Da pochi giorni è trascorso l’anniversario del discorso di Ronald
Reagan sotto la Porta di Brandeburgo a Berlino, quello del famoso
appello a Mikhail Gorbaciov a tirare giù il Muro che ancora divideva
la capitale tedesca. Era il 12 giugno 1987 e la crisi del mondo
comunista era ormai irreversibile. Gorbaciov, ancora, tentava
disperatamente di salvare il sistema, apportando all’Unione
Sovietica e ai suoi paesi satelliti quelle riforme economiche e
politiche che in realtà avrebbero poi soltanto delegittimato i
tiranni al potere e accelerato il crollo dei regimi. Reagan si
presentò a Berlino Ovest tra le solite contestazioni.
L’antiamericanismo non è storia recente in Europa e varrebbe la pena
ricordare che in quegli anni, di fatto, difendeva regimi oppressivi
che negavano diritti e libertà a milioni di europei. Eppure il
fallimento di quel sistema era sotto gli occhi di tutti: la
comunicazione aveva ormai aperto la sua era di onnipresenza e le
cortine di ferro non contenevano più né le onde radio, né i segnali
video.
Reagan sapeva più di tutti.
Sapeva che quel sistema aveva i mesi contati. Arrivò a
Berlino e fece un discorso fermo e pacato. Serio.
Addirittura sobrio. Tese la mano al leader sovietico in
difficoltà. Ma non per concedergli una seconda chance, non
per aiutarlo a rimodellare un’esperienza ormai finita.
Gliela tese per attirarlo dall’altro lato del Muro, a
lavorare di piccone, a smantellare quel confine e ad aprire
una nuova era. “Se lei ha a cuore la libertà e il libero
mercato, signor Gorbaciov, venga qui e tiri giù questo Muro,
tear down this Wall”. E’ stato il più straordinario
discorso di un presidente americano a Berlino. I mezzi
tecnologici moderni ci consentono di rivederlo all’infinito:
qui il collegamento al filmato conservato su You Tube.
Un altro famoso discorso
berlinese fu quello di John Fitzgerald Kennedy. Altra epoca
e altra atmosfera. Era il 1963. Erano passati due anni dalla
costruzione del Muro. La guerra fredda era iniziata e aveva
da subito toccato uno dei suoi momenti di massima tensione.
La Ddr aveva deciso di far fronte all’emorragia di cervelli
e di giovani verso occidente innalzando, in una notte di
agosto, una barriera di contenimento. Berlino era scioccata
e spaventata e l’arrivo di Kennedy fu una sorta di balsamo
tranquillizzante, almeno per gli abitanti dei settori
occidentali. Il giovane presidente americano parlò dal
palazzo del Rathaus di Schöneberg
e pronunciò una frase rimasta scolpita nella storia: “Ich
bin ein Berliner”, io sono un berlinese. Migliaia di
cittadini, assiepati nella piazza, applaudirono tirando al
contempo un sospiro di sollievo. Il Muro sarebbe rimasto, ma
loro sarebbero stati difesi nel ridotto di Berlino Ovest.
Certo, a quei tempi l’Unione Sovietica era potente e la
divisione dell’Europa in due sfere d’influenza permetteva
solo discorsi orgogliosi di facciata. Qualche anno dopo
sarebbe stata l’Ostpolitik di Willy Brandt ad alleviare i
disagi e ad allentare le tensioni, pur concedendo qualcosa
alla controparte tedesco-orientale. Il comunismo sarebbe
durato ancora a lungo.
Ma la frase storica di
Kennedy, “Ich bin ein Berliner”, è divenuta famosa anche per
un errore grammaticale dovuto al suo traduttore, che scrisse
su un foglietto le parole così come dovevano essere
pronunciate, secondo lo spelling americano: ish been ain
berleener. Il piccolo errore sta nell’articolo
indefinito “ein” posto davanti a “Berliner” che invece in
tedesco non è previsto per specificare la cittadinanza. La
frase corretta sarebbe stata: “Ich bin Berliner”. Poco male,
se non fosse che il Berliner (ein Berliner) è il tipico
dolce di capodanno, una sorta di krapfen (o bombolone) che
viene offerto dopo la mezzanotte con la marmellata o con una
spruzzata di zucchero a velo. Per questo, la frase di
Kennedy campeggia ancora oggi su spillette o cartoline sotto
l’immagine di un appetitoso krapfen.
Per scrivere ad Alexanderplatz: pmennitti@hotmail.com
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