La
vera storia del generale Lee
di Cristina Missiroli
Ideazione
di luglio-agosto 2006
Dalla
parte di Lee.
La vera storia della guerra di secessione americana
Alberto Pasolini Zanelli
Leonardo Facco Editore, 2006
pp. 208, € 15
Ogni
tanto, da destra, sale il solito lamento: la storia è scritta da
storici di sinistra, piena di versioni tanto corrette politicamente, quanto
false storicamente. Molto spesso pensiamo che sia un problema italiano:
figlio della seconda guerra mondiale, della Resistenza, della guerra civile
che è seguita alla Liberazione eccetera. È vero. Ma non
accade solo in Italia. Il politicamente corretto si è appropriato
della storia in molti paesi. Tramandando luoghi comuni falsi. Persino
in America. Perciò pochi – anche tra i bambini americani
obbligati a studiare la loro storia patria – sanno che i “rivoluzionari”
americani che lottarono per l’indipendenza erano in realtà
dei “conservatori”; che i puritani non hanno mai rubato terre
agli indiani; che la Guerra alla povertà di Kennedy e Johnson in
realtà impoverì il paese; che Joe MacCarty non mandò
nessun comunista in galera ma aveva perfettamente ragione nel denunciare
il tradimento di alcuni cittadini americani e lo si scoprì quarant’anni
dopo, all’apertura degli archivi di Mosca.
Anche la guerra civile americana ha vissuto un po’ la stessa sorte.
Nell’immaginario collettivo si tratta semplicemente della lotta
dei nordisti (buoni) contro i sudisti (cattivi) per abbattere la piaga
della schiavitù. La storia non andò esattamente così,
ma pochi si sono presi la briga di raccontarlo. Il primo importante lavoro
fatto a questo proposito in Italia è senza dubbio la Storia della
guerra civile americana di Raimondo Luraghi. Ma in questi giorni, nelle
librerie, sbarca un nuovo agile volume scritto da Alberto Pasolini Zanelli.
Edito da Leonardo Facco, s’intitola Dalla parte di Lee. La vera
storia della guerra di secessione americana. In appena duecento pagine
racconta, di battaglia in battaglia, la guerra vissuta dalla parte degli
sconfitti e del loro eroe per eccellenza: il generale Robert E. Lee.
La scelta di Pasolini Zanelli non è una provocazione. Se mai vi
troverete a sfogliare l’album da disegno di un bambino della Virginia
o del Texas, potete scommetterci, vi troverete il ritratto di un soldato
dalla barba bianca, che cavalca un maestoso stallone grigio. È
Lee sul suo cavallo Traveller. Non stupitevi. Perché se la sconfitta
ha un fascino, nessuno l’incarna meglio del generale che guidò
le truppe sudiste fino a sfiorare la vittoria nella guerra civile americana.
In un conflitto che era perduto in partenza, quell’uomo a cavallo
tenne in scacco per quattro anni la portentosa macchina militare e industriale
del Nord. E rimane nell’immaginario collettivo (non solo sudista)
un eroe americano.
Il libro di Pasolini Zanelli si legge come un romanzo e che ha almeno
un grande merito. Quello di sfatare il mito della guerra contro la schiavitù.
Non si tratta di revisionismo. Semplicemente il legame tra la guerra e
la lotta allo schiavismo è molto più labile di quel che
pensiamo. Il presidente Abraham Lincoln non fu mai un abolizionista e
promise sempre di rispettare i diritti degli Stati che intendevano preservare
la “peculiare istituzione” (così si chiamava eufemisticamente
nei dibattiti politici la schiavitù). Diceva infatti: «Non
ho il diritto legale di abolire la schiavitù negli Stati in cui
esiste, né ho il desiderio di farlo». E ancora: «Se
per preservare l’Unione occorre mantenere la schiavitù lo
farò, se occorrerà abolirla la abolirò». Insomma
la guerra che unionisti e confederati combatterono era per “l’integrità
della nazione”, non per liberare gli schiavi. Basta leggere il testo
dell’Atto di emancipazione (22 settembre 1862) con cui il presidente
annunciava ai membri del Congresso la fine dello schiavismo. Recita testualmente:
«Dal primo giorno di gennaio dell’Anno del Signore 1863 tutte
le persone tenute in schiavitù in ogni Stato o parte di Stato in
ribellione contro gli Stati Uniti saranno per sempre libere». La
proclamazione di libertà, dunque, non includeva gli schiavi che
vivessero negli Stati non secessionisti. E persino il quotidiano londinese
Spectator osservò: «Il principio di Mr. Lincoln non è
che un essere umano non ha diritto di possederne un altro: è che
perde questo diritto se non è fedele all’Unione». Il
terreno dello scontro tra Nord e Sud era, dunque, un altro. Riguardava
la natura del vincolo che legava le ex colonie tra loro in Federazione.
Riguardava lo scopo dell’Unione e la fonte della sua legittimazione.
Chi aveva il diritto di prendere decisioni, gli Stati o il governo federale?
Il governo di Washington era un mandatario degli Stati, oppure era il
vertice della piramide americana? Per esempio, il governo centrale poteva
decidere una politica protezionista di alti dazi per proteggere l’industria
nascente del Nord danneggiando gli Stati del Sud che vivevano di mercato
e chiedevano una politica basata sul mercato più aperto?
A metà dell’Ottocento, si scontrarono in America due visioni
politiche, due interessi contrastanti, due stili di vita. La posta in
gioco era il futuro degli Stati Uniti d’America come federazione
o semplice confederazione di Stati sovrani e indipendenti. E l’atto
di emancipazione di Lincoln fornì alla guerra quella motivazione
morale di cui gli americani hanno sempre bisogno per accettare di combattere.
Nulla di più.
La guerra che ne scaturì fu una guerra totale che distrusse totalmente.
Distrusse una generazione, una nazione, un mondo. Il dopoguerra, per gli
Stati confederati sconfitti, durò un secolo. Un secolo di povertà,
umiliazione e “rieducazione”. Un secolo che finì dopo
la seconda guerra mondiale, quando l’industria dal Nord si spostò
a Sud attirata dai bassi salari. Sbocciarono soprattutto le tecnologie
più nuove. Accadde così che gli uomini che camminarono sulla
Luna partirono da Cape Canaveral, in Florida, su astronavi concepite a
Hunstville, in Alabama, guidate dal centro di Houston, in Texas. Ma quello
di oggi è tutto un altro Sud. Scrive Pasolini Zanelli, «la
guerra delle parole sulla guerra di secessione continua e il Sud non la
sta vincendo. Aveva ottenuto, e ora sta perdendo, il riconoscimento che
la schiavitù non fu il solo e neppure il primo cemento della Confederazione.
La controversia che fu decisiva, quella tra i diritti costituzionali degli
Stati e il potere dell’Unione, torna ad essere emarginata».
E alla fine gli uomini del Sud «vengono persuasi che il loro passato
non può essere ricordato con rispetto o rivendicato perché
include anche la ritardata abolizione della schiavitù. E visto
che sul marmo della memoria c’è quella macchia, non si possono
erigere monumenti». O meglio, non si potrebbero erigere monumenti.
Perché in verità, nel profondo Sud, le statue del generale
Lee decorano ancora mille e mille piazze e la bandiera di Dixie sventola
imperiosa su molti edifici pubblici, ricordo orgoglioso di un mondo scomparso.
(c)
Ideazione.com (2006)
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