Gli Usa tra Wilson e Bismarck
di Danilo Breschi

Ideazione di luglio-agosto 2006

America al bivio.
La democrazia, il potere e l’eredità dei neoconservatori
Francis Fukuyama

Lindau, Torino, 2006
pp. 213, € 19,50

Fukuyama è l’autore del libro più frainteso di questi ultimi quindici anni. Il suo La fine della storia e l’ultimo uomo è tuttora il libro più citato, sempre con quel ritornello che mostra quanto «quell’opera non sia stata affatto letta: Fukuyama ha detto che la storia è finita!». Sarebbe bastato leggere l’introduzione e l’ultimo capitolo per capire che la “fine della storia” era espressione che lo studioso americano accompagnava sin dall’inizio con un grosso punto interrogativo, punto che campeggiava ancora gigante nelle pagine conclusive. Fukuyama poneva l’accento sul lato più debole delle democrazie liberali d’Occidente, chiedendosi se si trattasse di sistemi di convivenza civile capaci di appagare completamente quella sete di riconoscimento individuale e collettivo che da sempre è stata motore della storia. Una capacità messa in dubbio non tanto in termini d’insufficienza ad estendere diritti, quanto piuttosto in termini di eccesso di razionalità a scapito delle pulsioni più irrazionali. «L’insoddisfazione nasce proprio dove la democrazia ha trionfato nella maniera più completa: si tratta cioè dell’insoddisfazione della libertà e dell’eguaglianza», scriveva Fukuyama nel suo best-seller del 1992. E non mancava un annuncio profetico: «Il pensiero moderno non erige barriere ad una futura guerra nichilistica contro la democrazia liberale da parte di coloro che ha allevato nel suo seno». In questa affermazione sta il cuore del dibattito politico e culturale attuale e tocca le radici del fenomeno del radicalismo islamico e delle sue azioni terroristiche in Europa. Perché Fukuyama ha ragione nel sottolineare che la radicalizzazione di certo islamismo attecchisce e fa proseliti nelle nostre società moderne e secolarizzate. Scrive nel suo nuovo libro America al bivio, uscito in contemporanea negli Stati Uniti e in Italia, che «lo jihadismo è un prodotto della modernizzazione e della globalizzazione, non del tradizionalismo». Ed è questo un argomento che, da un lato, rende coerente il pensiero elaborato dallo studioso americano in questi ultimi quindici anni, dall’altro gli suggerisce una presa di distanze da quel neoconservatorismo a cui ha dichiarato per lungo tempo di aderire, condividendone la visione politica del mondo.
Appena l’anno scorso l’editore Lindau aveva pubblicato un altro saggio dello studioso della John Hopkins University, intitolato Esportare la democrazia. Oggetto di analisi era il sistema politico internazionale e la sua instabilità, resa particolarmente acuta e foriera di rischi per la pace e la sicurezza collettiva anche dall’esistenza di un alto numero di Stati deboli. Ad avviso di Fukuyama, la loro debolezza si traduce in una sostanziale incapacità di soluzione istituzionale dei problemi socio-economici interni. Ne consegue un’elevata conflittualità che può alimentare disordini e derive autoritarie e fuoriuscire così dai confini nazionali compromettendo l’equilibrio internazionale. «Imparare a gestire meglio lo state-building è perciò centrale per il futuro dell’ordine mondiale», ammoniva Fukuyama un anno fa. Il libro appena uscito riparte da dove il precedente si era concluso e si confronta con l’attualità, valutando principi e risultati della politica estera americana di questi ultimi anni. In particolare, prende posizione nei confronti del comportamento adottato dall’amministrazione Bush con la decisione di invadere l’Iraq e rovesciare la dittatura di Saddam Hussein.
Fukuyama ritiene che gli esponenti dell’entourage bushiano che si fregiano dell’etichetta di neoconservatori abbiano esasperato alcune premesse del pensiero originario di quel gruppo di intellettuali formatisi al City College di New York negli anni Trenta e Quaranta. Se è corretto ritenere che le caratteristiche interne dei regimi sono direttamente influenti sulle condotte di politica estera, è però illogico pensare che l’uso della forza, tanto meno una guerra preventiva, possano essere lo strumento principale tramite il quale operare un cambiamento di regime che favorisca l’avvento di una democrazia liberale. La tentazione a pensare in questi termini si è diffusa all’indomani della caduta del regime di Saddam, ed è nei toni e nei contenuti di un discorso di Charles Krauthammer del febbraio 2004 che se ne trova la sintesi perfetta. Ed è proprio questo discorso tenuto all’American Enterprise Institute di Washington ad aver provocato la reazione sdegnata di Fukuyama. Il quale ha in sostanza constatato la deriva idealistica di non pochi esponenti del neoconservatorismo, un idealismo che li ha condotti ad alcune errate valutazioni ed applicazioni di principi in sé ancora validi e condivisibili. In primo luogo, la sopravvalutazione del ruolo della forza militare, e in secondo luogo la presunzione di una superiorità morale degli Stati Uniti rispetto a qualsiasi altro Stato-nazione. Ne deriverebbe una legittima e indiscutibile “egemonia benigna” della superpotenza americana, capace di trasmutare la guerra contro alcuni Stati in azione benefica e rigeneratrice di valori e pratiche della libertà inespresse o conculcate da governi illegittimi. Di questa idea William Kristol e Robert Kagan sono tra i più ardenti sostenitori.
In fondo, America al bivio non segna l’abbandono da parte di Fukuyama delle idee neoconservatrici, ma appare piuttosto la rivendicazione del lato “conservatore” di una corrente di pensiero che nasceva dal dosaggio ben misurato di idealismo e realismo. L’idealismo che conferisce novità a questo tipo di conservatorismo risiede nell’importanza assegnata alle istituzioni internazionali e trova nel pensiero di Woodrow Wilson alcuni punti di riferimento. In fondo, Fukuyama rimprovera a Bush jr. e ai neoconservatori che lo hanno sostenuto di aver dimenticato due insegnamenti della tradizione realista: qualsiasi azione politica non può fare a meno di essere al contempo dotata di efficacia e legittimità; e, inoltre, il rispetto della sovranità nazionale è la premessa necessaria per chiunque voglia intaccarla dall’esterno, favorendo cambiamenti di regime. In tal senso, egli invita a sostituire Metternich, nume tutelare del vecchio realismo alla Kissinger, con l’ormai dimenticato Bismarck, consapevole di come al dispiegamento della potenza si dovesse accompagnare una rassicurante e riparatrice azione diplomatica. In conclusione, con questo libro Fukuyama torna ad essere un po’ meno “neo” e un po’ più “conservatore”.

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