Trilogia
del declino
di Giuseppe Pennisi
Ideazione
di maggio-giugno 2006
L’imbroglio
fiscale
Roberto Petrini
Laterza,
Roma-Bari, 2006
pp. 170, € 14
I
libri di Roberto Petrini, giornalista e saggista, sono ben scritti e ben
documentati e, pur non essendo economista o tributarista di professione,
egli sa dove fermare la propria analisi prima di addentrarsi in labirinti
troppo oscuri. L’imbroglio fiscale è il terzo volume di una
trilogia dedicata alla politica del centrodestra al governo. Nel primolibro
(Il grande bluff del 2002), Petrini criticava il programma macro-economico
sostenendo che non sarebbe stato attuato in quanto irrealizzabile e contraddittorio.
Nel secondo (Il declino dell’Italia del 2004) si rivolgeva alla
politica industriale, o meglio a quella che definiva essere mancanza di
politica industriale. Il terzo riguarda le tasse ed i tributi. È
tema particolarmente ostico per i non specialisti; tuttavia, Petrini ha
consultato un vasto numero di professori di scienza delle finanze e di
diritto tributario che appartengono, però, quasi tutti alla stessa
scuola – quella che nella seconda metà degli anni Novanta
ha lavorato alle riforme dell’allora ministro Vincenzo Visco (dit,
irap) smantellate dal governo Berlusconi (anche su richiesta dell’Unione
Europea).
Nel libro si respira un profumo di nostalgia; il fascino discreto delle
“riforme Visco” attrae ancora e potrebbe diventare ammaliatore
di un nuovo governo di centrosinistra. Sarebbe, però, errato pensare
che questo sia il punto centrale del saggio. Il tema principale è
la mancata realizzazione delle promesse in materia di riduzione e di semplificazione
del sistema tributario. Sono argomenti sui quali si possono avere punti
di vista differenti ed addirittura divergenti. La risposta implicita alle
critiche di Petrini è che, da un lato, non si è dato sufficientemente
tempo ai nuovi meccanismi per funzionare e, dall’altro, l’Alta
commissione sul federalismo fiscale ha appena terminato i suoi lavori.
In uno scenario controfattuale, se un nuovo esecutivo ed un nuovo Parlamento
ricominceranno dall’anno zero (reintroducendo la dit e qualche forma
di irap, nonché aumentando l’imposizione sulle rendite finanziarie
e intrufolando una patrimoniale), si tornerebbe all’indietro molto
di più di quanto non si sia fatto con le riforme (in gran misura
a metà) degli ultimi anni. Ciò non toglie che le critiche
di Petrini agli ondeggiamenti di esecutivo e Parlamento non sono affatto
fuori luogo.
Nelle ultime pagine, Petrini dà sfoggio alla sua convinzione di
fondo: l’alta pressione tributaria è indicatore di sviluppo
poiché consente una forte funzione ridistribuiva allo Stato ed
il funzionamento di servizi per la promozione del capitale umano e sociale
in tutti i suoi aspetti: non per nulla – afferma nelle ultime pagine
– sono i paesi in via di sviluppo ad esporre una pressione tributaria
appena pari al 15 per cento del pil. Ciò non tiene conto che, negli
anni Settanta, uno dei rari marxisti americani, James O’Connor,
ha teorizzato la crisi fiscale dello Stato innescata da sempre maggiori
richieste di intervento pubblico su individui, famiglie ed imprese con
sempre minore capacità contributiva proprio perché schiacciati
dal fisco. In una raccolta di saggi sulla “disoccupazione di fine
secolo”, un economista italiano non certo contiguo al centrodestra,
il vicedirettore generale della Banca d’Italia Pierluigi Ciocca,
circa quindici anni fa, aveva con preveggenza messo il dito sull’aspetto
chiave: la Vecchia Europa (con una pressione fiscale pari a circa il 45
per cento del pil) è costretta a competere con usa e Canada (la
cui pressione fiscale è sul 30 per cento del pil) e con paesi asiatici
(la cui pressione fiscale non sfiora il 15 per cento del pil). L’alta
pressione tributaria, quindi, a mio avviso, è una delle determinanti
del declino.
(c)
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