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A un mese dalle elezioni la Serbia cerca un governo
di
RODOLFO BASTIANELLI

[10 giu 08] Dal voto per le legislative serbe dello scorso maggio sono arrivati due messaggi quanto mai contrastanti. Se infatti con la vittoria del presidente europeista Boris Tadic è apparso chiaro come i serbi ne abbiamo ormai abbastanza della retorica ultranazionalista, dall’altro però dalle urne per il rinnovo del Parlamento è uscito un quadro politico frammentato che renderà difficile la formazione del nuovo esecutivo. L’affermazione del cartello Per una Serbia Europea, è chiaramente un successo di Tadic e del suo atteggiamento pragmatico fin qui tenuto nei confronti del Kosovo. Contrario come la quasi totalità delle forze politiche serbe al riconoscimento dell’indipendenza di Pristina, Tadic all’inizio della crisi ha assunto una linea realista, dichiarando come in nessun caso si sarebbe dovuti arrivare alla rottura con gli Stati Uniti e Bruxelles in quanto il futuro della Serbia era legato all’Unione Europea. A determinare la vittoria del blocco filo–occidentale sono stati quindi non solo il desiderio dei serbi di potersi avvicinare all’Europa unito al timore che un successo delle forze radicali avrebbe riportato il Paese all’isolamento internazionale, ma anche la firma pochi giorni prima del voto dell’Accordo di Stabilizzazione ed Associazione con l’Unione Europea, con il quale la Serbia si impegna ad aprire le sue frontiere per favorire gli investimenti dall’estero, come conferma l’intesa raggiunta con la Fiat per la produzione di auto Zastava nello stabilimento di Kragujevac.

E lo stesso Tadic nel suo discorso tenuto subito dopo il voto ha ribadito come le priorità del suo prossimo governo saranno proprio la lotta alla corruzione e la collaborazione con L’Aia per consegnare al Tribunale penale internazionale i responsabili dei crimini di guerra avvenuti durante il conflitto degli anni Novanta. Nonostante l’affermazione del blocco riformista abbia rassicurato gli ambienti diplomatici, sul risultato elettorale pesano però alcune ombre, non solo perché la forza dei partiti nazionalisti rimane considerevole, ma soprattutto per il fatto che sarà quanto mai difficile costituire una maggioranza governativa in grado di garantire stabilità al Paese. I radicali di Tomislav Nikolic ed i nazionalconservatori del premier uscente Vojislav Kostunica contano ancora sul 40 per cento dei consensi, facendo presa non solo sul nazionalismo ma anche sulla disillusione di una parte dell’elettorato, scontento di una economia che ristagna e di un tasso di disoccupazione che sfiora il 30 per cento. Il risultato della formazione di Kostunica, Alleanza popolare, è tuttavia andato al di sotto delle attese. Alleato di Tadic nel governo, a marzo Kostunica ha rotto l’intesa ritenendo troppo morbida la linea assunta dal presidente verso l’Europa e gli Stati Uniti dopo l’indipendenza del Kosovo. 

Il premier durante la campagna si è distinto per la sua retorica nazionalista, affermando prima come senza il Kosovo la Serbia non sarebbe più stata una nazione e poi invitando il Parlamento a respingere l’accordo di stabilizzazione con l’Europa in quanto questo non garantirebbe l’integrità territoriale del Paese. Ed a conferma di quanto sia difficile comporre una maggioranza governativa, a quasi un mese dal voto le trattative sembrano essere ancora in una fase di stallo. Il blocco filo-occidentale, al quale dovrebbero aggiungersi i liberaldemocratici di Jovanovic, l’unica formazione nel panorama politico serbo che abbia accettato l’indipendenza del Kosovo, ed i rappresentanti delle minoranze nazionali, non dispone della maggioranza, una situazione che rende i socialisti determinanti per la formazione dell’esecutivo. Questi ultimi hanno ottenuto il loro miglior risultato dal 2000 ed entrambi gli schieramenti stanno negoziando per assicurarsene l’appoggio: uno scenario di incertezza che potrebbe protrarsi per mesi e condurre addirittura a nuove elezioni. Così, se il Financial Times ha evidenziato come l’ombra di Milosevic si allunghi ancora sulla Serbia, un editoriale apparso sul quotidiano belgradese Politika ha invece suggerito come la presenza dei socialisti nella coalizione riformista si rivelerebbe vantaggiosa, in quanto se da un lato Tadic potrebbe rafforzare la sua politica sociale, dall’altro gli eredi di Milosevic si vedrebbero finalmente affrancati dall’eredità del passato, come auspicato dai quadri più giovani del partito.

Ma è sul problema del Kosovo che si giocheranno le mosse decisive. Qualora la coalizione riformista restasse al governo, da indiscrezioni filtrate da ambienti diplomatici e riportate da alcuni osservatori una possibile soluzione potrebbe essere quella per cui Belgrado ufficialmente continuerebbe a non riconoscere la sovranità del Kosovo ed a considerarla ancora una sua provincia, ma in pratica prenderebbe atto della secessione accettandone quindi de facto l’indipendenza. Per Pristina questo significherebbe continuare ad avviare relazioni diplomatiche ufficiali con gli Stati che ne riconoscono la sovranità, ma allo stesso tempo non poter essere ammessa all’Onu dato il veto che verrebbe opposto da Russia e Cina. Ai comuni serbi verrebbe inoltre garantita un’autonomia amministrativa ed i contatti con Belgrado sarebbero tenuti da delegazioni a livello tecnico e non politico che si incontrerebbero in Paesi terzi.


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