Genesi del neofascismo italiano
di Danilo Breschi
Ideazione
di gennaio-febbraio 2007
Fascisti senza Mussolini
Le origini del neofascismo in Italia 1943-1948
Giuseppe Parlato
il Mulino, Bologna, 2006
pp. 448, € 25
Allievo di Renzo De Felice, Giuseppe Parlato ne ha ereditato il gusto quasi positivistico per la ricostruzione fattuale, forse principale e unica premessa per feconde analisi e interpretazioni storiografiche. In altre parole, se il maestro, memore dell’insegnamento dell’antifascista Angelo Tasca, affermava che per interpretare il fascismo occorre farne prima la storia, l’allievo non poteva che applicare lo stesso ragionamento per il neofascismo. Metodo tanto più valido se si pensa quante letture ideologicamente distorte e strumentali sono state compiute sull’argomento.
Fino ad oggi, erano di taglio politologico i lavori più seri e approfonditi sulla genesi del neofascismo e sul Movimento Sociale Italiano, sua principale espressione politica e partitica per circa mezzo secolo. Quel che ancora mancava era una ricostruzione minuziosa e articolata dei vari momenti che hanno accompagnato la genesi del partito neofascista italiano. Parlato ha potuto farlo avvalendosi di una documentazione ampia e diversificata, proveniente tanto dagli archivi americani quanto dal ministero dell’Interno e da Istituti culturali che hanno recentemente riordinato le carte dei principali partiti politici dell’immediato dopoguerra. E ciò che mancava è quel che solo una ricostruzione così dettagliata e fondata sull’incrocio di fonti diverse poteva rilevare: quanto il partito neofascista per antonomasia fosse soltanto la punta di un iceberg chiamato “continuità dello Stato e della mentalità politica (anti-riformista)”. Ma procediamo con ordine, sia pur sintetizzando.
Lo studio prende le mosse dal momento in cui il fascismo crolla come regime, il 25 luglio 1943, risorgendo però come espressione di una parte della società italiana che mostra una prontezza, una determinazione e intraprendenza che la storiografia ha sovente ignorato. Nella nascita della Repubblica sociale italiana c’è qualcosa che viene prima e va oltre l’intervento tedesco, ed è l’eredità di un’esperienza politica che pensa di poter fare a meno anche di Mussolini, ma non del prestigio di una nazione che deve continuare la guerra. Altrimenti, risulta difficile spiegare come mai il 9 settembre del 1943, dopo l’annuncio pubblico dell’avvenuto armistizio, i fascisti si riorganizzarono rapidamente, riaprendo le sedi del partito – ora fascista “repubblicano”, in spregio alla monarchia “traditrice” – in tutta l’Italia settentrionale e centrale. Gli iscritti al nuovo partito crebbero in poco tempo: a fine ottobre del ’43 si contavano ventimila iscritti al Pfr a Milano e trentacinquemila a Roma. Si trattava di poche centinaia di uomini, che però reagirono spontaneamente, come mai avevano fatto prima in un regime autoritario di mobilitazione di massa. Più del fascismo come presunta rivoluzione sociale, poté spronarli quel nazionalismo in cui si era infine risolto il tentativo di fascistizzazione della società italiana. Lo sforzo bellico intensificò ed esasperò sentimenti e idealità in strati consistenti della classe dirigente dell’epoca: «i concetti di “onore”, “fedeltà”, “tradimento”, diventarono usuale canone interpretativo delle azioni politiche, per legittimare o delegittimare l’autorità».
Il comportamento del Re provocò una ferita la cui gravità oggi risulta incomprensibile, eppure fu devastante. La rsi rappresentò al tempo stesso un momento di rottura politica ed uno di continuità amministrativa. Ed è proprio sul forte tasso di continuità tra fascismo e postfascismo che il lavoro di Parlato impianta la storia dei fascisti che cominciarono ad operare anche “senza Mussolini”, scoprendo un’inedita autonomia di movimento e di scelta. Anche durante la Repubblica di Salò c’è chi pensò al dopo, a come salvare il salvabile del fascismo-Stato e del fascismo-nazione, individuando potenziali alleati fra tutti coloro che individuavano ormai il comunismo come il nuovo nemico principale. Di qui i contatti del fascismo clandestino al Sud e di settori della rsi con i servizi segreti americani.
L’anticomunismo è la nuova-vecchia risorsa da spendere per ipotizzare un fascismo senza Mussolini. All’epoca il neofascismo è una galassia in cui il nostalgismo non risultava ancora predominante e tale da paralizzare strategie politiche di apertura a uomini e gruppi non-fascisti ma accomunati dall’anticomunismo legalitario, occidentalista (se non proprio filoamericano) e cattolico. Parlato offre una sintesi esplicativa perfetta della complessa morfologia del pluriverso umano e politico neofascista: «Il neofascismo nasce borghese e anticomunista perché il problema principale non è più, come per Mussolini, la necessità di inventare un nuovo rapporto tra popolo e potere, vista la crisi dello Stato liberale, quanto quello di difendere lo Stato borghese – che il fascismo ha validamente contribuito a realizzare e a rafforzare, pur con caratteristiche proprie e peculiari che lo rendono dissimile dalla società liberale classica – dall’attacco collettivistico e marxista». Un simile atto di nascita rivela molto di quel che sarà la successiva vicenda politica del msi, partito legalitario nella prassi ma eversivo nella rappresentazione propria e soprattutto altrui. La sua genesi mostra anche quanto alto fu il tasso di continuità che a vari livelli lo Stato repubblicano mantenne con quello fascista, se un partito di fascisti poté assai presto guadagnare la legalità e la rappresentanza parlamentare in un paese che stava ricostruendosi anche sulla retorica antifascista.
Forse si è troppo spesso letto il passato alla luce del presente: sotto il profilo del suo rapporto col post-fascismo, l’Italia del 1948-1960 non fu affatto simile a quella dei vent’anni successivi. Ce lo mostrerà Parlato in un secondo volume che completerà questa storia delle origini del neofascismo italiano, analizzandone l’evoluzione fino alla soglia degli anni Sessanta.
(c)
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