Storie
di schiavi dimenticati
di Vittorio Macioce
Ideazione
di luglio-agosto 2006
La
costa degli schiavi
Thorkild Hansen
Iperborea, Milano, 2006
pp. 400, € 17,50
«Silenziosi
sui loro piedi nudi gli schiavi attraversano duecento anni di storia danese
senza lasciare altra traccia che due righe nei libri di scuola: la Danimarca
fu il primo paese ad abolire il traffico degli schiavi. Migliaia di uomini,
donne e bambini. E di loro non resta che una frase. Per di più
falsa». Quel traffico continuerà per decenni dopo l’abolizione
ufficiale, ma nessuno schiavo ha mai raccontato la sua storia: per dar
voce a quelle migliaia di esseri umani privati della libertà, incatenati,
venduti e trascinati dall’altra parte dell’oceano, Thorkild
Hansen va a cercare le tracce dei loro passi nella Guinea danese, l’attuale
Ghana. E come guida si serve di diari, lettere, documenti lasciati da
sette “testimoni oculari” che si sono succeduti nel corso
di due secoli tra quelle mura: un tenente, due sacerdoti, un mercante,
un medico, un contabile e un governatore. Giorni lenti e di fatica spesi
nella costruzione delle proprie capanne, nell’agricoltura, tra l’azzurro
marino e il verde delle palme sulla costa.
Il danese Thorkild Hansen (1927 – 1989) racconta duecento anni di
schiavitù che appartengono alla storia coloniale della Danimarca
e che i libri di storia liquidano in un pugno di righe e lo fa in un romanzo
documentario lontano da enfasi, revisionismo e retorica, con uno stile
asciutto e poetico, fatto di immagini forti, di uomini di tempra diversa,
resi tangibili dalla sua scrittura. Racconta i luoghi di selezione e tortura
di schiavi trasportati dalla Guinea alle Indie Occidentali danesi, le
attuali Isole Vergini nel Mare dei Caraibi. Uomini, donne e bambini, venuti
al mondo durante il viaggio dal villaggio al forte, all’ombra di
una foglia di banano. «Gli schiavi non proiettano ombra nella storia.
Somigliano ai dannati dell’Inferno di Dante, sono essi stessi un
popolo di ombre nere», senza voce. La voce alla loro disperazione
l’hanno data i testimoni oculari che si sono alternati o incrociati
sul posto nell’arco di due secoli e di cui Hansen, meticoloso, ricostruisce
le tracce. Marchi a fuoco come fossero bestiame, fruste di cotenna d’ippopotamo,
suicidi dopo tentativi di fuga, donne ispezionate negli angoli più
intimi, neonati gettati alle onde o lasciati agli sciacalli, giovani maschi
capaci di tagliarsi le dita di mani e piedi pur di non essere venduti
e fanciulle che si sfregiavano le labbra per risultare ripugnanti. E uno
schiavo mutilato non era buona merce: a chi presentava difetti fisici
era più comodo tagliare la testa che rispedirlo indietro.
Nelle pagine di Hansen si incontrano l’ebreo Joseph Wulff, mal sopravvissuto
alle febbri tropicali, Edward Carstensen, ultimo governatore di Guinea,
Sebah Akim, assassino di bambini, gli Ashanti e gli Akwapim in guerra,
il trafficante di schiavi Ludewig Ferdinand Romer. Un coro di voci, voci
di europei più o meno convinti che «Dio fosse dalla loro
parte. Sicuramente era così, ma non fu di grande aiuto. Le zanzare
portatrici della malaria erano dalla parte dei negri», scrive amaro
Hansen. Morti di neri e di bianchi, nella terra e nell’acqua. Oggi,
del cimitero danese accanto al forte bianco contro l’azzurro del
mare, restano frammenti di lapidi in mezzo a un cementificio mai sorto,
tra lastre di cemento e tubi di scarico.
(c)
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