La parabola politica di Doctor Henry
di Daniele Sfregola

Ideazione di novembre-dicembre 2006

Henry Kissinger
 e l'ascesa dei neoconservatori
Mario Del Pero
 Roma-Bari, Laterza, 2006
pp. 190, € 18

Henry Alfred Kissinger è un personaggio dalla parabola irripetibile. Capace di suscitare sentimenti e valutazioni diametralmente opposti, Kissinger si è affacciato in sordina sulla scena della politica internazionale e ne è uscito da protagonista di prima grandezza. Per alcuni è un criminale impunito, per altri è un genio della diplomazia; taluni lo considerano la quintessenza del realismo politico contemporaneo, altri ancora un’astuta contraffazione, per di più immorale e pericolosamente ambiziosa. Kissinger è stato l’europeo più potente, ammirato e criticato della storia degli Stati Uniti d’America. Talmente europeo per formazione culturale, da ambire alla trasformazione dell’America eccezionalista in una potenza simile a tutte le altre potenze egemoni del passato; talmente ambizioso per indole, da mirare al mutamento strutturale del profilo politico della patria del wilsonismo: da «splendente città sulla collina», l’America universalista avrebbe dovuto riconcepirsi come Stato egemone di una specifica parte del globo, con il proprio interesse nazionale da difendere e un approccio dichiaratamente geopolitico e relativista alle relazioni con gli altri Stati, prima fra tutti l’Unione Sovietica.

Il volume di Mario Del Pero – docente di Storia della politica estera statunitense presso l’Università di Bologna – ha un particolare pregio, difficile a trovarsi nella saggistica divulgativa italiana in materia: contestualizza il pensiero e l’azione di Henry Kissinger e la nascita del movimento neoconservatore, fornendo una chiave di lettura stimolante per semplicità espositiva e profondità analitica. Del Pero analizza la parabola politica di «Doctor Henry» e l’ascesa del neoconservatorismo come un pendolo del potere che gradualmente, dal 1968 al 1976, passa dal keynesismo militare dei Democratici, impantanatosi in Vietnam, al ripensamento profondo della struttura del sistema internazionale, che l’amministrazione Nixon introduce.

L’amorale realismo kissingeriano – che per i Democratici e per la destra repubblicana sarà semplicemente immorale – è una parentesi del Novecento americano. Come Theodore Roosevelt, anche Henry Kissinger ha segnato un’eccezione alla tradizionale condotta diplomatica degli Stati Uniti: prima e dopo, l’astoricità e i valori ortodossi dell’America sulla scena internazionale sono tornati a caratterizzare la retorica e gli schemi mentali dei suoi massimi dirigenti. Vi è un legame sostanziale che unisce il periodo precedente e quello successivo alla distensione dell’èra Nixon: questo è dato dalla concezione ideologica e militarista del confronto con l’Unione Sovietica, in un’ottica sostanzialmente immutata rispetto ai canoni globali della dottrina Truman e che si riaffacciano, aggiornati, nell’èra Reagan.

Non sorprende, pertanto, l’origine politica dei neoconservatori. Questi, insieme alla corrente più visceralmente anticomunista dei Repubblicani, puntarono alla demolizione del consenso interno su cui poggiava l’equilibrismo kissingeriano: alla logica del bilanciamento e della condivisione tacita delle regole del gioco tra Washington e Mosca, che connotava la détente, opposero con veemenza la vecchia idea dell’espansionismo congenito del moloch sovietico, della sua aggressività intrinseca ed incompatibile a qualsiasi ipotesi di coesistenza competitiva. Per quella pattuglia di Democratici che solo più tardi finirà per raccogliersi intorno a Ronald Reagan nel nome di un nuovo conservatorismo, la limitazione degli armamenti e la conseguente parità strategica che Kissinger perseguì e ottenne parzialmente con Mosca, mediante gli accordi Salt, costituivano un tradimento politico; la fattiva collaborazione commerciale e creditizia e l’intesa politica incentrata su un reciproco riconoscimento delle sfere di influenza in Europa – che si tramutava, nella concezione culturalmente eurocentrica di Kissinger, in una interdipendenza strategica dalla portata comunque universale – rappresentavano una “nuova Monaco”, una forma aggiornata di appeasement, un tradimento morale per la nazione americana.

I tentativi espansionistici nel continente africano posti in essere dall’Unione Sovietica, durante gli anni Settanta, risposero principalmente all’esigenza di bilanciare in Angola, Etiopia e Mozambico le posizioni perdute in Medio Oriente, dopo che l’abilità del segretario di Stato americano permise il revirement di Sadat, l’espulsione dei sovietici dall’Egitto ed il consolidamento della preminenza statunitense nell’intero Mediterraneo orientale. Ma nella propaganda di Jackson, Moynihan e del resto dei Democratici futuri neoconservatori ciò acquisiva il connotato di testimonianza della natura congenitamente aggressiva della dirigenza politica di Mosca. La dura repressione del dissenso interno che i sovietici compirono in quegli anni non sfociò mai nelle forme indiscriminate delle purghe staliniste, come Kissinger e Kennan ebbero modo di rilevare. Tuttavia, l’efficace critica neoconservatrice ebbe gioco facile nello sfruttare l’occasione, ingenuamente offerta da Mosca, per conquistare il consenso al Congresso e nell’opinione pubblica sul tema dei diritti umani, concorrendo alla messa in crisi della distensione tra le due superpotenze e all’apertura di una nuova fase politica con Jimmy Carter.

Per Del Pero tutto ciò è solo concausa secondaria della fine del kissingerismo. L’autore sostiene che la causa primaria stia in Kissinger stesso, nel suo ideologico realismo e negli effetti paradossali che ciò alla lunga comportò. Kissinger agiva in nome dell’osservazione realistica dei rapporti di forza e della de-ideologizzazione della relazione con Mosca in un’ottica risolutamente relativista. Ma finì per riporre eccessiva attenzione al legame esclusivo con l’Unione Sovietica: parlava di sistema multipolare, ma ragionava in termini di sistema bipolare; aveva inseguito il metro dei valori universali e delle politiche particolari, ma si ritrovò a leggere il particolare periferico con la lente dell’universale bipolare. Di certo, Kissinger non riuscì a radicare nel popolo americano una visione «matura», «europea» e «amorale» della potenza a stelle e strisce. Per l’autore, ciò avvenne a causa della sua incapacità di percepire la sfida lanciatagli dai neoconservatori, una sfida interna e altamente ideologica che fu sottovalutata dallo statista, ma che risultò alla fine decisiva.

A nostro avviso, invece, la parentesi realista di Henry Kissinger si chiuse per due ordini di motivi. Kissinger conseguì gli obiettivi che giustificarono l’avvento della sua linea di politica estera ed esaurì in tal misura la sua missione diplomatica in senso stretto. Tuttavia, per ironia della sorte, vide amplificare la forza d’urto dei suoi oppositori, e in ultima analisi ridurre la propria capacità persuasiva verso l’opinione pubblica, per cause estranee al suo operato. Il Watergate, le dimissioni di Nixon, il tremendo deficit di fiducia verso l’amministrazione che ciò ingenerò, lo scarso carisma di Ford e, in concausa, l’efficace propaganda neoconservatrice sui temi precedentemente esposti screditarono moralmente il profilo culturale della diplomazia kissingeriana all’interno del Paese. Le vicende interne alla sua amministrazione, e non il suo realismo, hanno segnato il fallimento dell’acid test – la prova della legittimazione interna delle scelte di politica estera – che il docente di Harvard nato in Germania aveva così bene definito nei suoi studi su Metternich e Bismarck.

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