Il
totalitarismo imperfetto
di Danilo Breschi
Ideazione
di maggio-giugno 2006
Il
Ventennio degli intellettuali.
Cultura, politica, ideologia
nell’Italia fascista
Giovanni Belardelli
Laterza,
Roma-Bari, 2005
pp. 310, € 19
«Il
fascismo si presentava fin dalle origini come risultato di orientamenti
differenti, tenuti insieme dal pragmatismo di Mussolini ma anche da un
peculiare atteggiamento verso la vita e verso i valori culturali tradizionali».
Con questa prima frase, che apre il primo capitolo del volume, Belardelli
sintetizza perfettamente la natura composita e precaria dell’ideologia
fascista. Ne sottolinea anche l’alto tasso di continuità
con una tradizione culturale che aveva preso piede negli ambienti intellettuali
dell’Italia di inizio Novecento. La guerra era stata l’evento
al contempo catalizzatore e propulsore di un nazionalismo antigiolittiano
che reclamava ora e subito un’Italia rigenerata, totalmente alternativa
a quella che aveva con fatica rinsaldato in molti punti il fragile edificio
politico-istituzionale eretto nel 1861. E il paradosso è che quegli
stessi ambienti intellettuali si nutrivano, a destra come a sinistra,
di una forte avversione nei confronti dell’intellettualismo, vale
a dire di un atteggiamento che considerava la politica questione separata
ed estranea alla vita del letterato e dell’uomo di cultura. Al contrario,
è proprio con l’avvento del fascismo che il termine “intellettuale”
si impone come nuova espressione per indicare e definire chi interviene
e partecipa alla vita pubblica, dando il proprio contributo alla costruzione
della “nuova Italia” purgata a Caporetto e risorta a Vittorio
Veneto. Artefice di questa operazione è Giovanni Gentile, il quale
adotta una vera e propria strategia di occupazione delle istituzioni culturali
esistenti e di altre appositamente erette ex nihilo, per coinvolgere attivamente
il maggior numero di esponenti del mondo della cultura italiana. Al di
là della fedeltà a Mussolini e al regime, che sarà
poi tradotta in un obbligo di giuramento per i docenti universitari, quel
che Gentile chiede è un convinto “patriottismo culturale”,
una fede degli uomini di cultura, dell’élite presente e futura,
nell’avvenire dell’Italia quale nazione che non potrà
non godere, dopo la comparsa del duce e la sua conquista del governo,
di un crescente prestigio internazionale. Se nei nazionalisti e in Gioacchino
Volpe questo prestigio è da intendersi anche come significativa
crescita di peso dell’Italia nella politica estera, per Gentile
è il sogno di una nazione sempre più fusa nell’identità
tra cittadino e Stato, tra cultura e politica. In questo il filosofo siciliano
rivelava un animus totalitario, che però intendeva esprimersi,
e di fatto si espresse, tramite la ricerca di una collaborazione della
classe intellettuale alle sorti dell’erigendo Stato fascista, poiché
era all’interno del nuovo Stato che la nazione avrebbe preso forma
compiuta. I modi della strategia gentiliana, finalizzata ad una egemonia
politico-culturale che non poco ispirò le pagine vergate da Antonio
Gramsci in carcere, hanno suggerito la natura “quasi liberale”
del suo fascismo. Niente di più storicamente errato. Si tratta
semplicemente di un’impressione di mitezza e moderazione politica
generata dall’incertezza e dall’intermittenza con cui il regime
fascista, nel settore della cultura e dell’insegnamento, adottava
provvedimenti di allontanamento ed espulsione. Un’oscillazione di
comportamenti dovuta a quella dialettica tra collaborazione ed epurazione
che contraddistinse la politica del fascismo nei confronti della cultura.
La collaborazione era perseguita appunto da personaggi come Gentile, mentre
l’epurazione era l’assillo delle correnti fasciste più
radicali. La presenza di questa dialettica si riscontra, in misura diversa,
anche in altri settori della vita pubblica del regime. Quel che, agli
occhi dello storico, risulta di sicuro mancante è la sistematicità,
la coerenza e l’irrevocabilità di una politica repressiva
e persecutoria di ogni comportamento dissidente, come testimoniano i numerosi
casi documentati da Belardelli. Quegli attributi il fascismo li acquistò
soprattutto dopo il 1938, con l’introduzione delle leggi razziali,
quando l’epurazione si fece molto più decisa e massiccia.
Belardelli offre una interpretazione interessante di alcuni passaggi dei
Quaderni del carcere di Gramsci. Ne suggerisce una lettura che tiene conto
del contesto politico-culturale nel quale il dirigente comunista scrisse
le pagine dedicate agli intellettuali e al problema della loro organizzazione
in funzione rivoluzionaria. Con ogni probabilità, Gramsci guardò
all’azione che i fascisti stavano compiendo nel campo della cultura.
«Una strategia politica che, mirando ad acquisire consensi prima
ancora della conquista rivoluzionaria del potere, attribuiva una funzione
essenziale agli intellettuali in quanto protagonisti dell’azione
politico-pedagogica volta a orientare le masse»; così Belardelli
riassume il concetto gramsciano di egemonia. Appare di immediata evidenza
l’analogia con il progetto gentiliano di permeare la società
italiana dei valori fascisti mediante una pervicace e pervasiva azione
educativa e culturale, e non il semplice tesseramento. Gli intellettuali
avrebbero dovuto rappresentare il principale destinatario di questa azione
di conquista, perché era dalle élite che occorreva prendere
le mosse se l’intenzione era compiere una rivoluzione autentica
e trasformatrice delle coscienze. Questo pensava Gentile e questo condivideva
Giuseppe Bottai, che da giovane reduce della prima guerra mondiale aveva
ammirato e fatto proprio l’insegnamento elitista di Pareto. Anche
Bottai, come Gramsci, avvertì con forza la «necessità
di coinvolgere gli intellettuali nella edificazione di una società
totalitaria e di conquistare il consenso attraverso la costruzione di
un’egemonia culturale». Solo che nel gerarca fascista questa
convinzione nasceva a controllo del potere politico avvenuto e con le
opposizioni già sbaragliate. L’obiettivo era ben diverso
da quello dell’edificazione di una società socialista, ma
simile era l’intento totalitario di colonizzare le mentalità
collettive che animano una società civile, in modo da unificarle
a sostegno di un preciso disegno politico rivoluzionario.
Altre pagine degne di segnalazione sono quelle dedicate a Volpe, alle
ragioni e alle modalità della sua personale adesione al fascismo,
nonché l’analisi della funzione svolta dal mito della romanità
nel corso del ventennio mussoliniano. Quel che emerge dalla lettura del
volume di Belardelli è che solo una rigorosa e pacata fenomenologia
storica del regime fascista può fornire informazioni davvero utili
e veritiere circa l’effettiva natura di quell’esperienza politica.
È così che attraverso la ricostruzione documentata e dettagliata
di numerosi episodi si può oggi affermare con una certa sicurezza
che il totalitarismo fascista fu quanto meno a corrente alternata, per
così dire, se non proprio «riluttante», come sostiene
lo stesso Belardelli. A tal proposito è illuminante la vicenda
della voce “Fascismo” dell’Enciclopedia Italiana, pubblicata
nel 1932. La voce era stata suddivisa in due parti: “Dottrina”,
a firma di Mussolini (in collaborazione con Gentile) e “Storia”,
a firma di Volpe. La prima parte, proprio perché scritta con il
contributo del filosofo dell’attualismo, risentì di quella
che papa Pio XI già un anno prima, nel 1931, aveva bollato come
«statolatria pagana». La concezione totalitaria della vita,
propugnata da Gentile per il fascismo, appariva alla Chiesa cattolica
come tentativo di sostituzione della religione del trascendente con una
falsa e pericolosa «religiosità» immanentista. Le proteste
papali, e le minacce di una condanna ufficiale della voce incriminata,
giunsero all’orecchio di Mussolini. Cosa fece il duce, che nel 1925
aveva affermato la «feroce volontà totalitaria» del
fascismo? Ordinò subito di bloccare l’uscita del volume.
Non potendo ritirare la propria firma da un testo che la stampa aveva
già anticipato come «dettato dal Duce», decise di aggiungere
una seconda parte a quella scritta in collaborazione con Gentile. Di proprio
pugno, Mussolini scriveva che lo Stato fascista non restava «indifferente»
a «quella particolare religione positiva che è il cattolicesimo».
La Santa Sede giudicò accettabile la nuova versione della voce
enciclopedica. Nello stesso inconveniente Mussolini cadde in quegli stessi
giorni con l’uscita dei Colloqui con Mussolini, volume nato da una
serie di interviste rilasciate al giornalista Emil Ludwig. Anche in questo
caso si procedette a correzioni che accoglievano le critiche del Vaticano.
Se si pensa che parliamo di testi che rappresentavano l’ideologia
ufficiale del regime e il pensiero del suo capo abbiamo l’intera
misura di quanto “imperfetto” sia stato il fascismo italiano,
nonostante le intenzioni del suo leader e di molti seguaci. Quando Mussolini
cercò di compiere un deciso giro di vite, il consenso prodotto
da una dittatura fondata sul compromesso con i vecchi poteri forti rivelò
tutta la propria fragilità. Alzare la posta, usando la carta dell’impegno
bellico, si mostrò l’azzardo cui seguì la rovina.
(c)
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