La comunicazione della guerra
di Paola Liberace

Ideazione di settembre-ottobre 2006

Conflitto e narrazione
Vittorio Mathieu (a cura di)

il Mulino, Bologna, 2006
pp. 246, € 20

Ogni uomo è sempre tentato di considerare la propria epoca un unicum, di descrivere le sue esperienze come inaudite – nel bene o nel male – a prescindere dall’effettivo momento storico in cui vive. La drammatica, a tratti inumana esperienza della guerra collabora a rafforzare questa tentazione. I testimoni e i protagonisti di ciascun conflitto hanno avuto e avranno modo di sostenere che non ce ne fu mai una uguale, adducendo ragioni diverse: legate alla dimensione, al numero di perdite, al tipo di armi utilizzate, ma anche ai paesi (o ai popoli, alle tribù, alle fazioni) coinvolti, alle motivazioni per giustificarle, al ruolo dei servizi segreti.
Per definire straordinarie le guerre contemporanee basterebbe l’esplosione della conflittualità endemica del terrorismo: che insidia la vita quotidiana fin nel suo intimo, utilizza armi e procedimenti non convenzionali, estranei a qualsiasi convenzione internazionale. Il terrorismo non ha cambiato solo il volto delle battaglie, ma il modo stesso di condurre la guerra, imponendo un nuovo terreno di scontro sul quale inseguirlo.
C’è tuttavia chi guarda nella direzione opposta, considerando l’Occidente aggressore anziché aggredito. In quest’ottica la guerra – preventiva, umanitaria, più o meno legittimata – è quasi sempre quella mossa dagli Stati Uniti, con i loro alleati, che dispongono di forze soverchianti: non solo militari, diplomatiche, economiche e strategiche, ma anche comunicative. Proprio la portata dell’influsso dei mezzi di comunicazione e delle strategie d’informazione costituisce un altro argomento a favore della peculiarità dei conflitti contemporanei – almeno dal 1991 in avanti – in cui le narrazioni mediatiche hanno accompagnato i fatti bellici fino quasi a diventarne parte integrante.
La preponderanza mediatica come eccezionalità: almeno fino a quando non la si considera espressione di una dimensione comunicativa, narrativa, che fa parte del vissuto occidentale come minimo a partire dai poemi omerici. Conflitto e narrazione, ultimo frutto di un progetto di ricerca interdisciplinare condotto dalla fondazione Nova Spes, ha il merito (fin dal sottotitolo) di tracciare una linea di continuità tra le narrazioni dell’antichità e quelle esorbitanti dei nostri giorni. Ha ragione Mathieu, nel suo saggio, di dire che in Omero «troviamo tutto ciò che caratterizza la nostra epoca, salvo (forse) l’informazione digitale»: guerra psicologica, persuasione oratoria, propaganda spicciola, privi dell’istantaneità delle immagini televisive, ma non per questo scevri di influenza, o di immediatezza. Così, se Antonio Scurati o Alberto Abruzzese parlano di una crisi irreversibile, che segna l’implosione della videosfera occidentale e l’oltrepassamento dei confini tra realtà e finzione, la domanda sulla strategicità dell’informazione di guerra (affrontata ad esempio nei saggi di Carlo Jean, Fabrizio Battistelli, Rossella Rega), trova una risposta naturalmente affermativa, ma non eccentrica rispetto alla tradizione.
Strategicità, peraltro, non implica automaticamente manipolazione e tendenziosità: l’importanza della comunicazione non va letta unilateralmente, come strumento del potere (soprattutto occidentale), ma rappresenta – almeno nelle società libere e democratiche – anche un argine al potere stesso, grazie al pluralismo delle fonti, alla leadership del pubblico (che da destinatario dell’informazione ne diventa il dante causa), alla dialettica tra sistema politico e sistema mediatico, in cui il secondo è di volta in volta allineato, critico, opposto rispetto al primo. Neppure la maggiore superpotenza mondiale, rileva Battistelli, può prescindere dal consenso: questo non significa solo un costante tentativo di costruirlo attraverso il soft power, ma anche una spada di Damocle – lo ricorda Jean – perennemente sospesa sul capo dei politici, che ridimensiona il loro arbitrio, e indirettamente il peso delle forze comunicative a loro disposizione (le quali, tutte insieme, non hanno potuto impedire che l’opinione pubblica usa maturasse sull’Iraq un parere diverso da quello del governo statunitense).
Se la guerra è comunicazione, e gli strumenti dell’una e dell’altra si intrecciano fino a diventare indistinguibili, è altrettanto vero che la comunicazione è guerra: la verità è di per sé figlia del conflitto, del confronto dialettico, come ricorda ancora Mathieu. Il vecchio adagio si vis pacem, para bellum vale anche dal punto di vista comunicativo: pur nella consapevolezza della potenza di fuoco dei media, e del rischio di spettacolarizzazione, imbrigliare la narrazione dei conflitti o celarne gli effetti in una “pax televisiva” vorrebbe dire rinunciare al valore di verità del conflitto.
È vero, come afferma nel suo saggio Enrico Manca, che dai soli media non nasce la democrazia; è altrettanto vero che certamente non nasce senza, e che il processo di apertura e democratizzazione del mondo arabo non potrà prescindere dalla crescita della libertà di informazione, di parola, di comunicazione. Poteva invece prescindere dalle azioni militari statunitensi? Difficile rispondere senza avere presenti entrambe le parti del contendere. Ricordare al Qaeda o gli attentati dell’11 settembre, in quest’ottica, non vuol dire rispolverare presunti inganni mediatici (che difficilmente avrebbero potuto sostenersi come pura invenzione statunitense): ma, più concretamente, proporre un’ottica meno parziale, più complessa, per interpretare i fatti. Ancora con le parole di Vittorio Mathieu, bisogna avere in mente che «dire no alla guerra e sì alla pace è facile, ma è anche semplicistico».


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