L'idealismo della politica made in Usa
di Andrea Gilli
Ideazione
di marzo-aprile 2007
Reluctant Cursaders: Power, Culture, and Change in American Grand
Strategy
Colin Dueck
Princeton University Press, 2006
pp. 263, $ 29,95
Cosa conta di più nella politica internazionale, la forza o le idee? La teoria realista delle relazioni internazionali ha sempre sostenuto la forza. La teoria liberale e soprattutto quella costruttivista hanno invece sempre optato per le idee. In questo libro, Colin Dueck sostiene che contano entrambe, formulando un’ottima sintesi delle due posizioni. Per provare la sua tesi, il giovane docente guarda alla formulazione della Grand Strategy americana dalla prima guerra mondiale fino alla risposta post-11 settembre.
E quindi, indagando le politiche estere formulate da Wilson, Truman e George W. Bush, Dueck rileva come esse non siano intellegibili se non guardando ai tratti culturali più profondi degli Stati Uniti d’America, e in particolare a due tradizioni che secondo l’autore hanno storicamente influenzato le relazioni esterne di Washington. La prima, che Dueck chiama «Classical Liberal Assumptions», riguarda il profondo spirito liberale su cui si fondano gli Stati Uniti d’America. Quindi i suoi valori democratici e liberali, la fiducia nella capacità di progresso dell’uomo, la naturale tendenza verso la libertà e la pace. È la tradizione su cui si fonda lo spirito “redenzionista” statunitense: quello che vede negli Stati Uniti un motore di cambiamento dell’umanità e quindi per Washington una sorta di dovere divino di portare pace e libertà nel resto del pianeta. In altri termini, questa prima tradizione sarebbe quella che storicamente ha fissato gli obiettivi più idealistici e costosi della politica estera americana e quella a cui a vario titolo appartengono Jefferson, Wilson, Kennedy, Clinton e George W. Bush.
Dall’altra parte, Dueck rileva la tradizione del «limited liability»: il filone culturale americano più scettico sulla capacità di americanizzare il mondo, e quindi più portato a consigliare di non investire soldi nella redenzione altrui. Questo filone è vicino alla classica tradizione “esemplarista” americana: quella che vede nell’America A City on a Hill, da imitare, non da esportare e i cui esponenti principali possono essere rintracciati in George Washington, John Quincy Adams e Henry Kissinger.
Queste due posizioni sono antitetiche: l’America però è storicamente rimasta una sola, con una sola politica estera, e soprattutto con le stesse minacce da affrontare. E così, Dueck sottolinea come i due corsi si siano storicamente incrociati, intervenendo o nella formulazione di una politica estera o nella sua applicazione, a seconda di dove interveniva l’altro, portando, di fatto, a risultati spesso discutibili. Così è stato per la politica di Wilson (Classical Liberal Assumptions), che si vide tagliare le gambe dalla commissione Esteri del Senato (limited liability) o più recentemente dalla politica estera di George W. Bush che appunto, intrisa di buoni propositi (Classical Liberal Assumptions), è stata attuata al risparmio (limited liability) come gli ambigui risultati in Iraq e Afghanistan dimostrano.
Appunto, i «crociati riluttanti»: quelli che mirano a cambiare il mondo senza però essere disposti a spendere le risorse necessarie. Ciò che è interessante di questa analisi è il ruolo che si dà alla cultura americana. La classica interpretazione delle relazioni internazionali è quella della “palla da biliardo”, secondo la quale gli Stati reagirebbero nell’arena internazionale esattamente come su un tavolo di biliardo, rispondendo agli stimoli esterni. Dueck rileva come in realtà il quadro sia ben più complesso: le due culture, sia quella esemplarista che quella redenzionista, hanno storicamente filtrato gli stimoli esterni portando spesso a risposte tutt’altro che da “palla da biliardo”. Esse sono infatti entrambe idealiste, sebbene in modo differente. E ciò spiegherebbe per esempio la diffidenza degli americani verso la Realpolitik, e l’assenza di politiche estere veramente realiste durante tutto il Novecento. In breve, la presenza di queste due tradizioni spiegherebbe lo storico bisogno degli americani di avere una politica estera intrisa di ideali, anziché di interessi.
Il libro, analizzando dunque queste tre fasi, e soprattutto come storicamente sia avvenuto il cambio di Grand Strategy, contribuisce notevolmente alla comprensione della formulazione della politica estera americana. Allo stesso tempo, esso lascia anche l’amaro in bocca. Perché dimostra quanto principi liberali e efficacia in politica estera siano due cose fondamentalmente in contraddizione l’una con l’altra e quindi fondamentalmente incompatibili. Ma in fondo questa non è certo una novità: come già Alexis de Tocqueville aveva notato visitando proprio gli Stati Uniti, «[La politica estera] non richiede alcuna delle qualità che caratterizzano le democrazie, ma invece obbliga a coltivare tutte quelle che essa non ha».
(c)
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