Le
rendite degli italiani
di Alessandro Carpinella
Ideazione
di maggio-giugno 2006
Una
Repubblica fondata sulle rendite.
Come sono cambiati il lavoro e
la ricchezza degli italiani
Geminello Alvi
Mondadori,
Milano, 2006
pp. 137, € 16
Il
grande successo di pubblico dell’ultimo libro di Geminello Alvi
– giunto in poche settimane a una seconda ristampa – non può
stupire chi si avvicini ad esso. Un volumetto di poco più che cento
pagine, magnificamente scritte da una penna poliedrica e raffinata, che
studia l’evoluzione della ricchezza degli italiani nell’ultimo
trentennio, fino a condurre il lettore, per strade percorribili anche
da chi non abbia l’attrezzatura di economista, a una visione e a
una tesi: gli italiani vivono sempre meno di lavoro, e sempre più
di rendita. Il grande dispensatore delle rendite è, naturalmente,
lo Stato: «Gli italiani sono diventati da vent’anni sempre
più ricchi quanto più lo Stato è diventato povero,
s’è indebitato per loro».
L’indagine di Alvi muove dalla critica al feticcio del pil, indicatore
ambiguo adatto alle economie del dopoguerra, e si tiene tutta sul filo
di categorie più “classiche” dell’economia politica:
«Per misurare lo star meglio o peggio d’una nazione, si dovrebbero
usare misure dei redditi veri in essa distribuiti, non della produzione.
Perciò in questo libro si stimeranno i profitti, le rendite i salari
e gli stipendi, al fine di capire come è andata l’economia
italiana». Un metodo che si rivela fecondo perché non costringe
il discorso sul mero terreno tecnico.
Nel libro si intrecciano infatti almeno tre piani. In primis, la questione
economica propriamente detta: da un quindicennio ormai la produttività
del lavoro non aumenta, e la conseguente difficoltà competitiva
del nostro sistema produttivo è stata scaricata sui salari, che
hanno perso potere d’acquisto. Ciò non significa che i profitti
d’impresa se ne siano troppo giovati; essi sono pur sempre figli
di elargizioni pubbliche (a vario titolo e conto) e si concentrano nei
settori protetti: autostrade, comunicazioni, le immancabili banche. Gli
italiani, sempre più poveri come lavoratori, non si sono però
veramente impoveriti – almeno per ora – in quanto percepiscono
rendite: affitti, stipendi pubblici (non equiparabili ai salari, in quanto
pagati dalle altrui tasse), interessi sui titoli di Stato. La caratteristica
delle rendite è di gravare, in ultima istanza, sui conti dello
Stato, il quale dunque – e torniamo donde siamo partiti –
si indebita per mantenere il tenore di vita degli italiani.
In secondo luogo, la questione sociale e morale: l’allocazione pubblica
di ricchezza tramite elargizione di rendite funziona, in Italia, perché
al centro della vita sociale e civile non è l’individuo,
ma la famiglia. E la famiglia nel senso deteriore: quella in cui i padri
cinquantenni, pre-pensionati e sfaccendati, mantengono con la loro pensione
(una rendita derivante da un privilegio ingiusto) figli trentenni sfaccendati,
o male occupati. Quella in cui basta una zia titolare di due quartierini
in affitto o di un gruzzoletto investito in bot per far campare decentemente
una famiglia. Con le sue scommesse al ribasso, è questo modello
di convivenza civile la radice del vero declino.
In terzo luogo, la questione politica: i governi di centrosinistra degli
anni Novanta hanno propugnato una gigantesca menzogna, perseguendo un
finto risanamento dei conti pubblici (l’eurotassa, sostiene ad esempio
Alvi, fu in realtà un prestito forzoso, e quindi andava iscritta
nel conto patrimoniale, tra i debiti, e non in quello economico, tra i
gettiti), in nome di un obiettivo sbagliato come l’euro. La nostra
economia si sosteneva tradizionalmente sul saldo positivo della bilancia
commerciale con la Germania. L’euro ha ribaltato questa situazione,
e tanto basterebbe a ricacciarlo nel terreno delle scelte sbagliate. Il
sindacalismo e l’intellighenzia di sinistra hanno aggravato il quadro,
con le loro lotte per difendere abusi e prebende rivendicati come “diritti
acquisiti”. Il centrodestra è stato troppo timido nella riforma
dello Stato, ma almeno le strade della riduzione della pressione fiscale
e del federalismo sono state aperte.
Un’analisi non scevra di pessimismo sull’italica gente non
preclude una proposta di riforma, o meglio dovremmo dire di palingenesi.
Anch’essa è su due piani. Il primo, di politica economica:
una strategia neo-thatcheriana di forte contrazione della presenza dello
Stato nell’economia, con la dismissione di almeno un terzo dell’imponente
patrimonio pubblico (crediti, partecipazioni, immobili, ma anche infrastrutture,
risorse naturali in concessione), unica via realistica per conseguire
una sostanziale riduzione del debito pubblico (al di là della mistica
degli “avanzi primari” e dei “sacrifici” cara
ai governi di centrosinistra). Completa il quadro la proposta –
ora bipartisan – di detassare il lavoro per renderlo competitivo
rispetto alla rendita.
Il secondo, di utopia sociale: una società neo-comunitarista (Alvi
la chiama olivettiana) con meno Stato, più sussidiarietà,
un ruolo decisivo nell’organizzazione della vita sociale assegnato
alle comunità del lavoro (potremmo chiamarle persino corporazioni),
con le loro mutue ad assicurare prestazioni sanitarie e pensionistiche,
a promuovere uno spirito di fratellanza, di solidarietà voluta
e consapevole, a migliorare la qualità della nostra vita associata.
Un libro originalissimo, insomma, che si inserisce in maniera complessa
nel dibattito attuale perché, all’avversione nei confronti
di quella sintesi di mercatismo globale e welfare nazionale tentata culturalmente
e politicamente dal centrosinistra, combina la diffidenza per il popolo
delle partite iva, per la retorica della piccola impresa, della famiglia
come unità economica di base, e in fondo per quel sano individualismo
proprietario che il centrodestra ha portato dentro la politica dell’ultimo
quindicennio.
(c)
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