Ci
sono intellettuali e intellettuali. Alcuni vendono bene i propri prodotti
e inseguono il sogno di una repentina popolarità accarezzando la
scommessa del conformismo ideologico. Altri, invece, coltivano pazientemente
idee magari fuori moda, forse estranee a quello che il consesso dei sapienti
ha stabilito essere degno di considerazione, ma per nulla inattuali.
Peter Bauer (1915-2002) rientra senza dubbio in quest’ultima categoria.
Ungherese di nascita, inglese di adozione, Bauer, liberista adamantino,
assunse il ruolo del bastiancontrario, schivando perennemente e serenamente
le nubi del politicamente corretto e le favole fuori tempo massimo balbettate
dai fiancheggiatori della pianificazione. Bastiancontrario Bauer lo fu
per quella sua instancabile volontà di sfidare il rosario delle
certezze ammuffite degli anticapitalisti ad oltranza, di coloro che si
illudevano che un comitato centrale avrebbe inevitabilmente restituito
ordine al caotico universo della cosiddetta “anarchia” della
produzione capitalista. Nulla di più falso, eppure, mentre oggi
pronunciarsi fieri avversari delle insidie del comunismo può sembrare
un gioco facile facile, un due più due che fa quattro, all’epoca
in cui Bauer si conquistò una cattedra presso la London School
of Economics, queste verità potevano al massimo essere sussurrate
a mezza bocca.
Lord Bauer offrì un contributo del tutto particolare alla causa
del liberalismo classico, di chi riconosce nello Stato minimo e nel libero
scambio le condizioni essenziali per la fioritura della civiltà:
la sua attenzione si rivolse infatti alla development economics un ramo
dell’economia dominato, negli anni Sessanta e Settanta, dalle vestali
del collettivismo. Al tempo, l’ortodossia galleggiava sulle coordinate
del foreign aid come antidoto alla malattia del sottosviluppo, convinta
della necessità di corpose trasfusioni di denaro dai paesi ricchi
al Terzo Mondo per spezzare il «circolo vizioso del sottosviluppo».
Tuttavia, se oggi un numero sempre crescente di esperti comincia a dubitare
dell’efficacia dell’aiuto in moneta e se perfino i policy-makers
si sono resi conti che l’elargizione di denaro da parte delle nazioni
occidentali non può bastare per sanare il dramma della povertà
e, infine, che l’abbattimento dei dazi e l’apertura dei mercati
sono fattori fondamentali per lo sviluppo, lo dobbiamo in gran parte alla
lezione di Peter Bauer, che finirà per essere definito dall’Economist
come l’«Hayek dell’economia dello sviluppo». Un
giudizio lusinghiero ma non esagerato. Il settimanale inglese ha sottolineato
infatti che, se Hayek ha anticipato il crollo dell’economia pianificata
e ci ha costretto a stropicciare gli occhi di fronte all’orrore
del totalitarismo, Lord Bauer ha svelato la triste realtà del terzomondismo.
Sviluppo
e proprietà privata
I suoi
primi lavori, The Rubber Industry (1948) e West African Trade (1954),
propongono uno dei temi chiave della riflessione di Bauer, che verrà
poi riproposto e approfondito nel suo testo capitale, From Subsistence
to Exchange: la proprietà privata e lo scambio come elementi imprescindibili
per affrancare le nazioni arretrate dall’inverno dell’indigenza.
Al contrario, non c’è alcuna moderazione o “tatto”
nel criticare la superstizione del piano, che è una grave minaccia
alla libertà individuale nonché un clamoroso abbaglio dal
punto di vista economico, ma che Bauer ritiene essere anche figlia di
quella indifferenza verso la realtà che caratterizza la contemporaneità.
Da questo fenomeno discende anche quell’altra “indifferenza”
che, in quanto economista dello sviluppo, vede con occhio privilegiato
e che intuisce minare le possibilità di crescita delle popolazioni
povere: l’indifferenza – appunto – verso il commercio
e il ruolo che esso ha nell’espandere «il raggio delle scelte
individuali». Per lo studioso inglese dev’essere questo il
fine dello sviluppo economico. Tuttavia, Bauer non scivola mai nella confusione
tipicamente moderna fra “potere” e “libertà”.
In altre parole, la nozione di libertà come assenza di coercizione,
che è poi il nucleo concettuale attorno al quale ha ruotato il
liberalismo classico e che è stato riscoperto in anni recenti da
pensatori come Murray N. Rothbard e Hans-Hermann Hoppe, non va accostata
a quella di “opportunità” come enumerazione di più
stili di vita alternativi che possono essere condotti.
La libertà, insomma, è eminentemente negativa e lo si evince
ancor meglio dalla rigorosa delimitazione dei compiti dello Stato che
egli avanza: la protezione delle persone e della proprietà. Ogni
estensione dell’azione dello Stato oltre la sua funzione di “guardiano
notturno” costituisce un’indebita manomissione dell’ingranaggio
del mercato e una palmare violazione dello spazio destinato alle libere
decisioni private. Bauer, sulla falsariga dell’Hayek di The Road
to Serfdom, è perfettamente consapevole, in primo luogo, dell’inferiorità
morale del collettivismo rispetto al libero mercato e, da ultimo, dei
pericoli che accerchiano il destino della libertà individuale.
Il fine ultimo dei pianificatori non era tanto o, perlomeno, non solo
quello di controllare l’economia, bensì di rifare la società.
La «religiosità secolarizzata e millenaristica» del
dogma comunista era già stata opportunamente messa in evidenza
dallo stesso Bauer, il quale non manca neppure di criticare minuziosamente
le giustificazioni economiche e “scientifiche” avanzate a
favore dell’economia di piano, scrutandole soprattutto dal punto
di vista dell’economia dello sviluppo.
Sviluppo
e crescita demografica
Nel
libro che meglio esprime le opinioni di Bauer sui temi del suo tempo,
From Subsistence to Exchange, lo studioso inglese non esita a sbriciolare
alcuni dei miti più radicati nelle fila delle accademie filo-socialiste
e del progressismo di matrice sessantottina. Un delicato argomento affrontato
in quelle pagine è, ad esempio, quello del controllo delle nascite.
Bauer non si schierò mai a fianco dell’intellighenzia per
proclamare la necessità di fermare la crescita demografica. È
piuttosto una prerogativa dei genitori quella di decidere se dare alla
luce o meno dei figli. Il che non significa che questo diritto delle famiglie
avrà conseguenze negative per la società. In primo luogo,
avere degli eredi può spingere gli individui ad aumentare la produttività
e, al fine di garantire un futuro più sereno ai primi, accrescere
il tasso di risparmio, che è poi la benzina dello sviluppo economico.
Malthus viene messo a testa in giù: il pericolo di malnutrizioni
e di mancanza di risorse come conseguenza di una “eccessiva”
espansione della popolazione non è annotabile in paesi ad alto
sviluppo economico e, contemporaneamente, elevata densità demografica,
come Taiwan, Singapore ed Hong Kong. Sono piuttosto le regioni sottosviluppate
ad essere vittime delle carestie, a causa di un uso meno efficiente della
terra e di una cultura della sussistenza che fermenta anche grazie alle
restrizioni al commercio con l’Occidente. La ragione per cui nazioni
meno sviluppate emergono dalla povertà, allora, può essere
proprio la crescita della popolazione, perché essa promuove la
formazione di nuovi consumatori e di nuovi produttori, accrescendo la
divisione del lavoro. Non solo. Bauer è particolarmente critico
verso coloro che pretendono di decidere che cosa sia utile o meno per
i singoli individui. Di fronte ad esperti che proclamano che la nascita
di un figlio va a detrimento dell’utilità sociale e del benessere
individuale, egli ricorda che la felicità non può essere
oggettivamente definita, non riesce ad essere ingabbiata in diagrammi
e curve. C’è un sapore di paradossalità in chi sventola
la bandiera del contraccettivo libero: da un lato, si proclama che l’Occidente
non dovrebbe “violare” le altre culture, bensì porgere
loro solo un garbato omaggio (o, in casi estremi, una venerazione piuttosto
pedante); dall’altro, si vuole imporre ai paesi più arretrati
uno standard morale esterno, quello del controllo della popolazione, appunto.
È il foreign aid, tuttavia, la grande leggenda che Bauer smonta
pezzo per pezzo, in un bellissimo capitolo ricco di spunti. Comincia anzitutto
ricordando come, in realtà, l’aid costituisca solo un trasferimento
di ricchezza e non un aiuto vero e proprio. La precisazione linguistica
ha un risvolto politico: l’aid non allevia le sofferenze dei poveri
da pubblicità, che fanno capolino nei giornali o negli spot televisivi,
ma finisce nelle tasche di governi corrotti e liberticidi. È la
meccanica del processo decisionale che conduce a questa triste conclusione:
sono i governi che si scambiano moneta, non c’è rapporto
diretto fra bisognosi e donatori. Lo Stato si scopre Robin Hood all’incontrario:
trasferisce denaro dai poveri dei paesi ricchi ai ricchi dei paesi poveri.
Inoltre, il Terzo Mondo non esiste: non c’è un blocco unico
che agisce come un sol uomo, con un’unica volontà, è
semplicemente una nozione funzionale alla politica dell’estorsione
di denaro ai contribuenti occidentali. Eppure, la retorica del foreign
aid si fa scudo di una muraglia intellettuale, esibisce scientificità
ed avanza pretese: più reddito, più risparmio; più
risparmio, più investimenti; più investimenti, più
crescita; è questa la posizione dominante. A prescindere dal fatto
che questo punto di vista confonde risparmio e denaro, Bauer evidenzia
come il risparmio sia possibile anche a partire da attività su
piccola scala, senza bisogno di alluvioni monetarie. Altrimenti, non saremmo
in grado di spiegare uno degli eventi più straordinari degli ultimi
secoli: la Rivoluzione Industriale. Anzi, se adottassimo la famigerata
teoria del “circolo vizioso della povertà” non saremmo
neppure in grado di capire come gli esseri umani abbiano potuto progredire,
visto che il mondo è un sistema chiuso che non ha ricevuto aiuti.
Avere denaro, sottolinea Bauer, è il risultato e non la precondizione
dello sviluppo.
Contrariamente a quel che si pensa, l’aid costringe le popolazioni
dei paesi arretrati a mantenersi in una condizione di povertà per
due ragioni: crea dipendenza ed instilla l’idea che il progresso
economico sia possibile non già grazie ai propri sforzi, alle proprie
motivazioni, ma ai sussidi concessi da altri. C’è un altro
motivo: il foreign aid garantisce a regimi dittatoriali di perpetuare
il loro potere, messo altrimenti in serio pericolo da politiche palesemente
dannose. L’aid, infine, è alla radice di un fenomeno a cui
ogni liberista guarda con preoccupazione: la politicizzazione della vita,
l’equazione deleteria fra società e Stato. Gli individui
sono incentivati a prestare meno attenzione all’attività
produttiva e a concentrarsi sugli esiti del processo politico, minando
le basi della crescita.
Ben più che sulle giustificazioni economiche, l’aid riposa
sul senso di colpa degli occidentali. Solo che questa colpevolizzazione
intransigente dell’Occidente non regge. La povertà dell’Africa
non è conseguenza della ricchezza dell’Europa o dell’America;
è, semmai, il segnale di un uso errato delle risorse da parte delle
popolazioni africane. È piuttosto il (poco) commercio con le nazioni
ricche ad aver contribuito al progresso materiale dei paesi poveri. La
marcata differenziazione di reddito fra paesi sviluppati e paesi arretrati
non può essere ricondotta a un presunto sfruttamento dei primi
nei confronti dei secondi, perché il commercio non è un
gioco a somma zero, quanto piuttosto un processo in cui ogni attore viene
retribuito a seconda del valore che produce per la società.
Questa enfasi sul mercato come processo, che lo avvicina all’elaborazione
teorica di economisti del calibro di Ludwig von Mises e Friedrich von
Hayek, è anche uno dei più importanti contributi di Bauer
alla teoria dello sviluppo, sebbene non sia l’unico. Israel Kirzner,
infatti, nel bel saggio che Ideazione ospita in questa sezione, illustra
anche altri apporti dello studioso inglese. Bauer, e Kirzner lo pone in
evidenza, fu estremamente critico verso l’impiego di metodi matematici
e statistici nell’economia. Questo elemento riconduce evidentemente
agli insegnamenti della Scuola Austriaca, avversaria feroce della positivizzazione
e della matematizzazione della scienza economica, che ha a che fare con
azioni umane razionalmente orientate, finalizzate a perseguire uno scopo,
e non con esseri che agiscono secondo schemi fissi e prevedibili. La bulimia
del metodo matematico-statistico diventa allora la causa di un’incomprensione
del presente, perché impedisce il ricorso alla storia per interpretare
la realtà.
Bauer, dunque, come altri isolati liberisti, non fu costretto solo a scontrarsi
con le maggiori illusioni sociali e politiche del tempo, ma anche con
le più sedimentate convinzioni accademiche. E, come altri liberali,
è riuscito a scavare una nicchia in cui far germogliare nuove idee.
La società libera era la grande preoccupazione di Bauer. E la società
libera gli ha dato ragione.
Tiziano
Buzzacchera, studente di Scienze politiche e Relazioni internazionali
all’Università di Padova, collabora con l’Istituto
Bruno Leoni.
(c)
Ideazione.com (2006)
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