| L’eredità di Christopher Lasch di Paul Piccone
 
 Fino alla sua morte prematura nel 1994, Christopher Lasch è 
				stato uno dei più acuti critici della società americana. I suoi 
				lavori principali, “Rifugio in un mondo senza cuore”, “La 
				cultura del narcisismo”, “L’io minimo”, “Il paradiso in terra”, 
				“La ribellione delle élite”, sono ancora molto letti, e le sue 
				idee – a partire dalla critica delle politiche liberal e della 
				continua crescita delle burocrazie governative, che minacciano 
				l’autonomia dei nuclei familiari – si sono dimostrate molto 
				influenti. Le idee laschiane si rivolgono all’interazione tra la 
				cultura di massa, la crescita dei consumi e il declino 
				dell’autorità morale – che si traduce in patologie della persona 
				– oltre che alla demistificazione del concetto di progresso, 
				nella sua veste di pietra angolare del liberalismo moderno. Le 
				sue analisi attingono a numerose discipline ritenute strumenti 
				necessari per comprendere il cammino della storia, dalla teoria 
				politica alla filosofia alla psicanalisi. L’oggetto centrale e 
				costante delle sue critiche sono state le politiche e le 
				istituzioni che minacciavano l’autonomia individuale e la 
				capacità di partecipazione attiva al processo democratico. Lasch 
				ha visto queste precondizioni di una società libera 
				sistematicamente messe in pericolo dai mass media, dalla 
				professionalizzazione della politica, e dalle politiche federali 
				che erodevano le prerogative politiche delle comunità locali. 
				Egli riteneva che i politici professionisti e le loro burocrazie 
				partitiche, insieme alle élite imprenditoriali e finanziarie, 
				avessero smarrito ogni legame con i valori reali condivisi dal 
				comune cittadino americano.
 
 Lasch mette in luce l’importanza della famiglia americana come 
				locus dell’autorità morale all’interno della comunità e delle 
				sue istituzioni. Egli considera le chiese e le organizzazioni 
				civiche – compresi i ristoranti popolari e le taverne – 
				altrettanti luoghi in cui i valori comunitari sono articolati e 
				il dibattito pubblico viene nutrito, nella misura in cui non 
				vengono inquinati da un welfare state in continua espansione e 
				terribilmente invasivo. Alla base di tutte queste preoccupazioni 
				sta, come spiega nella prima frase del suo più recente libro, la 
				domanda se la democrazia abbia un futuro. Il suo punto di vista 
				riguardo al tipo di condizioni socio-economiche che permettono 
				alla democrazia di funzionare è dichiarato esplicitamente 
				qualche pagina dopo: “La democrazia funziona soprattutto quando 
				gli uomini e le donne agiscono per se stessi, con la 
				collaborazione degli amici e dei vicini, invece di dipendere 
				dallo Stato”. Questa preoccupazione è ciò che sta dietro 
				l’interesse di Lasch per il populismo, il comunitarismo e il 
				federalismo.
 
 Oggi, si fa un gran parlare di ridimensionare il governo – 
				un’ammissione generale che lo Stato non solo si è trasformato in 
				una burocrazia estesa e ingovernabile che indebolisce le risorse 
				del Paese, ma che il suo tentativo di intervenire in ogni genere 
				di problema sociale e volerlo gestire per mezzo del suo apparato 
				di welfare si è rivelato un fallimento spettacolare. Il modello 
				originario del federalismo americano, che è stato 
				sistematicamente disatteso a partire dalla fine della Guerra 
				civile circa un secolo e mezzo fa, era antitetico al moderno 
				Stato-nazione e alla sua imposizione di ipotetici valori 
				superiori attraverso un governo centrale intrusivo e gravido di 
				potere, dei concetti astratti di individualismo, e un insieme di 
				diritti civili o umani che legittimavano ovunque l’intervento 
				statale con lo scopo di irrobustirlo. Storicamente, il 
				federalismo ha enfatizzato, piuttosto che il potere centrale, 
				l’autonomia locale e la governance democratica in quanto 
				detentori di una posizione superiore per esercitare il potere, 
				sia in chiave legale che politica. Lasch ha suggerito la 
				riconsiderazione di un populismo ingiustamente screditato come 
				alternativa politicamente vitale, in grado di sostenere e 
				probabilmente rivitalizzare quell’idea di democrazia che 
				presupponeva l’originario modello federalista americano.
 
 La via populista al comunitarismo
 
 Sia il populismo che il comunitarismo rifiutano il primato dei 
				valori del mercato, per cui qualsiasi cosa viene giudicata dalla 
				prospettiva dell’utile, e del welfare state, che trasforma 
				cittadini autonomi in individui dipendenti non più in grado e 
				disposti ad agire come attori responsabili. In questo senso, il 
				populismo e il comunitarismo non sono allineati né con la 
				sinistra né con la destra, e ancora meno con il Partito 
				Repubblicano o i Democratici per come oggi si presentano. Come 
				afferma Lasch, rappresentano una “terza via”. Questo perché “Il 
				populismo […] accetta senza riserve il concetto di rispetto. […] 
				Il populismo ha sempre respinto la politica della deferenza e la 
				politica della pietà. E’ a favore di un modo di agire sincero e 
				di un modo franco di parlare. Non si lascia impressionare dai 
				titoli e dagli altri simboli di Stato sociale superiore, ma non 
				si lascia impressionare nemmeno dalle pretese di superiorità 
				morale avanzate a nome degli oppressi. Rifiuta un’ “opzione 
				preferenziale” a favore dei poveri, se essa significa trattare i 
				poveri come vittime senza speranza delle circostanze, esimendoli 
				dalle loro responsabilità o assolvendo le loro trascuratezze 
				come se la povertà comportasse una presunzione d’innocenza. Il 
				populismo è la voce autentica della democrazia. Si basa sul 
				principio che gli individui hanno diritto al rispetto finché non 
				si dimostrano indegni di averne, ma esige che tutti si assumano 
				le loro responsabilità. E’ riluttante a fare concessioni o a 
				sospendere il giudizio in considerazione del fatto che “la colpa 
				è della società”. Il populismo è giudiziale”.
 
 Come può una riconsiderazione del populismo farci fuoriuscire 
				dalla situazione presente di impasse, in cui tutte le decisioni 
				vengono prese da un’élite irresponsabile munita di un esile 
				mandato elettorale, in collaborazione con una burocrazia giammai 
				eletta? Quale tipo di istituzioni è necessario per sostenere una 
				società fiorente, con una sfera pubblica rivitalizzata e 
				democratizzata? Queste sono le domande a cui Lasch ha cercato di 
				dare una risposta lungo il corso di tutta la sua vita. Ciò che 
				ha reso il suo lavoro così interessante è che, a differenza 
				della maggior parte degli intellettuali, è stato in grado di 
				operare a due livelli, che di solito non riescono a convivere 
				bene, specialmente nei contesti accademici. Egli è rimasto 
				sempre legato alle questioni politiche concrete, e al tempo 
				stesso – quando era necessario – non ha avuto timore di 
				rivolgersi a questioni ad un livello molto alto di astrazione. 
				In un primo periodo, Lasch ha passato molto tempo cercando di 
				impiegare i concetti psicanalitici come strumenti di analisi. 
				Egli sperava che la psicanalisi potesse spiegare alcuni degli 
				sviluppi recenti degli Stati Uniti. Dopo aver speso una grande 
				quantità di tempo costruendosi un proprio punto di vista in 
				mezzo alla grande mole di letteratura su questa materia, ad ogni 
				modo, è arrivato alla conclusione di essersi cacciato in un 
				vicolo cieco. Poi, per un certo tempo, si è dedicato allo studio 
				delle opere della Scuola di Francoforte – non tanto ciò che era 
				stato pubblicato dopo la guerra, che risultava ancora troppo 
				intriso delle obsolete categorie marxiste e in gran parte non 
				era disponibile in inglese, quanto ciò che alcuni dei suoi 
				membri, in primo luogo Theodor W. Adorno, avevano scritto negli 
				anni Quaranta, prima che molti di loro tornassero in Germania e 
				mentre erano impegnati in discutibili progetti di taglio 
				psicologico come lo studio della “personalità autoritaria” (i 
				cui risultati furono pubblicati in un pretenzioso, e voluminoso, 
				tomo con questo titolo, e che Lasch ha demolito in maniera 
				sistematica ne Il paradiso in terra, anche se questo studio non 
				rispecchia certamente la complessità del pensiero della Scuola 
				di Francoforte).
 
 Ad ogni modo, anche in questi anni Lasch non aveva mai avuto 
				timore di frugare in ogni direzione alla ricerca di nuovi 
				possibili approcci per la ricerca storica. Quando, verso la fine 
				degli anni Sessanta, prima che si disintegrasse definitivamente, 
				la New Left stava disperatamente cercando un teorico 
				“rispettabile” all’interno della tradizione marxista ortodossa 
				per collocarsi in ciò che riteneva la sinistra storica – o 
				perlomeno una sinistra che aveva in un certo qual senso avuto 
				successo in Russia – e cercava di riciclare Antonio Gramsci (a 
				quel tempo praticamente sconosciuto nel mondo anglosassone), 
				Lasch fu uno dei primi ad organizzare un simposio sul pensiero 
				gramsciano e la sua rilevanza per il contesto sociale americano 
				(probabilmente nel tentativo di scoprire un Gramsci radicalmente 
				diverso dalla più ortodossa versione stereotipata che era stata 
				introdotta dal collega di Lasch dell’epoca, Eugene Genovese).
 
 In un’epoca in cui la maggior parte degli storici americani 
				ancora pensavano che Gramsci fosse probabilmente un’altra marca 
				importata di pasta, questo tentativo non portò da nessuna parte, 
				dopo aver concluso che, a partire dal 1935, con il suo famoso 
				saggio su Americanismo e fordismo, Gramsci aveva effettivamente 
				abbandonato qualsiasi illusione sulla possibilità di una 
				rivoluzione in Occidente – un qualcosa che molti epigoni 
				marxisti, specialmente in Inghilterra quelli legati alle riviste 
				New Left Review, Capital and Class e Economy and Society devono 
				ancora comprendere mezzo secolo dopo. Come risultato della sua 
				costante enfasi sulla concretezza, Lasch non è mai rimasto 
				invischiato in alcuna particolare ideologia o prospettiva 
				teorica, mentre ha sempre attentamente valutato il loro valore 
				euristico. Ciò gli ha permesso di affrontare i problemi concreti 
				da un certo numero di prospettive relativamente sofisticate, 
				senza mai perdere di vista le limitazioni di ciascuna teoria o 
				ideologia di fronte ad una realtà sociale recalcitrante. 
				Certamente, egli ha fatto proprie molte delle critiche 
				usualmente rivolte al liberalismo, al progresso e a molte altre 
				idee sviluppate in un gran numero di discipline.
 
 Alcune di queste critiche lo hanno spinto in nuove interessanti 
				direzioni. Così, prendendo sul serio la critica del progresso, 
				ha riscoperto la tradizione populista americana. La maggior 
				parte degli accademici, in special modo quelli con inclinazioni 
				di sinistra, leggono, ad esempio, Walter Benjamin, le sue ben 
				note tesi sulla storia e la riproduzione meccanica, e ancora 
				continuano a fantasticare sul “progresso” e sulle politiche 
				“progressiste” in quanto automaticamente superiori a tutte le 
				altre. Lasch ha sempre considerato questo discorso come parte di 
				un’ideologia illuministica da lungo tempo screditata: 
				un’insostenibile visione da cristianesimo secolarizzato non più 
				ancorata in alcuna rivelazione trascendentale, e così incapace 
				di avere un qualsiasi impatto normativo; trae le sue origini da 
				Adamo ed Eva ma, anziché finire in paradiso, come sostiene 
				Adorno, finisce nei recinti dei Gulag, di Hiroshima o Auschwitz. 
				Di conseguenza, Lasch non ha esitato a identificare il mito del 
				progresso come uno dei principali puntelli per la Nuova classe 
				di professionisti, esperti, politici o, nelle parole di Robert 
				Reich, “analisti simbolici”, il cui status socio-economico 
				privilegiato viene giustificato dal loro supposto ruolo nella 
				razionalizzazione della società e nella garanzia di costanti 
				miglioramenti sociali.
 
 A differenza dei marxisti e di altri “progressisti”, che sono 
				sempre pronti ad abbandonare tutti i fallimenti nelle politiche 
				e nei progetti di ricostruzione sociale nella proverbiale 
				“pattumiera della storia”, il congedo di Lasch dal progresso 
				come ideologia dell’Illuminismo lo ha spinto a valorizzare come 
				miniera in cui riscoprire un intero patrimonio storico ciò che i 
				marxisti consideravano un deposito di vecchiume storico. Ben 
				lungi dal considerare i progetti storici falliti alla stregua di 
				una paccottiglia buona solo per la ricerca archeologica, Lasch 
				li considerava alternative possibili al modello predominante di 
				organizzazione socio-politica. Nei trent’anni precedenti, prima 
				che Lasch, Lawrence Goodwyn e pochi altri storici 
				non-conformisti cominciassero a studiarlo, il populismo veniva 
				di solito ridotto dai principali scienziati sociali e 
				intellettuali americani in generale, ad un movimento 
				proto-fascista – una sorta di vicolo cieco della fine del XVIII 
				secolo che divenne razzista, xenofobo e di destra, prima di 
				scomparire dal quadro politico. Con buona probabilità, le 
				migliori caratteristiche del populismo sono state assorbite dal 
				progressivismo di inizio secolo, che ha prefigurato il 
				successivo Welfare State e il New Deal.
 
 Questo è il genere di resoconto che troviamo in Seymour Martin 
				Lipset e nel resto degli ideologi della “fine delle ideologie” – 
				incluso il maestro di Lasch, Richard Hofstedter, nei cui 
				confronti Lasch ha sempre nutrito un grande rispetto, ma che non 
				ha esitato a criticare ogni volta che lo ha ritenuto necessario. 
				Esso era ciò che John Kenneth Gailbraith prendeva in giro come 
				il punto di vista convenzionale dei principali scienziati 
				sociali, storici e intellettuali durante gli anni Cinquanta, che 
				associavano costantemente il populismo a Joe McCarthy, il 
				reazionarismo e l’irrazionalismo della destra anticomunista. 
				Tutto questo ha fatto in modo che scomparisse qualsiasi seria 
				discussione politica o teorica del populismo. Si può infatti 
				scorrere l’intera letteratura del secolo precedente senza 
				trovare un solo serio tentativo di capire il senso di quel 
				movimento. Tutto ciò che si può trovare sono illazioni, 
				disinformazione, insulti e stroncature sommarie. Prima di Lasch 
				e Goodwyn, nessuno osava accostare il populismo alla democrazia 
				diretta: un autentico fenomeno americano che incorporava il 
				meglio di ciò che rappresentavano gli Usa. I politologi liberali 
				solitamente seguono Bobbio nel rifiuto di qualsiasi forma di 
				democrazia diretta in quanto impraticabile, senza considerare se 
				la democrazia rappresentativa, o ciò che oggi va sotto questo 
				nome, sia davvero democrazia.
 
 Democrazia e libertà locali
 
 Un’analisi accurata del perché il populismo emerse quando emerse 
				(subito dopo la Guerra civile, quando il nation-building divenne 
				il principale obiettivo del governo), per poi scomparire con lo 
				sviluppo del progressismo all’inizio del XX° secolo aiuta a 
				spiegare molto di quello che accadde dopo: la 
				professionalizzazione della società, l’affermazione della Nuova 
				classe, e la perdita sistematica di potere delle comunità e 
				delle forme di autogoverno locale. All’inizio, il populismo fu 
				una reazione alla centralizzazione del potere, durante le crisi 
				economiche che seguirono alla Guerra civile, quando le comunità 
				locali si ritrovarono non in grado di controllare il proprio 
				destino così come avevano fatto durante la prima metà del XIX 
				secolo. Questa centralizzazione del potere finì per trasformare 
				cittadini responsabili in clienti dipendenti incapaci e nemmeno 
				disposti a sostenere le istituzioni democratiche che, come 
				risultato di ciò, si sono gradualmente degradate a quel genere 
				di competizione per la popolarità mediatica quali sono divenute 
				oggi. La partecipazione ai processi decisionali è scarsa, e 
				davvero poca è la spinta popolare nella formazione dell’agenda 
				politica. Nel complesso, oggi ciascuno di noi parla della 
				democrazia, ma davvero pochi hanno delle idee concrete riguardo 
				a cosa voglia dire praticare la democrazia, oltre la routine 
				plebiscitaria della scelta tra due gruppi di candidati già 
				preselezionati dagli apparati di partito. Christopher Lasch è 
				stato il primo a vedere questa situazione per quello che era. A 
				differenza di Goodwyn, che ha ricostruito una storia molto 
				interessante che, però, lo porta ad accantonare il populismo 
				come un’esperienza storica conclusa, Lasch intravedeva la 
				possibilità concreta che il populismo potesse divenire un 
				potenziale movimento che prometteva di ricostruire la democrazia 
				americana.
 
 Parliamo di qualcosa di completamente differente dal modello 
				europeo. La tradizionale democrazia americana – la democrazia 
				partecipativa – ha un carattere locale, caratterizzato dalle 
				interazioni faccia a faccia, ed è molto differente dal modello 
				burocratico che distrugge ogni possibilità di comunicazione, dà 
				potere dalla Nuova classe, e trasforma la corruzione in un modus 
				operandi standard in assenza del quale la società non può 
				funzionare. Uno non ha bisogno di guardarsi molto intorno per 
				vedere ciò che è accaduto in Italia, dall’operazione Mani pulite 
				alle più recenti rivelazioni di Berlusconi per comprendere che 
				la società italiana si sarebbe bloccata senza quelle pratiche di 
				corruzione sempre condannate ma assolutamente essenziali. Data 
				questa situazione complessa, che non è semplicemente 
				un’idiosincrasia italiana ma, anche se in misura minore, una 
				procedura operativa comune a tutte le società post-industriali 
				avanzate con potenti governi centralizzati, la critica di Lasch 
				comincia ad acquistare un senso profondo, pur non essendo essa 
				stessa priva di contraddizioni interne. Così, il primo capitolo 
				de “La ribellione delle élites” si apre con la messa in stato 
				d’accusa dell’attuale stridente separazione tra il popolo e gli 
				intellettuali, e con il tentativo di superare il problema. Ma 
				quali sono a questo punto le possibilità di riattivare la 
				partecipazione diretta e la democrazia diretta, ridestare la 
				cittadinanza, incoraggiare la responsabilità ecc.? Lasch 
				sviluppa una critica dei valori predominanti e del relativismo 
				diffuso, che sono divenuti la religione ufficiale del mondo 
				accademico. Cerca di difendere i valori e i costumi 
				tradizionali, e il particolarismo delle comunità. In poche 
				parole, cerca di riportare in auge l’originale modello americano 
				di organizzazione sociale, spesso mal compreso se non del tutto 
				dimenticato.
 
 In realtà, perché gli Stati Uniti sono stati creati come 
				“federazione” e non come “nazione”? La risposta è ovvia. Si 
				voleva salvaguardare la sopravvivenza di quell’eterogeneità 
				assiologica all’epoca tipica del Nuovo mondo, in modalità 
				radicalmente differenti dalle contemporanee “politiche 
				multiculturali” in cui la differenza viene amministrata da un 
				governo centrale che in ultima istanza decide su quale può 
				essere considerata una “differenza” accettabile e quale no. Essa 
				si riduce ad un progetto di omogenizzazione in cui le differenze 
				o vengono represse (ad esempio la poligamia) o marginalizzate 
				fino all’irrilevanza (la gastronomia, il folklore ecc.). Lasch 
				riconosce l’importanza dell’eterogeneità dei valori, la cui 
				eliminazione non significa la sostituzione di un insieme di 
				valori da parte di un altro insieme, ma il nichilismo e il 
				cinismo; successivamente, però, nello stesso libro, a poco a 
				poco si fa strada una speranza riguardo allo sviluppo di valori 
				comuni: i valori nazionali. La tesi di Lasch è che la vera 
				democrazia diretta permette alla gente di comprendere, discutere 
				ed articolare le differenze e, in ultima istanza, si traduce in 
				un insieme di principi e valori condivisi che, se efficacemente 
				interiorizzati, spianerebbero la strada ad una società fiorente.
 
 Così, Lasch non ha mai davvero messo in discussione il concetto 
				di nazione e la misura in cui sta divenendo rapidamente 
				obsoleto. Mentre i recenti avvenimenti successivi all’11 
				settembre hanno spinto furiosamente alla riaffermazione 
				dell’unilateralismo americano, allo stesso tempo questi 
				avvenimenti non costituiscono alcuna rivendicazione di quel 
				particolarismo nazionale tipico dell’isolazionismo tradizionale. 
				A differenza di ciò che pensano gli europei, e che rappresenta 
				una delle ragioni principali del crescente anti-americanismo, il 
				Nuovo Ordine Mondiale difeso da Washington non implica ovunque 
				l’imposizione dei valori statunitensi, né la creazione di un 
				impero al cui interno le altre nazioni dovrebbe automaticamente 
				ridursi a vassalli. Nonostante tutta la retorica sulla 
				democrazia, la cupa visione dell’amministrazione Bush deve 
				essere interpretata all’interno dell’orizzonte residuale 
				dell’America ante bellum, che cerca di estendere su scala 
				planetaria quel “modello americano” originario che, nonostante 
				le sue pie intenzioni, senza volerlo l’amministrazione sta 
				sistematicamente demolendo attraverso una nuova, massiccia 
				centralizzazione del potere (presumibilmente legittimata dalla 
				“guerra al terrore”).
 
 Il Nuovo Ordine Mondiale non significa l’imposizione della 
				“democrazia americana” ovunque. Sebbene le organizzazioni 
				governative internazionali si siano ridotte a carrozzoni 
				immensamente inefficienti, spreconi e veri e propri ostacoli, 
				spesso controproducenti, per gli obiettivi che si dice 
				dovrebbero perseguire, il Nuovo Ordine Mondiale semplicemente 
				cerca di garantire l’effettuabilità delle relazioni di mercato 
				(la globalizzazione), nel rispetto delle autonomie locali. In 
				questo contesto, il concetto tradizionale della nazione con i 
				suoi propri valori e la sua particolarità non conserva più molto 
				senso, almeno nella misura in cui l’ordine globale, nel suo 
				farsi esternamente su scala planetaria, tende anche a riprodursi 
				internamente. All’interno di questo contesto globalizzato e 
				post-nazionale, la speranza di Lasch di sviluppare dei valori 
				“comunitari” non è solo donchisciottesca ma anche 
				controproducente, di fronte al progetto di ricostruire il 
				particolarismo e l’autogoverno delle comunità. Dopo tutto, la 
				nazione ha rappresentato sin dall’inizio un progetto della Nuova 
				classe – un fenomeno post-borghese che intendeva spostare il 
				potere dal capitale finanziario dei proprietari al capitale 
				sociale degli intellettuali, dei politici e dei burocrati 
				incaricati di gestire lo Stato. Lasch descrive efficacemente 
				come i valori particolari delle comunità vengano 
				sistematicamente distrutti non solo nel processo di 
				nation-building ma anche, e in modo più significativo, 
				dall’espansione dell’economia di mercato. In realtà, egli 
				ritiene che nell’ultimo secolo e mezzo i liberal si siano 
				impegnati nella controproducente missione di costruire un forte 
				Stato proprio per contenere l’impatto distruttivo del mercato, 
				contribuendo però essi stessi ad un’ulteriore erosione del 
				particolarismo, dell’eterogeneità e dell’autodeterminazione.
 
 Se, storicamente, è stato lo Stato a creare la nazione, 
				piuttosto che il contrario, allora il desiderio di un insieme 
				solido di valori nazionali finisce per essere parte e tassello 
				del progetto di “modernizzazione” della Nuova classe. Così, le 
				nazioni moderne sono in fin dei conti entità artificiali, molto 
				simili al Dipartimento dell’educazione del vecchio Dipartimento 
				degli Stati Uniti per lo Sviluppo urbano – e sembrano anche 
				creare più danni sociali dell’insieme di queste burocrazie. 
				Ciascuna “nazione-realmente-esistente” come la Germania, la 
				Francia, l’Italia, ecc. finisce sempre per essere la creazione 
				della Nuova classe per realizzare una particolare agenda 
				politica, e per distruggere le culture particolari e le 
				autonomie locali. Lo Stato centralizza sempre il potere in 
				luoghi come Berlino, Praga, Parigi o Washington, trasformando la 
				gente che vive nelle periferie in tanti irrilevanti 
				“provinciali” senza alcunché da dire di socialmente, 
				economicamente o politicamente rilevante. Da una forma di 
				organizzazione politica, la democrazia si tramuta in un 
				meccanismo di legittimazione della Nuova classe. Come 
				conseguenza, i progetti concreti di ricostruzione sociale che 
				Lasch prefigurava non possono essere realizzati come parte di un 
				più ampio progetto di nation-building. Il progetto di ridestare 
				lo spirito del populismo americano può solo essere inquadrato 
				nei termini della ricostruzione di un federalismo solido 
				preoccupato di riattribuire potere alle comunità locali, 
				ristabilire la loro autonomia e sovranità in linea con i vecchi 
				articoli della Confederazione, vigenti prima che con la 
				Costituzione americana nascesse la federazione americana.
 
 Oggi, particolarmente negli Stati Uniti, qualsiasi discussione 
				concreta dei valori tradizionali, delle norme interiorizzate, 
				della democrazia diretta e dell’autogoverno che non tenga conto 
				dell’analisi di Lasch dell’importanza della democrazia e della 
				cittadinanza partecipative e dell’interazione faccia a faccia, 
				non solo non offrirebbe un quadro completo di come queste idee 
				si sono sviluppate storicamente in particolari contesti 
				socio-economici, ma non sarebbe in grado di prendere in esame 
				tutte le possibili alternative all’attuale sistema 
				socio-politico, denso di contraddizioni. Cosa ancora più 
				importante, dovrà enfatizzare il localismo e guardare oltre 
				quella mastodontica impresa denominata Stato-nazione, che è 
				ormai priva di senso, essendo troppo grande per affrontare i 
				piccoli problemi e troppo piccola per quelli grandi. 
				Sfortunatamente, questi compiti vengono di solito lasciati agli 
				intellettuali della Nuova classe che, non sorprendentemente, li 
				rendono inevitabilmente parte della loro propria agenda e, alla 
				fine, devitalizzano qualsiasi sentimento populista possa esservi 
				dietro. Nulla esemplifica meglio questo ragionamento del 
				miserabile destino del recente tentativo italiano di ripensare 
				ed istituzionalizzare nuove strutture federali.
 
 5 dicembre 2003
 
 (traduzione di Angelo Mellone. Da Ideazione 4-2003, luglio-agosto)
 
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