Lettera aperta a Berlusconi
di Christian Rocca
Ideazione di luglio-agosto 2005
Egregio presidente Silvio Berlusconi, probabilmente non ha mai sentito parlare
di William Baroody, di Joseph Coors, di Richard Mellon Scaife, di David
e Charles Koch, di Lynde e Harry Bradley e, soprattutto, di John Merrill
Olin. È un gran peccato. Non tanto e non solo per lei, gentile presidente.
Ma per tutti noi. Se li appunti questi nomi, le potrebbero tornare utili
se un giorno avvertisse il bisogno di stupire ancora una volta, se volesse
davvero passare alla storia e incidere nella politica italiana ben più
che con il record di permanenza a Palazzo Chigi. Mi permetto di suggerirle
questi nomi, gentile presidente, perché in un certo senso si tratta
di suoi colleghi: sono businessmen americani molto ricchi e pieni di talento,
creatori o eredi di fortune sconfinate, anche se mai quanto le sue. Questi
signori condividono con lei una passione per il libero mercato, per la libera
intrapresa, per il libero commercio e per la non ingerenza dello Stato nelle
faccende private e delle aziende.
Come lei, sanno che se l’antagonismo di sinistra entrasse nella stanza
dei bottoni farebbe parecchi danni sia allo Stato sia alle imprese, quindi
alla società e ai cittadini. Questi signori, gentile presidente,
sono della sua stessa pasta: come lei sono cresciuti nella trincea del lavoro,
come lei hanno creato ricchezza e benessere per sé, quindi per gli
altri. Come lei, combattono l’asfittica egemonia culturale della sinistra,
ma hanno fatto una scelta diversa dalla sua, tempestiva e sacrosanta, del
1994: loro non sono mai scesi in campo. Non ne avevano bisogno. In America
non c’è stata una rivoluzione giudiziaria che ha fatto fuori
soltanto una parte della classe dirigente della Prima Repubblica. In America
non c’è alcun pericolo comunista, neanche socialista e neanche
socialdemocratico. Questi suoi colleghi americani non hanno speso i loro
soldi per fondare Forza America o qualcosa di simile. Li hanno investiti
sulla forza dell’America, che altra non è se non quella di
essere la più formidabile fabbrica di idee del pianeta. Questi signori
hanno sganciato denaro di tasca propria per finanziare centri studi, fondazioni
e cattedre universitarie che sono riusciti a ribaltare l’egemonia
culturale della sinistra e a riorientare l’agenda politica del paese.
Ci sono voluti trent’anni, ma l’esito dell’investimento
è straordinario. Guardi soltanto ai risultati elettorali: nelle ultime
dieci elezioni presidenziali americane, dal 1968 a oggi, i Repubblicani
hanno vinto sette volte, mentre le tre volte in cui hanno perso è
successo quasi per caso, per colpa di scandali, di candidati deboli o di
divisioni nell’arcipelago conservatore. Nel 1976, infatti, il presidente
Gerald Ford fu sconfitto più dal fatto di essere subentrato al dimissionario
Richard Nixon che dalle idee di Jimmy Carter. Tanto più che, quattro
anni prima, Ford non era stato neppure eletto vicepresidente di Nixon, ma
era subentrato anche al vice di Nixon, cioè a Spiro T. Agnew, anch’egli
dimessosi per uno scandalo. Poi ci fu il Watergate. Avversario e condizioni
più facili non ci potevano essere per i Democratici. Eppure, nonostante
un candidato del Sud, devotissimo al Signore e amato dagli evangelici, presero
soltanto il 50,1 per cento contro il 48 del debole Ford. L’altro vincitore
democratico è stato Bill Clinton, nel 1992 e nel 1996. Clinton, anch’egli
governatore battista del Sud, non è mai riuscito a conquistare la
maggioranza dei voti, neanche il giorno della rielezione. La prima volta
fu eletto soltanto perché i conservatori presentarono due candidati:
Bush padre (che conquistò il 37 per cento) e Ross Perot (19 per cento).
Quattro anni dopo, Clinton sconfisse Bob Dole soltanto con il 49 per cento.
Gentile presidente, lei magari riuscirà anche a vincere le prossime
elezioni. Lei è certamente più bravo e più furbo dei
suoi avversari, dunque non le sarà impossibile tornare a Palazzo
Chigi o magari trasferirsi al Quirinale. Lei ha i mezzi e le capacità,
ed è già riuscito a fare i miracoli con le pizze e con i fichi
che le passa il convento e che si ritrova intorno. Ma allo stesso tempo,
ci pensi bene: lei è soltanto una meteora. Un outsider. Un uomo politico
senza eredi. Le sue idee, signor presidente, sono legate alla sua persona
e alla sua fortuna. E già adesso scricchiolano ogni qualvolta un
Follini o un Fini o un Casini o un Buttiglione prova a fare la faccia feroce.
Quando deciderà di ritirarsi, caro presidente, non avrà nessuno
a cui passare lo scettro. Non resterà niente. Non potrà restare
niente. Sarà cancellato e liquidato come un’altra parentesi
della storia italiana.
I suoi colleghi americani, invece, non hanno avuto problemi di questo tipo:
sono diventati maggioranza culturale, sociale e politica nel paese. Lo spiega
mirabilmente un libro che la sua Mondadori ha appena tradotto dall’inglese,
sia pure in colpevole ritardo e con un titolo così orrendo che reputo
offensivo ripetere (in originale è The Right Nation). I suoi colleghi
americani, insomma, non si sono accontentati di vincere una volta o due
e poi tirare a campare. Hanno provato a cambiare l’America e ci sono
riusciti, al punto che la più importante delle fondazioni di cui
le dicevo all’inizio, la Olin Foundation, ha appena deciso di chiudere
bottega per l’esaurimento della propria ragione sociale: l’obiettivo
è stato raggiunto. Il vecchio John Olin era stato chiaro con i suoi:
voglio che spendiate i miei soldi entro una generazione. Detto e fatto.
John e sua moglie Evelyn, mentre erano in vita, hanno sborsato 145 milioni
di dollari. Dal 1982 la Fondazione ha finanziato libri, progetti, giornali,
riviste, centri studi, ricerche, corsi, dottorati, borse di studio, associazioni
di avvocati e club letterari per un totale di 380 milioni di dollari. I
soldi di John Olin hanno finanziato la Heritage Foundation, cioè
il serbatoio di idee della rivoluzione liberale reaganiana, e l’American
Enterprise, il fulcro dell’attuale era bushiana. Sono università
senza studenti, templi del sapere e delle sue applicazioni pratiche. Sono
fabbriche che producono pensiero. Sono la forza degli Stati Uniti.
L’idea che tagliare le tasse è uno strumento per rilanciare
l’economia è stata finanziata con i soldi di John Olin. E oggi
nessun politico americano ha il coraggio di sostenere il contrario. Se nel
1994 l’avesse fatto anche lei, caro presidente, oggi si troverebbe
con un mucchio di guai in meno. Sono stati i soldi di John Olin a creare
il Centro per la Democrazia di Chicago, dove sono cresciute le menti più
lucide dell’America odierna. Sono stati i soldi di John Olin a trasformare
le coltissime lezioni del professor Allan Bloom e poi le tesi di Charles
Murray in straordinari best seller che hanno cambiato i connotati del dibattito
culturale e sociale americano.
Mi chiedo, anzi le chiedo, perché non prova a fare lo stesso in Italia?
Perché non tenta di rivoluzionare il nostro paese fin dalle fondamenta,
specie ora che s’è accorto che da solo non ce la può
fare e che nella stanza dei bottoni, i bottoni non ci sono? Perché
non comincia a finanziare think tank seri, quindi diversi dai contenitori
buoni soltanto per le passerelle mondane che abbiamo oggi in Italia? Perché
non finanzia con borse di studio e sovvenzioni individuali giovani ricercatori
che producano papers, documenti e idee alternative a quelle che ci fornisce
l’establishment intellettuale? Perché non usa una piccolissima
parte del suo impero mediatico per fare la rivoluzione liberale? Si tratta
certamente di un impegno generazionale, ma non crede che sia ben più
utile di un orizzonte che non supera la più ravvicinata scadenza
elettorale? Probabilmente rinunciare all’ennesimo Bonolis le farebbe
guadagnare di meno, ma è sicuro che non ne valga la pena? Crede,
per esempio, che il suo amico Murdoch, e parlo dello Squalo Murdoch, non
abbia calcolato al centesimo quanto sia conveniente perdere quei milioni
di dollari che perde per pubblicare un giornale influente come il Weekly
Standard?
Perché, ad esempio, non lancia sul mercato un newsmagazine autorevole
e di alto livello come l’Economist o il New Yorker? Perché
non fonda una specie di Radio Radicale televisiva che faccia servizio pubblico
come si deve? Mi domando, anzi le domando, perché non apre una sezione
della sua casa editrice dedicata a libri che non siano soltanto favori ad
amici o barzellette su Totti o su Bush o di Michael Moore? Ancora: le pare
sensato che le sue televisioni siano le uniche del mondo occidentale a non
avere uffici di corrispondenza negli Stati Uniti? Non crede che ciò
possa spiegare l’esplosione di bandiere arcobaleno sulle finestre
dei nostri palazzi? Le pare normale che il suo Giornale abbia inaugurato
il sito Internet soltanto qualche settimana fa? Com’è possibile
che nessuno dei suoi collaboratori sia corso a farsi spiegare dal gruppo
di Ideazione le potenzialità della blog revolution?
Io non l’ho mai votata, signor presidente. Ma le scrivo questa lettera
perché credo che lei sia l’unico in grado di poter seguire
l’esempio dei suoi colleghi americani e aiutare l’Italia a diventare
un paese pienamente liberale, purché si ricordi che il conservatorismo
americano è rivolto al futuro, visto che l’unica cosa che vuole
conservare è la libertà. Con una sola frase, insomma, le chiedo
di far confliggere i suoi interessi economici con i suoi interessi politici.
E di far prevalere questi ultimi. Si guadagnerà la fama di statista
e nel lungo termine non sarà il suo unico guadagno.
Christian Rocca,
giornalista e saggista è inviato speciale de Il Foglio. È
titolare del blog Camillo.
(c)
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