Che
ruolo ha avuto la leadership nel rendere gli ultimi vent’anni di
questo secolo radicalmente diversi dai primi ottanta? Sono convinto che
le leadership della Thatcher e di Reagan abbiano tradotto la rivoluzione
del pensiero economico in autentici cambiamenti politici. E, inoltre,
facendo uscire queste idee dalla torre d’avorio per portarle nell’arena
della politica, hanno contribuito a spostare l’obiettivo del dibattito
politico in una direzione più favorevole a una società libera.
Se il discorso politico attuale è così radicalmente diverso
da quello della gran parte di questo secolo, certamente lo si deve ai
giganti del pensiero che hanno preparato la strada della rivoluzione:
Friedman, Hayek, Buchanan, Stigler, per citare soltanto alcuni nomi; ma
soprattutto lo si deve a due leader mondiali – Reagan e la Thatcher
– che hanno permesso la realizzazione di quelle idee, rendendole
così note al grande pubblico.
È cosa gratificante osservare il clima politico che ha prevalso
per la stragrande maggioranza dello scorso secolo e confrontarlo con quello
presente.
Il secolo che si sta concludendo è stato il secolo dello Stato,
dei dittatori, di Hitler e di Stalin, così come il secolo del governo
arbitrario e di una intrusione senza precedenti della politica nella nostra
vita quotidiana. Ha prodotto il più grande aumento delle dimensioni
del governo della storia dell’umanità. Per citare un solo
indicatore, ma assai significativo: in Italia nel 1900, il rapporto tra
la spesa e il Pil era del 10 per cento, negli anni Cinquanta del 30 per
cento, per raggiungere il culmine del 60 per cento circa nel 1993. Lo
stesso si può dire per la maggior parte delle altre nazioni. Non
c’è motivo di insistere su questo punto: ricordiamo tutti
quanto sia stato desolante lo scenario, fino a tempi molto recenti, per
i difensori della libertà.
Negli anni Settanta le cose hanno cominciato lentamente a cambiare. Gradualmente,
il pessimismo ha ceduto il passo a un nuovo stato d’animo. Un numero
sempre maggiore di persone si dichiarava insoddisfatto delle vecchie ricette
socialiste, preferendo i meccanismi del mercato. I socialisti della vecchia
scuola hanno cominciato a diminuire. Di conseguenza, gli assertori della
società libera hanno cominciato a sperare in un futuro liberale.
Un celebre precursore di questo cambiamento, eccezione nel clima di pessimismo
di allora, fu Arthur Seldon, co-fondatore dell’Institute for Economic
Affairs di Londra. In una lettera al Times del 6 agosto 1980, arrivò
a predire: «La Cina diventerà capitalista. La Russia sovietica
non sopravviverà alla fine del secolo. Il Partito laburista per
come lo conosciamo non governerà più. Il socialismo è
un dettaglio senza importanza». All’epoca, questa posizione
era considerata ridicola, un bizzarro esempio di arguzia britannica. Dieci
anni dopo è apparsa profetica, se non ovvia. Quale è stata
la causa di questo cambiamento radicale? Perché la retorica politica,
e in alcuni casi la politica stessa, sono cambiate così tanto?
Il ruolo delle idee
Il cambiamento epocale in politica è iniziato con una rivoluzione
intellettuale. Non è così scontato come sembra. Gli economisti
hanno pareri discordanti sulla rilevanza pratica delle loro idee. Com’è
noto, Keynes era estremamente ottimista: «Le idee degli economisti
e dei filosofi politici, giuste o sbagliate che siano, hanno più
potere di quanto non si creda. In realtà, il mondo va avanti con
poco altro». Alfred Marshall, il suo maestro, d’altro canto
era convinto che gli economisti dovessero propugnare verità scomode:
«Gli studiosi di scienze sociali devono temere l’approvazione
popolare; quando tutti parlano bene di loro, sono dalla parte del torto.
[…] È quasi impossibile per uno studioso essere un vero patriota
e averne contemporaneamente la reputazione».
Questa era anche la posizione di Hayek, quando dichiarava che l’economista
«non deve cercare l’approvazione del pubblico e la comprensione
per i propri sforzi». Infine, George J. Stigler era convinto che
la rilevanza pratica della produzione intellettuale degli economisti fosse
minima: «Gli economisti sono soggetti alla coercizione delle ideologie
dominanti dell’epoca». Su questo punto, dissento da Stigler.
Non nutro alcun dubbio sul fatto che la grande inversione di rotta dei
nostri tempi sia stata avviata da una rivoluzione leggendaria del pensiero
economico.
Dal punto di vista dello scontro ideologico, sono convinto che –
grazie al lavoro dei grandi studiosi liberali del nostro secolo –
viviamo in uno dei periodi più felici della storia recente dell’umanità.
Credo che mai prima d’ora la causa della libertà sia stata
analizzata così a fondo e meglio compresa.
Bisogna aggiungere inoltre che oggi ci sono più persone coscienti
dell’importanza della libertà a livello teorico di quante
non ce ne siano state negli ultimi cinquanta o cento anni.
La
“malattia britannica”
Negli
anni Settanta, l’economia della Gran Bretagna era in uno stato pietoso.
Molti, come Daniel T. Jones, usavano regolarmente l’espressione
di “malattia britannica”, e non era un’esagerazione:
«Durante il Diciannovesimo secolo, e per i primi sessant’anni
del Ventesimo, il Regno Unito è stato (in termini di produzione
pro capite) in posizione di vantaggio rispetto a quasi tutte le maggiori
nazioni europee [...] Tuttavia, dagli anni Sessanta, è emerso un
gap assoluto (…e) nel 1973 la maggior parte delle nazioni della
Comunità economica europea avevano superato la Gran Bretagna del
30-40 per cento».
La produttività era molto più bassa rispetto all’Europa
continentale: stando agli studi delle corporation internazionali, il prodotto
netto pro capite era più alto di oltre il 50 per cento negli stabilimenti
tedeschi e francesi rispetto a quelli corrispondenti in Gran Bretagna.
E, inoltre, la Gran Bretagna era afflitta da un’inflazione dilagante
(dal 1972 al 1977, mentre secondo l’ocse i prezzi erano aumentati
del 60 per cento, quelli inglesi erano saliti del 120) insieme a un alto
tasso di disoccupazione (nel 1977, il tasso di disoccupazione della Gran
Bretagna raggiungeva il 7 per cento, vale a dire 2,5 punti sopra la media
ocse).
Questo record scioccante era apparso paradossale a Mancur Olson, il quale
affermava che: «La Gran Bretagna ha prodotto più giganti
del pensiero economico di qualsiasi altra nazione. [...] La maggior parte
dei primi grandi economisti, inclusi ovviamente uomini come David Ricardo
e John Stuart Mill, erano liberali classici». La loro opera ha avuto
un impatto determinante sull’opinione pubblica britannica: «Il
liberalismo classico era più popolare nella Gran Bretagna del Diciannovesimo
secolo che […] nella maggior parte delle altre nazioni europee».
Eppure, «la Gran Bretagna ha sofferto della “malattia britannica”
della crescita lenta». Conclude infine: «Abbiamo bisogno di
qualcos’altro, oltre al livello di comprensione economica, che spieghi
la performance economica».
Credo che Olson commetta un errore nell’accomunare gli economisti
britannici del Diciottesimo e del Diciannovesimo secolo con quelli del
Ventesimo. Per prima cosa, se è difficile mettere in discussione
la supremazia del pensiero economico inglese nel Settecento e nell’Ottocento,
ho seri dubbi che lo stesso possa dirsi per gli economisti del Ventesimo
secolo. Senza dubbio vi sono state delle eccezioni, ma credo che, in confronto
ai secoli precedenti, il Ventesimo sia stato, per il pensiero economico
britannico, un secolo mediocre. E non mi convince neppure John Maynard
Keynes (che Olson cita come prova della supremazia britannica nella teoria
economica del Ventesimo secolo) perché, a mio parere, la sua influenza
è stata disastrosa. La Gran Bretagna e il resto del mondo avrebbero
goduto di una situazione finanziaria migliore se Keynes avesse impiegato
le sue enormi doti intellettuali in qualche altro campo. Infine, la maggior
parte degli economisti britannici, dopo la morte di Keynes, avvenuta nel
1946, si è distinta per la mediocrità e per il disprezzo
nei confronti del libero mercato: non dimentichiamo il manifesto dei 364
economisti britannici contro le politiche della Thatcher. Contrariamente
a quanto pensava Olson, la “malattia britannica” è
stata un altro esempio del potere delle idee, di quelle sbagliate: il
consenso anticapitalista tra gli economisti britannici ha indubbiamente
contribuito al declino della Gran Bretagna. In modo particolare, vediamo
perché la stagflazione degli anni Settanta e il relativo declino
economico non si siano verificate nonostante, ma proprio a causa dell’influenza
di John Maynard Keynes.
Keynes,
il cattivo maestro
Seguendo
gli insegnamenti di Keynes, gli economisti britannici erano convinti che
l’inflazione fosse l’inevitabile conseguenza della crescita
economica, e il rimedio alla disoccupazione. Erano inoltre convinti che
fosse possibile ridurre i tassi di interesse attraverso l’espansione
monetaria e che l’economia potesse essere “stabilizzata”
nel breve termine, evitando così gli alti e i bassi del ciclo economico.
Tra l’altro, l’inflazione non era considerata un fenomeno
monetario, ma il risultato di eccessivi aumenti dei salari, dovuti a quelle
che Samuel Brittan definisce “pressioni dei sindacati”, cosicché,
per combattere l’inflazione, bisognava ricorrere al controllo dei
salari e dei prezzi, scendendo a compromessi con i sindacati, e contemporaneamente
perseguendo politiche monetarie e fiscali espansive per stimolare la domanda.
Tutto ciò oggi sembra assurdo, ed in qualche modo lo è,
ma si trattava del consenso unanime sulle idee di Keynes, condiviso dal
Partito laburista e, per alcuni aspetti, anche dai Tories. Tutti sembravano
condividere la stessa concezione keynesiana: soldi facili, tassazione
elevata, deficit spending, controllo dei salari e dei prezzi (politica
del reddito, così veniva chiamata in Gran Bretagna).
Non c’è bisogno di aggiungere che tutte queste teorie si
sono rivelate fallimentari di fronte alle prove empiriche e alle analisi
teoriche degli ultimi trent’anni. Gli eroi della controrivoluzione
sono i grandi pensatori liberali che ho citato prima: Milton Friedman,
Friedrich Hayek, eccetera. Adesso sappiamo che non esiste alcuna prova
che la crescita economica comporti inevitabilmente un aumento dell’inflazione.
L’idea che si possa ridurre la disoccupazione attraverso l’inflazione
è totalmente caduta in discredito. Soltanto un’inflazione
accelerata potrebbe tenere la disoccupazione al di sotto del suo “tasso
naturale”, ma persino questa possibilità poco allettante
appare dubbia.
Infine, per quanto riguarda l’opportunità del controllo dei
salari e dei prezzi, ora sappiamo che quel rimedio non era soltanto inefficace,
ma anche decisamente dannoso. Un effetto collaterale di questi provvedimenti
era quello di peggiorare il problema dello strapotere dei sindacati. La
Gran Bretagna degli anni Settanta confermava la previsione di Henry Simons,
che, in un famoso articolo del 1944, aveva denunciato il pericolo dei
sindacati: «I monopoli sindacali […] una volta stabiliti […]
riescono ad usare violenza come nessun altro monopolio. […] I sindacati
trattano i lavoratori che rifiutano di aderirvi in un modo al cui confronto
anche i primi metodi di Rockfeller sembrano cortesi e legittimi. Hanno
poco da temere […] dal Congresso e dai tribunali».
Si potrebbe sostenere che Simons, che scriveva negli Stati Uniti negli
anni Quaranta, fosse un po’ troppo pessimista. La sua analisi, ad
ogni modo, descrive perfettamente il Regno Unito degli anni Settanta.
I dettami keynesiani avevano convinto la stragrande maggioranza dei politici
di ambo le parti che non esistesse alternativa a una politica volta a
scendere a patti con i sindacati, perseguendo al contempo una politica
espansiva della domanda, attraverso i soldi facili e i deficit di bilancio.
Il risultato delle idee sbagliate è stata la stagflazione: crescita
lenta, disoccupazione, e inflazione; insieme a una rapida crescita delle
dimensioni del governo.
I
difficili anni Settanta
Senza
mezzi termini, la Gran Bretagna degli anni Settanta era un caso disperato.
Molti economisti concordano sul fatto che lo strapotere dei sindacati
fosse responsabile dello stato pietoso dell’economia inglese, tra
questi, Samuel Brittan il quale sosteneva: «Molte delle storture
tipiche della politica economica britannica hanno origine nella convinzione
che l’inflazione dovesse essere combattuta attraverso la regolazione
di determinati adeguamenti salariali. Creare un clima in cui i sindacati
avrebbero tollerato simili interventi è stato oggetto di molto
lavoro del governo. Ciò ha comportato il controllo dei prezzi,
un’alta progressività della tassazione sul reddito, e un’attenzione
particolare alle opinioni dei leader sindacali su diversi aspetti della
pratica politica. Il periodo post-1972, caratterizzato da un intervento
statale particolarmente pressante, non cominciò con un cambio di
governo, ma con la conversione del governo conservatore di Heath al controllo
dei salari e dei prezzi».
Brittan si riferisce alle politiche economiche disastrose uniformemente
applicate dai governi conservatori e laburisti in Gran Bretagna nel corso
degli anni Settanta. In modo particolare, il governo conservatore a cui
Brittan fa riferimento aveva iniziato la sua attività con intenzioni
lodevoli. Nel manifesto conservatore per le elezioni del 1970 si legge:
«Rifiutiamo l’intervento capillare del socialismo, che usurpa
la funzione della gestione imprenditoriale per dettare all’industria
i prezzi e i salari. […] Il nostro obiettivo è identificare
e rimuovere gli ostacoli che impediscono l’effettiva competizione
e che impongono restrizioni all’iniziativa economica».
Queste ammirevoli intenzioni, prosegue Brittan, non sono però state
seguite da politiche egualmente lodevoli. In realtà, il «governo
conservatore del 1970-74 è stato il più corporativista del
dopoguerra. La sua politica economica è stata un disastro che ha
fatto perdere al Partito Conservatore due elezioni di seguito. Non sorprende
che Heath abbia perso la guida del partito […]».
Secondo Brittan, lo strapotere dei sindacati è riuscito anche ad
influenzare il sistema tributario, con conseguenze devastanti: «Per
gran parte del dopoguerra il vero problema non sono state […] le
normali aliquote fiscali, ma la loro elevatissima progressività,
sia in cima che in fondo alla scala del reddito. La tassazione marginale
sul reddito è non solo più alta che negli altri paesi industrializzati,
ma la sua curva diventa estremamente ripida a partire da redditi molto
più bassi che altrove. Si tratta di tasse esclusivamente politiche.
Le entrate raccolte in cima sono in termini statistici insignificanti;
e ciò che ne risulta sono di fatto entrate più basse […]
altrettanto importante è il fatto che risorse scarse quali energia
e talenti siano state impiegate per convertire il reddito in capitale
accumulato o benefici non soggetti a questi livelli di aliquote fiscali».
Il
tempo di Margaret Thatcher
Questo
era lo scenario che vide l’avvento della signora Thatcher. Teorie
economiche errate, gruppi d’interesse radicati e un’avversione
generalizzata per il libero mercato erano sfociati nella sclerosi economica,
nell’inflazione, nella disoccupazione e nel declino generale. La
Lady di Ferro voleva cambiare tutto questo, e ci è riuscita.
La sua prima battaglia è stata in campo macroeconomico, dove si
è verificato un passaggio dalla politica fiscale come sistema per
fronteggiare la domanda aggregata all’applicazione di una politica
monetaria. In politica fiscale, lo scopo era quello di ridurre il deficit
(psbr: Public Sector Borrowing Requirement). In materia di tassazione,
l’obiettivo era quello di ristabilire gli incentivi al lavoro, al
risparmio e all’investimento, attraverso tagli alle tasse a tutti
i livelli, in modo particolare per le fasce più alte. La filosofia
alla base di questi provvedimenti era che ristabilire gli incentivi fosse
più importante della ricerca dell’equità. Ma il campo
in cui è stata davvero una campionessa è stato, come scrive
Patrick Minford, quello delle riforme microeconomiche, o del supply-side:
«Dopo la campagna del 1979-82, volta all’abbattimento dell’inflazione,
(intraprese) una riforma senza sosta per favorire un’economia dell’offerta,
con leggi specifiche su regolazione dei sindacati, privatizzazioni, deregulation,
riforma finanziaria delle amministrazioni locali, edilizia, riforme radicali
delle tasse e molto altro». La Thatcher, inoltre, è riuscita
a domare i sindacati. Persino i suoi detrattori riconoscono che questo
è stato uno dei suoi più grandi successi, che condivide
col presidente Reagan: «Reagan e la Thatcher – scrive a questo
proposito Irving Stelzer – hanno fatto molto per ridurre il ruolo
del governo, e per espandere i confini delle forze del mercato in campo
microeconomico. Entrambi sono riusciti in questo intento ridimensionando
in primo luogo il potere dei sindacati […] nel 1981 il Presidente
è riuscito a interrompere uno sciopero dei controllori di volo,
[…] e con altrettanto successo, il Primo Ministro è riuscito
a interrompere lo sciopero che i minatori tra il 1984 e il 1985 avevano
intrapreso per imporre l’agenda politica del loro leader a un elettorato
che l’aveva respinta».
È inoltre riuscita a ridurre il ruolo diretto del governo sull’economia
attraverso le privatizzazioni. Tutti riconoscono che: «il successo
del thatcherismo nel convertire le imprese da statali a private […]
è stato un programma così radicale come concetto, e di esito
così felice nella pratica, che si è guadagnato la più
alta forma di lusinga dalle altre nazioni: l’imitazione»,
conclude Stelzer. Contrariamente a ciò che sia a sinistra che a
destra si continua ad affermare, tra i successi della Thatcher non possiamo
annoverare una riduzione della spesa pubblica totale. Nel 1999, l’Economist
scriveva: «In realtà, 18 anni di governo Tory hanno lasciato
la fetta di economia sotto diretto controllo dello Stato praticamente
intatta: dal 44 per cento del prodotto interno lordo del 1979 al 43 per
cento del 1996».
Per riassumere quanto detto finora, la Thatcher è riuscita a ridurre
drasticamente l’inflazione in un paese che ne era diventato dipendente;
a ridimensionare quelli che probabilmente erano i più potenti sindacati
d’Europa; a privatizzare una fetta consistente di un settore pubblico
eccessivamente esteso; ad emanare un sistema tributario più favorevole
alle imprese e agli investimenti; e a stabilire le condizioni per una
crescita economica di lungo termine. Ha messo fine alla “malattia
britannica”, rimettendo così in marcia la Gran Bretagna.
E infine, non bisogna dimenticare che è riuscita a spostare il
dibattito politico sui temi economici. Il programma economico del primo
ministro Blair, negli anni Settanta, sarebbe stato considerato conservatore;
se il Partito laburista è stato costretto a rivedere drasticamente
le proprie posizioni, questo lo si deve soprattutto all’eredità
lasciata da Margaret Thatcher. Si possono criticare alcuni aspetti del
suo operato, ma il suo è stato, in generale, un grandioso successo.
La
ricetta del successo
Come
ci è riuscita? Credo che esistano diversi fattori che hanno contribuito
alla “rivoluzione conservatrice” di Margaret Thatcher.
Idee. È indubbio che il successo di Margaret Thatcher sia in gran
parte dovuto alla forza delle idee. Lei stessa ha riconosciuto l’importante
ruolo svolto dall’Institute of Economic Affairs nel fornire le munizioni
e l’ispirazione per il suo programma. Per il trentesimo anniversario
dell’iea, ha affermato: «L’Istituto ha iniziato la propria
attività in un periodo in cui, a dispetto della libertà
di parola che caratterizza un paese libero, prevaleva quella che oserei
chiamare la moda della censura dei comportamenti. Chiunque osasse sfidare
le credenze comunemente accettate del dopoguerra riceveva in risposta
scetticismo, critiche, veniva deriso e bollato come un ignorante reazionario
[…] vi siete riproposti di cambiare il sentire comune […]
Vorrei esprimere la nostra gratitudine a quegli accademici, alcuni dei
quali hanno subito l’isolamento, e a quei giornalisti che si sono
uniti alla nostra impresa. Non penso che abbiano mai raggiunto il numero
di 364. Sono stati una minoranza. Ma erano nel giusto e hanno salvato
la Gran Bretagna».
Senza queste idee, la rivoluzione thatcheriana sarebbe stata impossibile.
In ogni caso, non dovremmo dimenticare che erano quasi tutte in circolazione
già dieci anni prima, ai tempi del governo Heath. Si potrebbe sostenere
che nel 1979 la necessità di un cambiamento radicale in politica
economica fosse più forte di prima, ma bisogna riconoscere che
le idee, da sole, non sono una spiegazione sufficiente per la rivoluzione.
Erano una causa necessaria, ma non sufficiente del cambiamento.
Scenario
È vero che alla fine degli anni Settanta, le prove del fallimento
delle politiche stataliste perseguite sia dai governi laburisti che da
quelli tory erano schiaccianti. Sono convinto che le circostanze abbiano
avuto la loro importanza nel determinare il successo della Thatcher. Ad
ogni modo, i segni del fallimento di queste politiche anti-mercato vi
erano già nel 1970, anche se non così evidenti come nel
1979. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che non tutti hanno tratto le
stesse conclusioni dalle stesse esperienze. Certo non il Partito laburista,
che nel 1979 era socialista come sempre. E, per quanto riguarda gli accademici,
la stragrande maggioranza di essi era convinta che non ci fosse bisogno
di nessun cambiamento nella pratica politica, come dimostra il documento
firmato da quei 364 economisti contrari alle politiche del governo Thatcher.
La prove erano senza dubbio sotto gli occhi di tutti, il che ha favorito
la causa della Thatcher, ma erano già presenti da prima seppure
senza alcun impatto, e molte persone istruite si erano rifiutate di trarne
le giuste conclusioni.
Interessi
I sindacati avevano abusato del proprio potere, e questo aveva reso più
forte che mai la necessità di ridurne l’influenza. E comunque,
non si trattava certo di un fenomeno nuovo: il pericolo rappresentato
dalla loro onnipotenza era stato più che evidente per anni, eppure
nessuno aveva cercato di affrontarlo.
Leadership
Credo che, nonostante tutti questi fattori abbiano avuto il loro ruolo
nel determinare il successo della Thatcher, l’elemento cruciale
sia stata la sua personalità, la sua leadership fedele ai principi
e incapace di scendere a compromessi. Si può dire di lei ciò
che Ted Kennedy aveva detto di Reagan: «Sarebbe sciocco negare che
il suo successo fosse fondamentalmente basato sulla sua profonda conoscenza
delle idee diffuse. Reagan poteva dimenticare i nomi, ma mai i suoi obiettivi.
Era un grande comunicatore, non solo per la sua personalità o per
il suo teleprompter, ma soprattutto perché aveva qualcosa da comunicare».
Margaret Thatcher aveva osato fare ciò che in Gran Bretagna nessun
altro aveva avuto il coraggio di fare per decenni: combattere le opinioni
diffuse, i luoghi comuni, gli interessi radicati, e guidare un partito
riluttante e un paese stordito in una direzione completamente nuova. Posso
dare testimonianza della sua singolare personalità. Ho avuto occasione
di incontrarla diverse volte, prima di entrare in politica. Una volta,
nel 1991, fu durante una conferenza a Fiesole, vicino Firenze, organizzata
dalla National Review Institute. Durante la pausa, camminavamo sotto il
portico dell’hotel, mentre la campagna Toscana splendeva nel sole
del pomeriggio. La signora Thatcher mi disse: «Il suo è un
bel paese con un governo marcio». Al che io risposi: «Mia
cara signora, sarebbe assai peggio il contrario».
Il
suo modo diretto di porre le questioni, così insolito per un leader
politico, le ha fatto guadagnare diversi nemici tra gli altri leader,
ma ha prodotto un affascinante contrasto con l’ipocrisia e la vacuità
dei dettami politici comunemente accettati. A volte, probabilmente, ha
esagerato. Ad esempio, durante la stessa conferenza di Fiesole, durante
la sua relazione, pronunciò la seguente frase: «La civiltà
è una prerogativa esclusiva dei popoli anglofoni». Nella
stanza, ero l’unico che non fosse di nazionalità inglese
o americana. Guardai John O’Sullivan, che mi sedeva accanto. Sorridendo,
mi disse: «È stato relegato alla barbarie!». Margaret
Thatcher sa anche essere amabile e gentile. Quando, nel 1994, vincemmo
le elezioni, mi mandò le sue congratulazioni via fax. La richiamai
per ringraziarla per la sua cortesia. Mi incoraggiò nel solito
modo: «Dovrete fare per l’Italia ciò che io ho fatto
per la Gran Bretagna». Cercai di spiegarle che, in confronto a lei,
eravamo svantaggiati. Le risposi: «Lei aveva una Costituzione scritta
nei cuori e nelle menti della vostra gente. Noi no. Aveva un potere giudiziario
indipendente. Noi no. Aveva una pubblica amministrazione pulita ed efficace.
Noi no. Aveva una maggioranza costituita da una partito unico. Noi no.
Aveva questi think tank come l’iea, che le ha fornito le idee giuste.
Noi no. Ma comunque, aggiunsi, abbiamo qualcosa che lei non aveva».
«Che cosa?», chiese lei. «Il suo esempio!» le
risposi.
Sulla importanza delle idee e/o della leadership, Margaret Thatcher ha
espresso la sua opinione durante le celebrazioni per il trentesimo anniversario
dell’iea. Dopo aver ascoltato una serie di discorsi di eminenti
accademici, tutti in lode dell’importanza delle idee, concluse così
il suo intervento: «Come undicesimo speaker e come unica donna,
spero ricorderete che sarà anche il gallo a cantare, ma è
la gallina a deporre le uova».
L’insegnamento che possiamo trarne è piuttosto semplice,
e non molto incoraggiante: la signora Thatcher deve il suo successo soprattutto
alla rivoluzione intellettuale nelle teorie economiche. Non ha inventato
nulla di nuovo: non c’era nulla di innovativo o di originale nella
sua politica economica. In ogni caso, queste idee erano già presenti
da molto tempo, ma non sono state tradotte in pratica politica finché
lei non è arrivata sulla scena. Sono state la sua leadership, il
suo coraggio, la sua determinazione e la sua integrità intellettuale
che hanno permesso a quelle idee di ispirare le politiche economiche effettive
e il cambiamento in Gran Bretagna. Tutto questo mi porta a una spiacevole
conclusione: l’ostacolo, nel panorama politico attuale, non è
la comprensione della natura dei problemi sociali e delle loro soluzioni
auspicabili, anche se c’è ancora molto da fare per far sì
che la causa della libertà economica sia compresa appieno dalla
gran parte dell’opinione pubblica e dei politici. Ciò che
scarseggia davvero è la leadership. Un leader che persegua le proprie
convinzioni senza scendere a compromessi, capace di costruire una coalizione,
un consenso di maggioranza attorno alla propria piattaforma, è
essenziale se vogliamo davvero costruire un mondo libero. Per nostra sfortuna,
personaggi della caratura della Thatcher e di Reagan sono assai rari,
e non possiamo aspettarne un altro. «Finché gli abitanti
di un qualsiasi paese riporranno le loro speranze di salvezza politica
in un determinato tipo di leadership, la delusione li attenderà
dietro l’angolo». Dobbiamo continuare ad affinare le nostre
ragioni, a renderle più convincenti, esplorando nuovi modi di accrescere
le nostre libertà e, soprattutto, dobbiamo convertire ad esse i
nostri politici. È proprio questo il compito della Heritage Foundation.
(Discorso
pronunciato alla Heritage Foundation il 24 novembre 1999. Traduzione dall’inglese
di Arianna Capuani)
Antonio Martino, economista, è stato ministro degli Esteri e della Difesa nei governi di Silvio Berlusconi.
(c)
Ideazione.com (2006)
Home
Page
Rivista | In
edicola | Arretrati
| Editoriali
| Feuilleton
| La biblioteca
di Babele | Ideazione
Daily
Emporion | Ultimo
numero | Arretrati
Fondazione | Home
Page | Osservatorio
sul Mezzogiorno | Osservatorio
sull'Energia | Convegni
| Libri
Network | Italiano
| Internazionale
Redazione | Chi
siamo | Contatti
| Abbonamenti|
L'archivio
di Ideazione.com 2001-2006