Le
radici del declino
di Giuseppe Pennisi
Ideazione
di luglio-agosto 2006
Lo
spettro della competitività:
le radici istituzionali del declino italiano
Raimondo Cubeddu, Alberto Vannucci
Rubbettino,
Soveria Mannelli (CZ),
2006, pp. 350, € 23
Da
quarant’anni gli economisti italiani (o quanto meno gran parte degli
appartenenti alla categoria) si interessano specialmente ai fenomeni di
breve e medio periodo a ragione della profonda influenza, nella loro formazione,
del pensiero neo-keynesiano e della sintesi neo-classica, nonché
dell’urgenza di temi e problemi a breve e medio termine nel dibattito
di politica economica italiana. Una ristretta pattuglia segue ancora il
pensiero classico, interessato principalmente alla crescita di lungo periodo
ed alle sue determinanti. Ancora meno numeroso il gruppo di coloro che
hanno metabolizzato gli insegnamenti di base della scuola neo-istituzionale
(dall’economia dei costi di transazione, all’economia dell’informazione,
alla law & economics, alla nuova impostazione data alla storia ed
alla storiografia economica). Questa premessa a carattere metodologico
è essenziale per spiegare le determinanti della caratteristica
che ha assunto la vasta (nonché in parte ripetitiva ed in parte
contraddittoria) pubblicistica sul declino dell’economia italiana
degli ultimi anni. Sia che ne fossero autori economisti di professione
sia che venissero dalla penna di giornalisti economici (con una solida
preparazione nella disciplina), l’accento è sugli ultimi
cinque-dieci anni e le responsabilità vengono attribuite, in gran
misura, alla dodicesima ed alla quattordicesima legislatura, leggendo
la tredicesima come una parentesi dedicata a raddrizzare le radici del
declino apparentemente poste nei due anni della dodicesima legislatura.
Pare dimenticato il principio (di vasta applicazione anche nelle analisi
di breve e medio termine) di time lag, ossia di divario temporale tra
un’azione di politica economica e le sue conseguenze e soprattutto
il messaggio di fondo della scuola neo-istituzionale sul rilievo delle
regole implicite e delle prassi (sedimentatesi nella memoria storica dei
soggetti economici) nei comportamenti di individui, famiglie, imprese,
pubbliche amministrazioni, organi politici a tutti i livelli.
Il merito principale di questo saggio, scritto da un politologo e da un
filosofo, (Alberto Vannucci e Raimondo Cubeddu), è di colmare il
grande vuoto lasciato da quasi tutti gli economisti italiani – ci
sono state eccezioni, ad esempio, in alcuni saggi apparsi sin dalla fine
degli anni Novanta ne La rivista di politica economica – in materia
di declino dell’economia italiana e delle sue radici. È un
libro che, quindi, deve fare riflettere gli economisti: mentre inseguivano
l’ultimo algoritmo sulle aspettative razionali o sulla teoria dell’incertezza,
perdevano di vista le determinanti più profonde politico-istituzionali
della perdita di competitività e, quindi, del declino – proprio
quelle radici che secondo Premi Nobel per l’Economia come Douglas
North e Robert Fogel sono alla base della crescita, o dell’arretramento,
delle nazioni.
Il libro prende avvio dalla “certificazione” del declino da
parte di varie istituzioni internazionali, distinte e distanti dalle nostre
beghe di bottega. Il declino è in atto, da almeno un paio di lustri
e riguarda tutti i settori economici di rilievo, nonostante i peana innalzati
nelle ultime settimane al più piccolo tremolio in positivo degli
andamenti del pil. Nelle 350 pagine a stampa fitta del volume vengono
analizzati in dettaglio i dati sulla perdita di competitività dell’Italia
negli ultimi lustri e la letteratura economica (specialmente i confronti
internazionali) ad essa afferente.
Il libro, però, non è una rassegna (pur se con l’ottica
al tempo stesso specifica ed originale della scuola economica neo-istituzionali)
di quanto già scritto. È un contributo importante sia per
l’analisi delle determinanti politico-istituzionali di lungo periodo,
sia su alcuni punti specifici (ad esempio, l’analisi dell’innovazione
parassitaria a cui hanno contribuito numerose leggi di agevolazione),
sia ancora sul tema generale di come fare sì che la macchina pubblica
(pa e non solo) diventi da determinante di costi di transazione (e freni
al sistemi) il motore per il rilancio della competitività. Viene
delineata una strategia in nove punti: la riduzione dello stock normativo
(ossia la pletora di leggi) in essere; la riforma delle procedure per
concessioni, licenze ed autorizzazioni; lo snellimento dei tempi delle
privatizzazioni e soprattutto delle liberalizzazioni; la riforma del sistema
degli ordini professionali; il miglioramento dei servizi della PA; la
crescita di efficienza del sistema giudiziario; la modernizzazione dell’istruzione
di base; un nuovo modello di corporate governance; un’applicazione
estensiva dell’itc per rendere il sistema più efficiente
e più trasparente. Un programma, in breve, di legislatura.
(c)
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