Daniele Barillà, un altro caso Tortora
di Dimitri Buffa

Ideazione di gennaio-febbraio 2006

L’uomo sbagliato
Stefano Zurlo

Edizioni Eri, Albatross, 2005
pp. 125, € 14

«L’amministrazione mi vorrebbe liquidare tutti e quattro i milioni di euro che ho richiesto, so che tempo fa Tremonti aveva anche chiesto ai giudici di non opporsi, e invece non riesco a venire risarcito». Daniele Barillà probabilmente avrebbe fatto a meno di diventare famoso nella vita se gli avessero detto che la sua storia avrebbe avuto un epilogo in un parziale lieto fine dopo sette anni e mezzo di carcere. Ma si è trovato a giocare con il coltello dalla parte della lama e ha fatto quello che ha potuto. Oggi non vive più in Italia, anche se dichiara ancora di credere nella giustizia, ma in Francia con un figlio, senza lavoro e con quei pochi soldi che sinora gli sono stati rimborsati per essere stato “l’uomo sbagliato” nel paese la cui giustizia è la più condannata d’Europa. Un caso giudiziario paragonabile solo a quello di Enzo Tortora, eppure Daniele Barillà, nonostante sette anni passati in carcere da innocente, ancora oggi è un ottimista. Ce lo racconta Stefano Zurlo, il cronista che non poco lo aiutò a vincere le apparenze che determinarono uno dei più gravi errori giudiziari della già strampalata giustizia italiana.
Zurlo è l’autore di un libro prodotto da Albatross e dalle Edizioni Eri della Rai, L’uomo sbagliato, da cui lo scorso aprile venne tratto uno sceneggiato che ebbe grande successo di pubblico.
Lo Stato nel frattempo ancora deve risarcire Barillà, per avergli distrutto la vita scambiandolo per un narcotrafficante durante un pedinamento a un boss che aveva una macchina identica alla sua e che differiva solo per alcuni numeri della targa. Ma Barillà, mesi fa, durante la conferenza stampa della fiction Rai dedicata alla sua vicenda, cosa disse davanti ai giornalisti che non credevano alle proprie orecchie? Che aveva sempre «avuto fiducia nella giustizia». Quando stava in galera, sia nei primi giorni dopo l’arresto sia quando venne ignobilmente pestato perché facesse i nomi di complici che in realtà non aveva. E anche in seguito quando subì una dietro l’altra tre ingiuste condanne nei rispettivi gradi di giudizio.
Oggi, dopo essere riuscito ad avere ragione in un processo di revisione dibattimentale che nel nostro paese non conta più di cinquanta casi negli ultimi trent’anni, solo dieci dei quali conclusi a favore degli imputati ricorrenti, constata l’indisponibilità della burocrazia statale nel voler mettere mano al portafoglio e pagargli quattro miseri milioni di euro che certo non gli resusciteranno la madre morta. Né gli ridaranno l’azienda di componenti per i motorini, o il cane che si lasciò morire di fame dopo l’arresto. Per fare capire l’infamità di questa storia, basta pensare che i pentiti di mafia scagionavano Barillà, ma non vennero ascoltati, perché i collaboranti in Italia sono considerati brave persone solo quando accusano Berlusconi.

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