Gellner –, è la storia di un movimento non tanto intellettuale 
				quanto sociale e politico, che rappresenta, nel corso di tutta 
				la storia americana, la rivolta al tempo stesso contro i guasti 
				e le interferenze del Big Government e contro gli eccessi 
				dell’economia di mercato, lo spirito della frontiera e la difesa 
				del radicamento locale, urbano, territoriale. Un movimento 
				trasversale di cittadini e produttori in grado di interpretare 
				il volto localistico e patriottico dell’America, senza scivolare 
				in alcuna tentazione imperialistica, animato soprattutto dalla 
				strenua convinzione che la formula vincente della storia 
				americana era data dal binomio diffusione della 
				proprietà-diffusione delle forme di democrazia diretta. 
				Esattamente quello che oggi manca negli Stati Uniti. E’ su 
				queste basi che si può leggere l’attualità e la bellicosità del 
				pensiero di Lasch, intrecciandolo con ciò che accade negli Stati 
				Uniti ma anche nel continente europeo.
 
 Lasch traccia le coordinate di quella che, anche se l’autore non 
				ha mai ambito a definirla così, ha tutti i caratteri di una 
				“terza via” tra le due grandi formule vincenti del Novecento, il 
				liberismo fondato sulla sovranità impolitica del mercato e lo 
				statalismo di derivazione socialdemocratica; nel contesto 
				americano, anche dell’aspirazione, o della speranza, di aprire 
				il terreno alla nascita di un terzo partito incuneato tra 
				Democratici e Repubblicani, visto che questi liberal e questi 
				conservatori non rappresentano tutta la complessità sociale e 
				politica, e nessuno ha intenzione di mettere in questione i miti 
				fondanti delle società contemporanee. Le posizioni di Lasch, da 
				questo punto di vista, sono davvero eterodosse: la sua critica 
				degli eccessi del mercatismo e dello statalismo lo possono 
				avvicinare tanto agli ambienti “non utilitaristi” vicini al 
				francese Mauss (Movimento antiutilitarista nelle scienze 
				sociali) dei vari Serge Latouche ed Alain Caillé, quanto ai 
				richiami verso la sussidiarietà di quel vasto arcipelago 
				cattolico (vicino, ma non solo, a Comunione e liberazione) che 
				chiede non “più mercato, meno Stato” ma “più società, meno 
				Stato”, o – in Italia – a quel filone “sociale” e partecipativo 
				del postfascismo che cerca di superare i rigurgiti statocentrici 
				con iniezioni di suddidiarietà e di partecipazione popolare, o 
				ancora al grande mondo del volontariato, della cooperazione e 
				dell’auto-organizzazione sociale. Ma ancora tante intuizioni del 
				suo “fervore morale” (Jacoby) sono materiale di discussione per 
				il presente.
 
 Contro le degenerazioni dell’universalismo Lasch sostiene 
				candidamente che “non si può pretendere che gli uomini nutrano 
				lealtà, dedizione e solidarietà nei confronti dell’intera razza 
				umana”; i cerchi concentrici delle nostre appartenenze, non la 
				mera identità ma la pura autenticità, sono quelli che muovono i 
				nostri sentimenti di fedeltà. Ogni morale astratta corre il 
				rischio di produrre guasti a ripetizione, e così è accaduto 
				negli Stati Uniti, con l’opinione pubblica ossessionata dai 
				richiami del “politicamente corretto” e delle “azioni 
				affermative”, imperativi categorici che hanno creato nuove 
				disuguaglianze e nuove forme di discriminazione. Lasch, che si è 
				sempre considerato un nemico feroce di queste pratiche, avrebbe 
				forse sottoscritto la requisitoria contro i guasti del 
				multiculturalismo male inteso che costituisce la scena più 
				memorabile del bellissimo film di Spike Lee La venticinquesima 
				ora, o avrebbe probabilmente guardato con piacere l’iniziativa 
				dei giovani “Hipublicans” di usare l’effigie di Martin Luther 
				King, sulla copertina del periodico Counterweight, come icona 
				della battaglia per abolire le quote a tutela delle minoranze 
				nelle università. Del resto, è proprio King il riferimento 
				costante a cui Lasch ricorre nei suoi scritti per descrivere la 
				parabola discendente del movimento per i diritti civili, passato 
				dalla rivendicazione di maggiori spazi di responsabilità sociale 
				per le minoranze al battere cassa verso il welfare state alla 
				ricerca di sussidi e redditi garantiti. Lasch, ancora, sarebbe 
				stato tra coloro che, come mostrano i sondaggi, considera la 
				maggior parte dei poveri “pigri” e, dunque, causa del proprio 
				male, ma al tempo stesso non avremmo dubbi sul trovarlo 
				schierato accanto a William Gates, padre del più famoso e ricco 
				Bill, nel difendere l’Estate Tax, la tassa sulle eredità 
				miliardarie perorata da alcuni sostenitori delle teorie della 
				Supply Side Economics. Sarebbe poi curioso sapere cosa Lasch 
				avrebbe scritto sulla seconda guerra del Golfo, dopo che la 
				prima, come risulta dallo scritto che pubblichiamo in questo 
				“speciale”, non aveva riscosso in lui grandi simpatie; sarebbe 
				stato anche curioso sapere cosa Lasch avrebbe pensato di un 
				presidente degli Usa così religioso da aprire le riunioni del 
				Consiglio di sicurezza Bibbia alla mano, di un Congresso in 
				grado di votare la mozione per un giorno di preghiera, mentre la 
				sua amata middle class si sgretola sotto i colpi di un 
				multiculturalismo che consegna la California in mano alle ex 
				“minoranze oppresse”.
 
 I motivi per tenere ben presente Lasch, ed evitare che le sue 
				opere si impolverino dimenticate sugli scaffali, ci sono tutti, 
				sia per i suoi ammiratori che per i nemici. L’importante è 
				provare a non interpretarlo a pezzi, ma nel complesso di un 
				autore che porta su di sé le ferite del Novecento. Un middle man 
				americano, cresciuto all’ombra delle teorie neo-marxiste e 
				liberal statunitensi, che ha visto in faccia i guasti e le 
				distorsioni prodotte dalle accelerazioni del progresso dal 
				predominio acefalo della tecnica. Ha scelto, però, di non 
				rinchiudersi nei recinti “privati”, forieri di paure e di 
				aggressività, che danno linfa a tanto pensiero politico 
				contemporaneo, ma ha sfidato sia il progressismo che il 
				conservatorismo su un terreno ostico, quello dei princìpi – la 
				democrazia, il concetto di cittadinanza che la sorregge, il 
				progresso – che troppo spesso vengono dati per acquisiti quando 
				invece andrebbero rinnovati, ravvivati, ridiscussi per evitare 
				la loro cancrena. Lasch, con tutti gli affascinanti limiti, 
				strappi e salti logici che può avere la sua impostazione (quella 
				di uno storico delle idee e non di un ingegnere sociale ammalato 
				di illuminismo), ha trovato prima nelle cellule “naturali” della 
				società e poi nel suo populismo la variabile chiave per fornire 
				risposte di senso ad una crisi della contemporaneità che, prima 
				di essere crisi di istituzioni, è crisi dei propri miti 
				fondanti. Ma, se aveva ragione Hannah Arendt a sostenere che la 
				politica è come una forza sotterranea che ogni tanto esplode e 
				arriva in superficie, allo stesso modo la Repubblica fondata sul 
				baudelairiano eroismo quotidiano ri-sognata da Lasch segna 
				sempre un orizzonte possibile. Anche in epoca globale, ad opera, 
				chissà, di un... calzolaio di Omaha.
 
 5 dicembre 2003
 
 (da Ideazione 4-2003, luglio-agosto)
 
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