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da Ideazione maggio-giugno 1997
Condizioni per un governo di transizione

di SILVIO BERLUSCONI

[21 apr 08] Verranno nuove emergenze e questa volta non avranno gli occhi terrorizzati di un bambino albanese, né la disperata speranza di una sovraccarica boat-people sulla rotta Valona-Brindisi. Le nuove emergenze si chiamano Europa della moneta e riforme costituzionali. Di tempo per decidere ne resta pochissimo: una manciata di settimane. Se non vi fossero interventi decisi per risanare la finanza pubblica e per modernizzare le istituzioni; se fossero mancati quei traguardi ambiziosi e irrinunciabili, le conseguenze per il nostro Paese sarebbero catastrofiche. Si consumerebbe, inesorabile, la sconfitta di un’intera classe dirigente, che molto difficilmente avrebbe a disposizione una prova d’appello.

Certo, ben diverso è il grado di responsabilità di chi guida il governo e delle forze politiche che ne compongono la maggioranza, rispetto a chi si trova all’opposizione e da una collocazione (in Parlamento) minoritaria avanza proposte, realizza confronti, prepara alternative di governo. Ma la nostra stella polare non è mai stata il puro e semplice prevalere dell’interesse di parte, o di fazione, sul bene del Paese. Ecco perché di fronte al dissolvimento della coalizione di centro-sinistra, durante l’emergenza albanese, l’opposizione ha dato un esempio limpido e disinteressato di responsabilità nazionale, se non addirittura di supplenza nei confronti di ministri latitanti e di vacanzieri leaders di partito. Soltanto grazie a tale linea di responsabilità si è impedita all’Italia la vergogna di un dietrofront dagli impegni assunti a livello internazionale.

Ora, dopo lo spettacolo desolante offerto in Parlamento - una coalizione in crisi ha rifiutato di certificare l’evidentissima fine del governo Prodi e l’esaurimento dell’alleanza con i neo-comunisti di Bertinotti - tutto si fa oggettivamente più difficile. Siamo nel mezzo di una turbolenta ed incertissima fase politica, che vede i partiti dell’Ulivo in preda ad una paralisi che ne impedisce ogni capacità reattiva e propositiva. Sarebbe semplice e comodo, per noi, attendere che gli eventi e i fallimenti si consumino inevitabilmente. Sarebbe fruttuoso egoisticamente, anche in una prospettiva elettoralistica, accomodarsi sulla riva del fiume, ad aspettare.

E invece, consapevoli che la nostra forza risiede nel fare, a costo di sfidare l’incomprensione dei miopi e dei faziosi, scegliamo per noi le parole di Luigi Sturzo: «Nostro è il presente e solo il presente, con i suoi doveri, fra i quali anche quello di preparare per quanto possibile il domani, cioè eseguire quel che oggi è il nostro dovere e il nostro potere».

Qual è, oggi, il nostro dovere? Quale il nostro potere? Non ci sono dubbi, né per chi vive la politica come ricerca del bene comune, né per chi contrappone un sano realismo - cattolico e liberale - alle utopie di ogni colore, scorie post-ideologiche del secolo che muore. Ora e qui, dunque, l’opposizione responsabile non concede a se stessa alternative ai seguenti compiti: realizzare riforme costituzionali in grado di assicurare certezza del diritto e stabilità ai governi; dare orizzonte a una legislatura altrimenti destinata a vita breve e a risultati infausti per il Paese; sottoscrivere un patto per l’Europa, aperto alle forze politiche responsabili, che consenta all’Italia di accedere fin dall’inizio all’Unione monetaria, condizione indispensabile per ridare prosperità alla nostra economia.

L’ordine indicato per le tre priorità non è casuale. E non è soltanto la loro concomitanza temporale a collegarle. Al contrario, il raggiungimento di un compromesso alto e nobile nella Bicamerale è condizione necessaria per la proficua prosecuzione di questa legislatura; così come una forma di partecipazione al governo del Paese delle forze politiche responsabili renderebbe possibile sia intervenire strutturalmente sulla spesa pubblica, sia rilanciare la produttività e creare nuovi posti di lavoro. Come dire che, nell’Unione monetaria europea, non vi sarebbe posto per noi, senza una radicale inversione di rotta rispetto alla politica economica perseguita dall’attuale governo.

Tutto si tiene. Ecco perché l’esperienza dell’esecutivo ipotecato dal neo-comunismo di Rifondazione va archiviata al più presto e senza rimpianto: altrimenti, il medesimo ricatto - sotto le sembianze di un cosiddetto “vincolo di maggioranza” - che ha impedito la definitiva chiarificazione nel corso del dibattito parlamentare sulla missione militare in Albania, fatalmente sarà reiterato all’interno della Commissione Bicamerale: vuoi da Bertinotti; vuoi da bene individuati nostalgici del proporzionalismo; vuoi da quanti si dichiarano irriducibilmente anti-presidenzialisti. Una siffatta, pericolosissima opera di sabotaggio avrebbe effetti devastanti sulla possibilità di pervenire a un’intesa su delicate e decisive questioni, intesa che, invece, sentiamo tuttora alla nostra portata.

Non ci riferiamo soltanto al capitolo giustizia, al ripristino di uno Stato di diritto, o al federalismo possibile; ma soprattutto - in questa sede, all’interno del franco dibattito promosso da Ideazione - alla scelta della forma di governo, che sarà il cardine del finale documento di indirizzo, da cui dipenderà anche la legge elettorale che si riterrà più coerente con il modello istituzionale prescelto.

La nostra opzione in favore del sistema semipresidenziale è netta. La discussione nella Bicamerale e, soprattutto, l’audizione del professor Sartori (forse il vero momento di svolta per la Commissione) hanno confermato l’idoneità di tale forma di governo ad affrancare il sistema istituzionale italiano dalle sue molte e gravi anomalie. Il modello semipresidenziale corrisponde meglio di altri alla crescente responsabilità internazionale che l’Italia sarà chiamata ad assumere. Soltanto un presidente eletto direttamente dal popolo può assicurare stabilità, credibilità ed efficienza: virtù indispensabili all’interno di un unitario contesto europeo.

A questo punto, tutti noi abbiamo il dovere di pronunciarci. A cominciare dall’onorevole D’Alema, presidente della Commissione anche grazie alla fiducia da noi dimostrata nelle sue iniziali dichiarazioni d’intenti. Il tempo stringe e non è più possibile temporeggiare, magari manifestando “personali preferenze” per una formula rispetto ad un’altra. È il momento di scelte coraggiose e impegnative, che rimettano in gioco equilibri di potere consolidati e rendite di posizione acquisite.

Per la nostra parte, abbiamo fatto credito al leader del Pds: alle dichiarazioni d’intenti nella prima riunione plenaria della Bicamerale; al programma politico-programmatico enunciato di fronte al congresso del suo partito; all’impegno di voler dar vita ad una forza della sinistra finalmente e definitivamente approdata sulla sponda della socialdemocrazia, nell’ambito di un sistema modernizzato nelle sue istituzioni e politicamente ancorato ad un compiuto bipolarismo. È giunto il momento di tradurre le buone intenzioni in altrettante decisioni. In caso contrario si dovrebbe prendere atto che il Pds resta inesorabilmente paralizzato dalle ideologie del passato e dai ricatti del presente.

Sappiamo bene che l’impresa non è facile. Si tratta di operare una netta cesura costituzionale che interrompa le perniciose prassi della vecchia politica e realizzi una compiuta democrazia maggioritaria. Si tratta di assicurare una direzione politica responsabile, le cui azioni siano ben visibili e periodicamente sottoposte all’insindacabile giudizio degli elettori. L’Italia è al bivio. O si sposa il principio maggioritario che assegna ai cittadini il compito di scegliere direttamente l’indirizzo politico, attraverso una coalizione di governo ed il suo massimo responsabile. O si preferisce delegare tale scelta alle forze politiche, ai potentati, alle lobbies, cioè ai responsabili della degenerazione partitocratica della nostra democrazia.

È fin troppo facile prevedere che i discepoli di un certo dossettismo, conservatori iper-parlamentaristi, rinnoveranno l’anatema che l’anziano monaco volle lanciare all’inizio del ’96, contro l’ipotesi di accordo sul presidenzialismo che, in quelle settimane, vedeva impegnate le forze più avvedute dei due schieramenti. «Un fantasma - scrisse Dossetti - si aggira per l’Italia: l’idea di eleggere direttamente il capo del governo o dello Stato». In realtà, la vera e grande riforma che vogliamo è tutt’altro che un “fantasma”. È piuttosto la speranza che animava, già negli anni Cinquanta, Giuseppe Maranini, censore inascoltato delle contraddizioni e dei limiti della Costituzione vigente: «Non si tratta - sosteneva Maranini - di liberarci dalla democrazia, ma di conquistare la democrazia; non si tratta di abbattere il Parlamento, ma di restaurarne la dignità e la libertà, oggi così malamente usurpate dai suoi partitocratici controllori».

Non è forse questo il nostro compito, onorevole D’Alema? Non è forse questa la riforma che serve all’Italia per completare l’interminabile transizione verso una nuova Repubblica? E non abbisogna forse l’Italia di una legge elettorale che - non più da sola, stavolta, ma all’interno di un rinnovato assetto delle istituzioni - consolidi il bipolarismo ed incoraggi le aggregazioni politico-programmatiche?

È chiaro che, nel caso di una simile scelta, le ripercussioni nella (ex) maggioranza di centro-sinistra sarebbero fortissime, certamente fatali all’attuale, precario equilibrio di governo. Ma quello stesso giorno, in una sede istituzionale ed in una occasione di rilevanza storica, si sarebbe manifestata una nuova e diversa maggioranza, non più di schieramento ma di responsabilità nazionale. Saremmo di fronte, quel giorno, ad un evento politico straordinario, fondamentale per il futuro del nostro Paese. Questa nuova maggioranza non sarebbe né occasionale né intermittente. Non potrebbe, insomma, palesarsi nella Bicamerale per poi dissolversi e materializzarsi, all’occorrenza, nelle aule parlamentari per ribadire le scelte di indirizzo della Commissione; scomparire di nuovo e infine riemergere d’incanto, nelle piazze e tra gli elettori, allorquando si terrà il referendum di conferma per la proposta complessiva di modifica costituzionale.

Così non potrebbe essere ed infatti così non sarà. Questa nuova maggioranza per le riforme costituzionali, simile a quella che ha reso possibile la missione in Albania, dovrà necessariamente tradursi in un governo per la transizione verso la nuova Repubblica e verso l’approdo europeo. Non ci sarebbe alcuna conventio ad excludendum nei confronti di talune forze politiche. Avremmo piuttosto, ancora una volta e inevitabilmente, il coinvolgimento dei partiti che vorranno assumersi tale responsabilità, e l’auto-esclusione di altre forze politiche, condannate dai rispettivi vertici interni - narcisi o irresponsabili - ad inseguire l’utopia comunista ovvero la chimera secessionistica.

Un governo per la transizione, quindi. Uno straordinario, corale impegno. Rigorosamente limitato al tempo necessario per realizzare un programma chiaro, deciso e definito. Prima di dividersi nuovamente, non appena terminato l’iter delle riforme ed iscritta al primo gruppo dell’Europa monetaria un’Italia economicamente viva e politicamente vitale. Per chiedere agli elettori di scegliere tra due contrapposte coalizioni di governo: due Poli, due programmi, due presidenti candidati. Con la comune consapevolezza di aver fatto, fino in fondo, il proprio dovere.

Sarà questa l’altissima posta in gioco nelle prossime settimane. Rinviare non si può. Impossibile negare che sia così. Noi siamo qui e siamo pronti. Ma basterà il nostro grande senso di responsabilità a rimettere in moto la situazione? Forse l’esito realisticamente sarà un altro: D’Alema e il Pds non riusciranno a svincolarsi dall’abbraccio mortale dei neo-comunisti e dei catto-giacobini. Il governo galleggerà a vista: le riforme istituzionali verranno rinviate, la necessaria razionalizzazione del Welfare solleverà grandi dibattiti, ma non provocherà alcuna decisione. Il mito della stabilità e la vocazione suicida di tenere assieme a tutti i costi, senza strappi, tutta la sinistra, butteranno D’Alema completamente fuori rotta. E allora la Bicamerale fallirà e l’Italia resterà fuori dall’Unione monetaria. Le elezioni anticipate sarano il giudizio del popolo sul fallimento disastroso della sinistra al governo.

Questo è lo scenario meno auspicabile, ma più realistico. Il nostro impegno è per la prima soluzione, quella costruttiva riformatrice; però da soli e all’opposizione non si può cambiare il mondo. Ma allora, dopo che il quadro politico sarà andato in frantumi, il Paese ci dia il consenso per governare.


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