La Berlino americana tra Reagan e Kennedy
di Pierluigi Mennitti
[02 lug 07]


Da pochi giorni è trascorso l’anniversario del discorso di Ronald Reagan sotto la Porta di Brandeburgo a Berlino, quello del famoso appello a Mikhail Gorbaciov a tirare giù il Muro che ancora divideva la capitale tedesca. Era il 12 giugno 1987 e la crisi del mondo comunista era ormai irreversibile. Gorbaciov, ancora, tentava disperatamente di salvare il sistema, apportando all’Unione Sovietica e ai suoi paesi satelliti quelle riforme economiche e politiche che in realtà avrebbero poi soltanto delegittimato i tiranni al potere e accelerato il crollo dei regimi. Reagan si presentò a Berlino Ovest tra le solite contestazioni. L’antiamericanismo non è storia recente in Europa e varrebbe la pena ricordare che in quegli anni, di fatto, difendeva regimi oppressivi che negavano diritti e libertà a milioni di europei. Eppure il fallimento di quel sistema era sotto gli occhi di tutti: la comunicazione aveva ormai aperto la sua era di onnipresenza e le cortine di ferro non contenevano più né le onde radio, né i segnali video.

Reagan sapeva più di tutti. Sapeva che quel sistema aveva i mesi contati. Arrivò a Berlino e fece un discorso fermo e pacato. Serio. Addirittura sobrio. Tese la mano al leader sovietico in difficoltà. Ma non per concedergli una seconda chance, non per aiutarlo a rimodellare un’esperienza ormai finita. Gliela tese per attirarlo dall’altro lato del Muro, a lavorare di piccone, a smantellare quel confine e ad aprire una nuova era. “Se lei ha a cuore la libertà e il libero mercato, signor Gorbaciov, venga qui e tiri giù questo Muro, tear down this Wall”. E’ stato il più straordinario discorso di un presidente americano a Berlino. I mezzi tecnologici moderni ci consentono di rivederlo all’infinito: qui il collegamento al filmato conservato su You Tube.

Un altro famoso discorso berlinese fu quello di John Fitzgerald Kennedy. Altra epoca e altra atmosfera. Era il 1963. Erano passati due anni dalla costruzione del Muro. La guerra fredda era iniziata e aveva da subito toccato uno dei suoi momenti di massima tensione. La Ddr aveva deciso di far fronte all’emorragia di cervelli e di giovani verso occidente innalzando, in una notte di agosto, una barriera di contenimento. Berlino era scioccata e spaventata e l’arrivo di Kennedy fu una sorta di balsamo tranquillizzante, almeno per gli abitanti dei settori occidentali. Il giovane presidente americano parlò dal palazzo del Rathaus di Schöneberg e pronunciò una frase rimasta scolpita nella storia: “Ich bin ein Berliner”, io sono un berlinese. Migliaia di cittadini, assiepati nella piazza, applaudirono tirando al contempo un sospiro di sollievo. Il Muro sarebbe rimasto, ma loro sarebbero stati difesi nel ridotto di Berlino Ovest. Certo, a quei tempi l’Unione Sovietica era potente e la divisione dell’Europa in due sfere d’influenza permetteva solo discorsi orgogliosi di facciata. Qualche anno dopo sarebbe stata l’Ostpolitik di Willy Brandt ad alleviare i disagi e ad allentare le tensioni, pur concedendo qualcosa alla controparte tedesco-orientale. Il comunismo sarebbe durato ancora a lungo.

Ma la frase storica di Kennedy, “Ich bin ein Berliner”, è divenuta famosa anche per un errore grammaticale dovuto al suo traduttore, che scrisse su un foglietto le parole così come dovevano essere pronunciate, secondo lo spelling americano: ish been ain berleener. Il piccolo errore sta nell’articolo indefinito “ein” posto davanti a “Berliner” che invece in tedesco non è previsto per specificare la cittadinanza. La frase corretta sarebbe stata: “Ich bin Berliner”. Poco male, se non fosse che il Berliner (ein Berliner) è il tipico dolce di capodanno, una sorta di krapfen (o bombolone) che viene offerto dopo la mezzanotte con la marmellata o con una spruzzata di zucchero a velo. Per questo, la frase di Kennedy campeggia ancora oggi su spillette o cartoline sotto l’immagine di un appetitoso krapfen.

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