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da Ideazione luglio-agosto 2006
Perché ne parliamo ancora
di CRISTINA
MISSIROLI
[04-2006]
Se gli
anni Sessanta furono gli anni dei Beatles, gli anni Ottanta sono stati per
la Gran Bretagna gli anni di Margaret Thatcher. La Signora di Ferro ha
lasciato un’impronta indelebile, come i ragazzi di Liverpool. Nulla è più
stato uguale. Senza di lei Tony Blair e il suo New Labour non sarebbero mai
esistiti. E se Silvio Berlusconi avesse davvero fatto come lei, oggi, forse,
non avremmo Romano Prodi e il suo governo vetero-sinistro a Palazzo Chigi.
La rivoluzione thatcheriana ebbe successo non solo perché fu combattuta al
momento giusto. Ma anche perché la Signora ci credette dall’inizio e fino in
fondo. Quindici anni più tardi, Alistair McAlpine, suo consigliere, scrisse
un libello dal titolo The Servant, oggi introvabile, tradotto da Mondadori
col titolo Il nuovo Machiavelli. Quel volumetto spiega bene il rapporto che,
nella mente di chi lavorò al fianco della Thatcher, esiste e deve esistere
tra il Principe e l’Idea. «L’Idea è il pensiero filosofico che sta alla base
di tutte le azioni del Principe. Da quest’ultima il Principe trae la propria
forza. Il Principe ha bisogno dell’Idea allo scopo di prendere via via le
decisioni necessarie per l’acquisizione durevole del dominio sul territorio.
Sottraete al Principe l’Idea, e di lui non resterà più nulla».
È il rapporto privilegiato e fortissimo con l’Idea ciò che caratterizza l’intera avventura governativa della Thatcher. È per questo che, prima tra i politici di professione, è stata scelta per il Feuilleton di Ideazione. Diceva: «In politica, se vuoi un bel discorso chiedilo ad un uomo; se vuoi i fatti chiedili ad una donna». Ma diceva anche: «Perché scalare le vette della filosofia? Perché ne vale la pena». Senza teoria, la prassi politica diventa galleggiamento. Diventa qualcosa d’incomprensibile e non finalizzato. Un po’ come accadeva in Italia. Scrive la Thatcher a proposito di Giulio Andreotti nella sua autobiografia: «Questo membro apparentemente indispensabile di tutti i governi italiani rappresentava una linea politica che non potevo condividere. Sembrava avesse una reale avversione per i principi, anzi la profonda convinzione che un uomo di principi fosse condannato ad essere ridicolo». Il legame strettissimo tra teoria e prassi, il contatto costante con i think tank che elaborarono la base teorica della sua azione, rende perciò la Thatcher un politico-filosofo. Come Ronald Reagan, ad esempio. E molti altri a cui la nostra rivista dedicherà, in un futuro prossimo, queste stesse pagine, destinate fino ad oggi prevalentemente a maestri del pensiero.
Un ciclone sul paese e sul sistema dei partiti
Forse un po’ ce lo siamo dimenticati, ma nel 1979 la signora Thatcher è
piombata sulla Gran Bretagna come un terremoto. E con pari delicatezza ha
squassato la nazione, annunciando quel che nessuno aveva mai osato prima.
Che l’Inghilterra aveva vinto la guerra ma era come se l’avesse perduta. Che
dal 1945, proprio quando i guai sembravano finiti, aveva smesso di essere
una grande potenza. Che aveva perso l’impero. Che doveva scegliere di
diventare qualcos’altro. Con tutta la ruvidezza per la quale poi è diventata
proverbiale, la Lady di Ferro ha costretto il paese a guardare in faccia la
realtà. Come spesso accade, l’inizio del rinascimento coincise con il punto
più basso toccato dalla nazione. Era l’inverno tra il 1978 e il 1979. A
causa degli scioperi, i morti rimanevano insepolti e l’elettricità era
razionata. Gli inglesi, con il morale sotto le scarpe, erano pronti alla
svolta. Margaret Thatcher fiutò il vento che cambiava e rivelò la sua
ricetta: iniziativa economica individuale, rispetto delle leggi, orgoglio
nazionale, disciplina individuale, ordine. Erano i valori della classe media
da cui proveniva. Presto sarebbero stati i valori nazionali. Quei valori la
portarono, prima donna nella storia britannica, al numero 10 di Downing
Street. Là sarebbe rimasta fino al 1990.
Quando la Thatcher raccolse il governo inglese, il paese era allo stremo, la stampa definiva la Gran Bretagna il “grande malato d’Europa”. Con la forza dell’Idea, la Signora inventò la sua rivoluzione. Durante la recessione del 1980-1982, si rifiutò di seguire la teoria economica keynesiana, allora dominante, che imponeva di stimolare la domanda. Invece prese di petto la spesa pubblica, l’inflazione, i sindacati. L’accusarono di aver inferto all’Inghilterra un bagno di sangue. Contro tutto e tutti ingaggiò uno storico braccio di ferro con i sindacati durante lo sciopero dei minatori. Alla fine vinse, tirandosi dietro l’odio (che perdura tuttora) della sinistra mondiale. E mentre gli intellettuali e i laburisti sbraitavano, la Thatcher cominciò a scuotere le coscienze degli inglesi. Invece di farsi intimorire dalla campagna stampa e dall’ostracismo dell’intellighenzia, spiegò che «aver pensato di curare l’Inghilterra col socialismo era come aver tentato di curare la leucemia con le sanguisughe». Che per ridistribuire ricchezza occorre prima produrla. Che questo non era compito dello Stato ma degli individui. Perciò lo Stato si sarebbe fatto da parte e avrebbe lasciato ai cittadini spazio, responsabilità, decisioni. Perciò lo Stato avrebbe venduto aziende e privatizzato i servizi non essenziali, privilegiando l’azionariato diffuso e incoraggiando il risparmio della classe media.
La Thatcher abolì il
controllo sui movimenti di capitale, ridusse le imposte sulle società, tenne
costante il valore della sterlina, utilizzando anche impietosamente l’arma
dei tassi d’interesse. Fino a che la deregulation non attirò decine di
istituzioni finanziarie straniere a Londra e molte sterline nelle tasche di
giovani intermediatori inglesi e l’Europa, con il suo mercato unico, divenne
un enorme supermercato per i servizi finanziari britannici. Per la gioia dei
grandi investitori della City. Ma non solo. In quegli stessi anni, gli
operai impararono che voler comprare una casa non è un’infamia, ma piuttosto
una scelta di dignità e buon senso. E gli inglesi impararono che aver
battuto i nazisti per poi farsi sconfiggere dai sindacati non solo era
folle, era ridicolo.
Travolti da un ciclone del genere, gli avversari della Signora non si sono
mai del tutto ripresi. I laburisti per primi. Appena cominciarono a capire
vagamente ciò che stava accadendo, si resero conto con orrore che la
Thatcher non si sarebbe accontentata di inseguirli di sconfitta in
sconfitta. Intendeva convertirli. Guardare Blair per credere. Anche gli
amici, però, non si sono più ripresi. Quando i conservatori capirono a chi
avevano affidato le redini del partito era ormai troppo tardi per tornare
indietro. A nulla serviva rimpiangere Disraeli e il suo conservatorismo
caritatevole: il partito Tory, come lo avevano conosciuto fino ad allora,
era sparito per sempre. Sotto la guida della figlia del droghiere di
Grantham, il partito conservatore trascese i limiti della upper class che
l’aveva prodotto: cercò voti ovunque, anche nelle classi borghesi o
lavoratrici. E, quel che apparve più sorprendente, li trovò. Per i Tory era
una folgorazione, per i laburisti uno shock. Perché alla fine degli anni
Settanta tutti i partiti inglesi si professavano, in pubblico,
interclassisti. Ma non era vero. Non ancora. La working class votava per il
Labour, gli intellettuali brontoloni si dividevano tra liberali e
social-democratici. E le élite tradizionali votavano conservatore.
La rivoluzione thatcheriana spazzò via certezze e steccati. I conservatori cambiarono linguaggio, stile, regole. Con orrore di qualche Lord, apparvero candidati che assomigliavano a venditori di macchine usate. Che parlavano come venditori di macchine usate. Che si rivolgevano a cittadini che compravano macchine usate. Ad ascoltarli, nei comizi di periferia, arrivarono altri inglesi, alla guida di macchine usate. Quegli stessi inglesi, dopo la cura Thatcher, sarebbero diventati proprietari di casa, riscattando la propria abitazione grazie ad una legge del governo conservatore. Certo, i vecchi Tory storcevano il naso, dicevano di detestare quell’insopportabile signora, con la sua aria da signorina Rottermeier. Per lei, i suoi stessi compagni di partito, coniarono una serie infinita di appellativi e nomignoli, da usare nelle conversazioni maschili al club, tra un sigaro e un whisky. Finirono addirittura a chiamarla per sigle, necessarie – dicevano – per semplificare il discorso, data la frequenza con cui le imprecazioni ricorrevano nei dibattiti. La chiamavano “Tina”, che sta per There is no alternative, non c’è alternativa. Oppure “Tbw”, That bloody woman, quella maledetta donna. Però, in fondo al cuore, l’amavano profondamente. Come i nobili d’un tempo amavano il proprio fattore: poteva non essere simpatico, ma era indispensabile per amministrare con frutto le tenute. Venerata, ammirata, temuta, Margaret Thatcher non è mai stata, però, del tutto accettata dall’opinione pubblica britannica. Colpa dell’immagine di donna rigida e perfetta, senza cedimenti umani o pigrizie inglesi. Rigorosa anche nei casi in cui la sua politica finì per essere meno drastica nei fatti che nelle parole. Come nella riduzione della spesa pubblica. Lo sapeva. E si consolava dicendo: «Coloro che sono fatti per piacere sono portati naturalmente al compromesso. E non raggiungeranno gli scopi che si prefiggono». E ancora: «Essere un primo ministro è un lavoro solitario. Non si può governare stando in mezzo alla folla». Quando nel 1990 fu costretta a lasciare il governo e la guida del partito, fu soprattutto perché ormai gli inglesi avevano ritrovato la dignità, la voglia di primeggiare, di lottare. Ma dopo tutto quello sforzo, avevano probabilmente voglia di rilassarsi, di cedere alla pigrizia inglese e di affidarsi di nuovo alle cure dello Stato. Almeno un po’.
Reagan e Thatcher: la strana coppia
Il 1979, quando la Thatcher arrivò al governo, non era un
anno buio solo per la Gran Bretagna. Era il tempo della seconda crisi
petrolifera, della rivoluzione iraniana, dell’invasione sovietica
dell’Afghanistan. La guerra fredda era al culmine, i sovietici piazzavano i
loro missili contro le democrazie libere. Con tanti guai in patria, la
Thatcher avrebbe dovuto prepararsi a gestire anche delicate crisi
internazionali. Le avrebbe quasi sempre gestite in prima persona. Guardando
con sospetto i ministri degli Esteri, fedele al radicato pregiudizio inglese
che deriva da questo bislacco ragionamento: se il ministro dell’Agricoltura
fa gli interessi degli agricoltori, il ministro degli Affari Esteri che fa,
se non gli interessi degli Stati stranieri? Nella Thatcher questo sospetto
sopravvisse, all’ennesima potenza. Tutti i collaboratori che si occupavano
di politica estera furono accusati a turno, almeno una volta, di essere
troppo morbidi, troppo trattativisti, poco meno che traditori.
I sospetti maggiori, come è noto, la Lady di Ferro li concentrava sul processo di unificazione europea così come si andava sviluppando in quegli anni. Non le piacevano neppure gli uomini che la stavano costruendo. Non le piacevano gli italiani, troppo infidi. Non le piacevano i tedeschi, troppo pericolosi. Non le piaceva neppure Giscard d’Estaing che pure era di destra, troppo burocratico e freddo. Eppure la sua analisi, fredda e lucida, andrebbe riletta oggi. Soprattutto dovrebbero rileggerla gli euroentusiasti, per riconoscerle, almeno col senno di poi, una qualche ragione. Eppoi, altro che Europa. La Thatcher aveva da occuparsi dell’Impero. L’Impero che era perduto, ma che sotto la sua guida non fu abbandonato. Ancora oggi le ex colonie formano una rete invidiabile. Non solo commerciale, ma anche politica. Non esiste presidente o sovrano di uno qualsiasi degli staterelli del Commonwealth che non abbia in ufficio la foto con la regina a Buckingham Palace. Il nuovo ruolo internazionale è stato costruito, inventato, preservato. Non subìto. Se ne accorsero a loro spese gli argentini, rigettati duramente nelle acque delle Falkland che avevano osato occupare.
Ma nel 1979, la Thatcher
ancora non sapeva che avrebbe avuto presto un partner fidato, che l’avrebbe
accompagnata per otto degli undici anni del suo mandato. Pochi mesi dopo il
suo avvento al numero 10 di Downing Street, infatti, gli americani mandarono
alla Casa Bianca l’ex attore Ronald Reagan. Molti anni dopo, la Thatcher
scriverà: «Ricordo ancora vividamente il sentimento che provai quando seppi
dell’elezione del presidente Reagan. Ci eravamo incontrati e avevamo
discusso le nostre idee politiche alcuni anni prima, quando era ancora
governatore della California. Seppi subito che insieme avremmo potuto
affrontare il compito che avevamo di fronte: rimettere in piedi i nostri
paesi, restituire orgoglio e valori, fare del nostro meglio per creare un
mondo migliore e più sicuro». Così sarebbe stato. E non è un caso se il
momento più toccante della cerimonia funebre di Reagan rimarrà per sempre il
saluto della sua amica Maggie di fronte alla bara. Ancora oggi i nomi della
Signora e dell’Attore sono sempre accomunati. Come maestri della rivoluzione
liberale, da chi ancora li ammira e li studia. Come affamatori del popolo in
nome del capitalismo e del liberismo, da chi ancora sogna Fidel Castro e Che
Guevara. Eppure la loro fu una relazione complicata e tempestosa. Li
accomunava la convinzione comune della superiorità morale (sì, proprio
morale) delle società fondate sulla libera impresa e l’imperativo che ne
seguiva: combattere a livello internazionale la minaccia del comunismo
sovietico. C’era anche di più: i due, quando s’incontravano si divertivano
insieme, erano diventati amici e godevano della compagnia reciproca. Reagan
ammirava la Thatcher per il suo equilibrio e la sua intelligenza d’acciaio.
La Lady di Ferro era affascinata dall’umorismo del presidente americano e
dalle maniere gentili. Eppure non potevano essere più diversi: per carattere
e modo di lavorare. Lei grande accentratrice, lui abilissimo nel delegare.
Lei sempre al chiodo senza perdere una battuta, dormendo al massimo quattro
ore per notte e soffrendo come un cane quando le vacanze di qualche
collaboratore inceppavano la sua efficientissima organizzazione giornaliera.
Lui caparbiamente fedele alla sua illustre battuta: «È vero che il lavoro
duro non ha mai ucciso nessuno. Ma perché correre il rischio?». Lei tutta
immersa in una visione dura, oscura e negativa della natura umana. Lui
inguaribile ottimista, con l’allergia dichiarata per il pessimismo che
guastava gli animi e l’economia. Con un approccio tanto diverso, nessuno
stupore che, più di una volta, tra i due si sia giunti a momenti di enorme
tensione. Lo scontro più violento ci fu all’epoca della guerra nelle
Falkland. Il dittatore argentino non aveva capito chi aveva di fronte e,
impadronendosi delle isole sotto il dominio britannico, scatenò le ire della
Thatcher e la guerra che ne seguì. L’Inghilterra fece da sé e vinse. Ma la
Lady di Ferro si aspettava dall’alleato un aiuto, invece la Casa Bianca si
offrì al massimo di negoziare. Lei uscì dai gangheri, lo prese come un
tradimento e glielo fece sapere. Eppure nemmeno in quell’occasione la
Signora riuscì a tenergli il broncio troppo a lungo.
Un affare molto più serio fu, invece, quello del 1986.
Quanto toccò alla Thatcher riportare Reagan con i piedi per terra. Nell’incontro di Reykjavik il presidente americano sembrava sul punto di accettare la proposta di Mikhail Gorbaciov di far piazza pulita di tutte le armi nucleari. La Lady di Ferro pensò che il suo amico fosse uscito di senno. Certo, era stata lei a convincerlo che Mr. Gorbaciov era un uomo con cui si potevano fare affari. Per il leader russo, la Signora avrebbe sempre mantenuto una certa passione. Ma l’accordo che si preparava a Reykjavik non solo era assurdo: era pericoloso. Le armi nucleari ormai esistevano e non si poteva far finta di non averle inventate. E, soprattutto, quelle armi americane avevano mantenuto la pace in Europa, evitando che l’urss facesse valere la propria supremazia. Per la Thatcher c’era il grave pericolo che Reagan cadesse nella trappola sovietica. Bastò un incontro a Camp David per riportarlo sulla retta via del dialogo senza cedimenti. Grazie a questa strategia, scriverà la Thatcher dopo la caduta del muro di Berlino, «Mr. Reagan ha vinto la guerra fredda senza sparare un colpo». Malgrado questi battibecchi, i due, insieme, segnarono quegli anni e gli anni a venire. Ed è facile capire il perché di tanta sintonia di fondo. Reagan e Thatcher erano entrambi outsiders della vita politica del loro tempo: due inguaribili ottimisti, inizialmente sbeffeggiati e trattati con sufficienza dall’establishment dei loro stessi partiti, ancora affogati nel vecchio conservatorismo pessimista e nostalgico dei tempi andati. Trovarono conforto l’uno nell’altra, s’incoraggiarono nei momenti più difficili, avvalorarono a vicenda le loro tesi e azioni politiche, in patria e all’estero. La loro rivoluzione parallela sarebbe stata più difficile se condotta in solitario.
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