Il
sindacato del conflitto
di Patrizio Li Donni
Ideazione
di gennaio-febbraio 2006
A
cosa serve il sindacato?
Pietro Ichino
Mondadori,
Milano, 2005
pp. 280, € 17,50
Cgil,
Cisl, Uil, Ugl, Cobas, Fiom, Fim, Cisl, Uilm, Licta, Anpcat, As quadri,
Cila. «Per me si va ne l’etterno dolore, per me si va tra
la perduta gente[...] Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate»:
non li avesse spesi per la Divina Commedia questi meravigliosi versi il
sommo Dante, (libero da letture benigniane) li avrebbe certamente cantati
per la tragedia dell’inferno sindacale italiano.
Quello che emerge infatti dalla lettura del libro di Pietro Ichino è
un vero e proprio viaggio nell’Averno del mondo del lavoro dell’Italia
del nuovo millennio. Magari ad un tecnico o un addetto ai lavori potrà
sembrare un viaggio percorso centinaia di volte, come centinaia sono ormai
gli scioperi che ognuno di noi (specialmente nei trasporti) è costretto
a subire, patire, maledire ogni anno. Tutti gli scioperi però possono
essere riuniti in un unico concetto: conflitto. È certamente questa
la parola chiave con cui riassumere il senso di questo lavoro di Ichino.
Nel libro l’autore, ex dirigente dei Metalmeccanici della cgil,
ex deputato nelle file del pci, si spinge davvero là ove osano
le aquile. Criticare infatti la politica sindacale dei confederati, come
fa ad esempio nel caso della vicenda dell’Alfa di Arese o per quel
che riguarda la questione dei trasporti, imputando loro un ritardo culturale
nelle relazioni con il mondo dell’impresa e dell’opinione
pubblica, è impresa coraggiosa. Ichino schematizza in alfa ed omega
i due estremi delle tipologie sindacali, conflittuale e cooperativo, evidenziando
i diversi approcci dei sindacati stranieri rispetto al conflitto scelto
da quelli nostrani. Ichino ricorda le parole rivoltegli da Emilio Pugno,
leader storico degli operai Fiat eletto in Parlamento. Riguardo alle crisi
occupazionali degli anni Ottanta, Pugno disse: «Non hai capito,
il problema non è di politica sociale, è di politica industriale.
Non possiamo lasciare che sia il padrone a decidere se una fabbrica deve
continuare a vivere o deve chiudere. Questa è una scelta che va
fatta nel quadro della programmazione economica. La politica sociale,
le politiche del lavoro lasciale fare ai socialdemocratici; a noi interessa
la politica industriale». Qui sta il cuore del problema della rappresentanza
sindacale italiana degli ultimi venti anni: il sindacato italiano nel
suo complesso non ha ancora superato la visione di capitale e lavoro e
li considera elementi separati da un solco insormontabile, divisi e contrapposti.
Quella che doveva essere la “mobilità sostenibile”
di Arese si è trasformata in un pozzo senza fondo per le tasche
degli italiani e, alla fine, in una chiusura dello stabilimento. L’altro
settore che Ichino analizza è quello dei trasporti, dove abbondano
le sigle e si abusa dell’uso del certificato medico al posto dello
sciopero. Qui il problema è la gestione della rappresentanza e
il rispetto delle tregue sindacali per chi sottoscrive il contratto o
chi soltanto ne beneficia. Ichino indica alcune interessanti vie d’uscita
ma prima di tutto suggerisce la necessità di un profondo cambiamento
culturale.
(c)
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