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Il viaggio strategico di Rudd dagli Usa alla Cina
di GIUSEPPE MANCINI

[22 apr 08] Kevin Rudd, premier australiano al suo primo viaggio fuori dall’Oceania, ha fatto il giro del mondo in 17 giorni. E’ partito da Canberra per raggiungere Washington e poi New York, alle Nazioni unite; è passato per Londra, Bruxelles e Bucarest, dove ha partecipato al vertice della Nato; infine, ha trascorso quattro giorni a Pechino, prima di tornare a casa. Seguire queste tappe ci consente di individuare, con estrema chiarezza, le tre priorità di politica estera del governo laburista in carica dalla fine del 2007: l’Occidente, imperniato sugli Stati Uniti potenza globale e sulla Gran Bretagna antica madrepatria; il multilateralismo – politico, militare ed economico – rappresentato dalle Nazioni unite, dalla Nato e dall’Unione europea; l’Oriente rampante, in cui la Cina è diventata per l’Australia un partner economico e politico privilegiato – a discapito dell’India e del Giappone, esclusi dal viaggio di Rudd tra le vive proteste soprattutto di Tokyo. E nonostante abbiano apportato dei cambiamenti per alcuni aspetti significativi, Rudd e il ministro degli Esteri Stephen Smith continuano però a rispettare l’orientamento di fondo seguito da tutti i governi del dopoguerra – per un decennio dal centrodestra di John Howard e Alexander Downer –con solo sfumature diverse: la ricerca di un bilanciamento tra il legame tradizionale con gli Stati Uniti e quello più recente con l’Asia (dagli anni Novanta, soprattutto con la Cina), l’impegno convinto per il buon funzionamento delle organizzazioni internazionali politiche ed economiche. L’Australia, infatti, è un Paese politicamente e culturalmente occidentale che si trova geograficamente in Asia e che dall’Asia dipende per il suo continuo sviluppo economico: e questa duplicità, a seconda di come viene gestita, può trasformarsi in vulnerabilità o in opportunità. Ma l’Australia è anche una media potenza regionale che ha imparato a farsi rispettare – economicamente e militarmente – a livello globale e che si pone come mediatrice autorevole tra l’Occidente e la Cina.

La prima tappa, Washington, è stata quella più scontata. Rudd ha riaffermato la centralità, anche per il suo governo, del rapporto con gli Stati Uniti. Lo ha fatto incontrando sia Bush, sia i tre candidati ancora in lizza per la presidenza: Hillary Clinton, John McCain, Barak Obama. Certo, come promesso in campagna elettorale verrà presto ritirato il contingente impegnato in Iraq, che ha combattuto dal principio a fianco degli americani; ma verrà potenziato quello attivo in Afghanistan, mentre altre truppe verranno inviate a sostegno del governo iracheno. Non bisogna stupirsene. Perché tutti i governi australiani, laburisti o liberal-nazionalisti, hanno fondato la sicurezza del Paese sull’Anzus (l’alleanza militare con gli Usa e la Nuova Zelanda, nata nel 1951) e hanno partecipato attivamente – prima della spedizione in Iraq – al conflitto in Corea, alla guerra civile malese, alla guerra del Vietnam, alla prima Guerra del Golfo. A Londra, invece, Rudd ha suscitato qualche polemica ricordando anche in presenza della regina, sovrano nominale dell’Australia, le sue preferenze repubblicane. Il referendum del 1999 fallì miseramente e non verrà sicuramente riproposto a breve; ma la società australiana, divenuta negli ultimi decenni etnicamente e culturalmente sempre più variegata, ha ormai optato per un’indipendenza definitiva e anche formale dall’antica madrepatria. Manca solo un’occasione propizia, forse la fine del lunghissimo regno di Elisabetta. A Bruxelles Rudd ha parlato di accordi e scambi commerciali, a Bucarest di sicurezza mondiale e di Afghanistan, a New York della candidatura dell’Australia per un seggio al Consiglio di sicurezza dell’Onu nel 2013. La differenza più evidente rispetto al governo Howard è proprio la maggior importanza che il premier laburista vuole accordare al multilateralismo – anche se, bisogna ricordarlo, è stato proprio Howard ad inserire a pieno titolo l’Australia nel processo di istituzionalizzazione regionale – economica e politica – in corso in Asia orientale.

La parte asiatica del viaggio è stata quella più impegnativa e controversa. Asiatica, ma esclusivamente cinese. Del resto Rudd, diplomatico di carriera, ha passato alcuni anni in Cina e parla alla perfezione il mandarino: e questa sua affinità vuole sfruttarla per dare ulteriore slancio ai rapporti già eccellenti con Pechino, che è oggi il primo partner commerciale dell’Australia (soprattutto nel settore energetico e minerario). A febbraio, i due Paesi hanno inaugurato degli incontri di carattere strategico tra i ministri degli Esteri, peraltro messi in programma dal governo Howard; mentre, di converso, Rudd ha lasciato cadere analoghi impegni presi con New Delhi e Tokyo. La Cina è per l’Australia il nuovo partner strategico, l’India e il Giappone rischiano di essere declassati ad alleati di seconda fascia: rendendo in questo modo alquanto problematica una possibile politica di contenimento – nei confronti di Pechino – delle democrazie occidentali. E nella capitale cinese, all’università, Rudd ha pronunciato il discorso più importante del suo viaggio. Ha parlato da zhengyou, da “vero amico”: da una parte, ha messo per l’appunto in evidenza la dimensione ormai strategica della partnership politica ed economica tra i due Paesi; dall’altra, ha criticato in modo chiaro e netto – ma senza eccessive drammatizzazioni – la politica della Cina verso il Tibet e più in generale sui diritti umani. Ha dimostrato di possedere coraggio politico e una salda visione su quali dovranno essere le basi di un rapporto costruttivo tra la Cina nuova potenza e l’Occidente garante della sicurezza globale.


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