Il Pci e il 1956, fu vera svolta?
di Danilo Breschi
Il fallimento dei "101"
Valentina Meliadò
Liberal Edizioni, Roma, 2006
pp. 104, € 16
L’anno di grazia 1956 fu un anno di grandi eventi internazionali che ebbero una forte ripercussione sugli equilibri geopolitici del pianeta. Il bipolarismo Usa-Urss non venne certo meno, ma i rispettivi fronti interni subirono scosse di particolare intensità lasciando crepe che si approfondiranno nei decenni successivi. Con gli occhi di oggi basti pensare a cosa significò la crisi di Suez con l’apparizione sulla scena internazionale del panarabismo di Nasser che, seppur sconfitto sulla specifica questione del canale e del connesso tentativo di nazionalizzarlo, riportò una vittoria politica sull’Occidente, con Francia e Inghilterra rimaste scoperte da una tardiva politica colonialista che ben presto si ritorse loro contro, mentre il conflitto arabo-israeliano si acuì a dismisura. Fu comunque nel mondo sovietico che il 1956 produsse il terremoto più grave, e la prima serie di scosse fu innescata dal ventesimo congresso del Pcus tenutosi dal 14 al 28 febbraio di quell’anno. In quell’occasione, l’avvento di una nuova classe dirigente al Cremlino richiese “l’uccisione del padre” e così Chruscev presentò il rapporto segreto sui crimini di Stalin. Le deportazioni di massa, l’uso particolarmente esteso della polizia segreta e la pratica del terrore per la gestione del partito, assieme ad altre scelte foriere di inutili sacrifici per il popolo russo, erano scaturite – questa la spiegazione addotta – da un parossistico culto della personalità di cui il sanguinario georgiano era stato fatto oggetto dagli anni Trenta in poi. Obiettivo evidente della nuova nomenklatura era rinsaldare il principio del monopolio del partito unico, concentrando la responsabilità di tutte le distorsioni del passato – bollate come “errori” – sulla personalità deviata di Stalin. Fatto sta che la diffusione in Occidente del rapporto segreto ad opera del New York Times (resta il mistero di come vi sia pervenuto) ebbe ripercussioni enormi, anzitutto sui partiti comunisti operanti in Occidente.
Fra questi, il Pci costituiva già all’epoca la formazione più forte e prestigiosa, assieme ad un Partito comunista francese che di lì a poco avrebbe però imboccato la strada di un lento declino. Senza il ventesimo congresso del Pcus e l’avvio della destalinizzazione non si potrebbe capire fino in fondo la vicenda degli intellettuali comunisti che firmarono un manifesto di dissenso nei confronti dei fatti d’Ungheria, altro evento di quel fatidico 1956. Apertosi a Mosca con quelle dichiarazioni sconvolgenti, l’anno in questione procedette per i comunisti italiani con una primavera ed un’estate ricche di dibattiti circospetti e fermenti trattenuti, ma tutti anelanti al rinnovamento. I contenuti di questa voglia di cambiamento interno non erano ben chiari, anche se il centralismo democratico e la vecchia classe dirigente erano i bersagli principali delle critiche che qua e là affioravano. Nel frattempo il 1956 partoriva altri eventi destabilizzanti nel blocco sovietico. Dopo la rivolta degli operai di Poznan in Polonia nel giugno, seguì nel tardo ottobre l’insurrezione popolare in Ungheria a cui i sovietici risposero di lì a breve con l’invio dei carri armati per reprimere infine nel sangue la richiesta di libertà e indipendenza della popolazione magiara. Se “disgelo” è quello che si stava profilando, le opinioni non ortodosse avrebbero potuto e dovuto uscire alla luce del sole. Questo pensarono in molti ad Est e ad Ovest della cortina di ferro, e così anche i comunisti italiani, specialmente studenti e docenti universitari organizzati in cellule e circoli, a cominciare dal nucleo dell’ateneo romano. Fu infatti in questi ambienti che maturò l’idea di un manifesto, una sorta di lettera aperta da proporre all’“Unità” per contestare la gestione sovietica della crisi ungherese e l’allineamento del Pci sulle posizioni di Mosca.
Il lavoro della giovane Meliadò ha il pregio di offrire stimolanti spunti di riflessione su diverse questioni legate al cosiddetto “Manifesto dei 101” (altro mistero è che dalle ricerche si possono accertare non più di 97 nominativi). Il libro opera su più di livelli di analisi. Offre uno spaccato significativo della vita interna al maggior partito comunista d’Occidente e ne mette in luce la mentalità diffusa tra i militanti e i quadri, tutti avvolti da un legame che era saldato tanto da interessi materiali quanto da un vero e proprio investimento affettivo. Legame “esistenziale” lo chiama più volte la Meliadò, la quale, grazie alla raccolta delle testimonianze di molti protagonisti del manifesto, consente al lettore di raggiungere un secondo livello di analisi della storia del comunismo in Italia. Si tratta del rapporto fra partito e intellettuali, cruciale sin dalla ricostituzione del Pci alla fine della seconda guerra mondiale e nei primi anni post-bellici. Il recupero dell’opera e dell’insegnamento di Gramsci compiuto da Togliatti fu tanto strumentale quanto lungimirante, assicurando al partito comunista una duratura rendita di immagine e di collegamento con la società civile e gli organi di riproduzione culturale mai completamente esauritasi nonostante la scomparsa del diretto interessato.
Il “Manifesto dei 101” fu l’occasione di una piccola grande diaspora nel mondo intellettuale comunista, che non segnò però quasi mai un distacco definitivo ed un rifiuto totale dell’universo socialista e dell’ideologia marxista. Nei decenni seguenti assisteremo a numerosi ritorni alla casa madre, ma anche a diversi tentativi di scavalcamento a sinistra del togliattismo e dello stalinismo. Da alcuni protagonisti del manifesto del 1956 uscirono i teorici dell’operaismo e di un’ultra-sinistra rivoluzionaria che insegnò non poco ai più “duri e puri” della contestazione del decennio ’68-’78. L’impressione complessiva trasmessa dall’accurata analisi svolta nel libro è che la crisi del 1956 non produsse alcuna svolta in senso socialdemocratico e riformista né nel Pci né in chi ne fuoriuscì. Salvo casi individuali e molto travagliati, si continuò a cercare il vago e l’impossibile, tipo una democrazia su base consiliare e operaista e non parlamentare, sempre in nome di un superamento, previo abbattimento, della società e della cultura borghese. In questo consisteva la “rivoluzione”. Quando ci si rese conto che ciò avrebbe significato un suicidio collettivo, i figli di una borghesia italiana riemersa dalla sciagura della seconda guerra mondiale ed estesasi a settori del proletariato con il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta seppellirono l’ascia di guerra e vestirono panni “post-borghesi” e idee “post-moderne”. Nel frattempo, però, qualche vittima era stata lasciata alle spalle, lungo le strade dell’utopia politica di una gioventù naturalmente insoddisfatta e innaturalmente ideologizzata fino all’ebbrezza superomistica.
(c)
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