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GLI
IRLANDESI BOCCIANO QUESTA EUROPA
La bocciatura irlandese del Trattato di Lisbona indica che occorre ripensare
alle forme di una Ue che i cittadini percepiscono come un moloch
burocratico.
di FEDERICO PUNZI
[16 giu 08]
Un solo Stato
membro, per di più di piccole dimensioni, non può bloccare un processo
politico che riguarda i 27 Stati dell’Unione Europea. E’ il commento di gran
lunga più abusato sulla vittoria dei “no” nel referendum sul Trattato di
Lisbona che si è svolto in Irlanda lo scorso 12 giugno. Ma anche il più
ingannevole. Anche i grandi quotidiani hanno titolato, più o meno:
“L’Irlanda decide per tutti”. “Non si può immaginare che la decisione di
metà degli elettori di un Paese che rappresenta meno dell’1 per cento della
popolazione dell’Ue possa arrestare il processo di riforma”. Parole del
presidente della Repubblica, Napolitano, ampiamente condivise dal ministro
degli Esteri Frattini e dai due principali partiti, Pdl e Pd. Tuttavia, una
dichiarazione di una tale arroganza e superficialità da parte del capo dello
Stato ci costringe a formulare un’obiezione. Si sarebbe potuta accusare
l’Irlanda di bloccare tutti gli altri Stati membri, solo nel caso in cui a
tutti i cittadini dell’Ue fosse stata offerta la possibilità di esprimersi e
se, tra di essi, solo gli irlandesi avessero espresso un parere negativo.
Non sappiamo, infatti, quale sarebbe potuto essere l’esito di un referendum
negli altri 26, ma è lecito presumere che il Trattato di Lisbona sarebbe
uscito sconfitto in più d’uno, se non nella maggioranza, dei Paesi europei.
L’unica cosa che non si può fare è dare per scontato che nel voto popolare i
“sì” avrebbero vinto ovunque.
Questo Trattato ha una storia. Concepito per rafforzare l’azione delle istituzioni europee, nasce come ripiego della ben più ambiziosa, a partire dal nome, Costituzione europea, affondata nel giugno del 2005 dai “no” referendari francesi e olandesi. Quello dei francesi fu certamente un “no” anti-global e anti-liberale ad un’Europa che liberale non era, ma che veniva accusata di non essere abbastanza statalista e protezionista. Un “no” sia gollista, che “lepenista” e di estrema sinistra. In Olanda, invece, l’affermazione dei “no” appariva immune dai pregiudizi francesi, e dovuta per lo più alla percezione che le tradizionali politiche orientate al libero mercato fossero minacciate dalla burocrazia di Bruxelles. “La maggioranza del no è proteiforme, contraddittoria. Coagula angosce differenti, amalgama le insoddisfazioni e senza alcun imbarazzo intercetta i pregiudizi dell’estrema destra come dell’ultrasinistra”. Il giudizio che esprimeva allora André Glucksmann è valido anche oggi per il “no” degli irlandesi. Hanno certamente pesato le spinte nazionaliste e le paure della globalizzazione, ma sarebbe riduttivo esaurire con esse l’analisi del voto. Ci sarebbe da chiedersi, infatti, come mai quasi in tutti i Paesi europei i partiti che rappresentano questi stati d’animo escono minoritari dalle elezioni politiche. Così come appare riduttivo parlare di un semplice “problema di comunicazione”. Compatto il sistema politico e sociale irlandese (quasi tutti i partiti e i maggiori sindacati) si sono attivamente schierati per il “sì”. Ma autonomamente, quasi istintivamente, gli irlandesi hanno deciso il contrario. Ci dev’essere dell’altro, se ormai, ogni qual volta i popoli europei hanno modo di esprimersi sui trattati partoriti a Bruxelles, li bocciano sonoramente. C’è in quei “no” – francesi, olandesi, irlandesi e altri – una componente di europeisti delusi da questa Europa, da questo Trattato, da questi leader.
“Dublino dà lezioni di democrazia all’Europa”, è il titolo di un acuto commento uscito sul Wall Street Journal sabato 14 giugno: “Gli irlandesi hanno battuto un colpo per la democrazia in Europa questa settimana, bloccando un gioco di potere delle elite politiche del continente”, prendendo il Trattato di Lisbona per ciò che realmente è: un tentativo di riesumare sotto mentite spoglie la costituzione bocciata da francesi e olandesi esattamente tre anni fa. Una costituzione che, secondo le pretese dei suoi estensori, avrebbe dovuto garantire all’Europa una presenza nel mondo simile, per peso e dimensioni, a quella degli Stati Uniti. Ciò sarebbe dovuto avvenire con un presidente del Consiglio non eletto e senza una politica estera e di difesa comune. Solo considerando questi aspetti, appare chiaro come siano stati saggi alcuni popoli europei a rispedire il progetto ai mittenti. “La costituzione europea ha 448 articoli. 441 in più di quella degli Stati Uniti. Solo per questo andrebbe bocciata”, commentava George F. Will, sul Washington Post. L’Europa è stata sorda alla sconfitta del progetto costituzionale nei precedenti referendum. I burocrati e i professionisti dell’europeismo politicamente corretto si sono limitati ad aggirare l’ostacolo dei referendum nazionali, anziché impegnarsi a comprendere lo scetticismo dei cittadini europei e convincerli a superarlo. La “Costituzione” si è chiamata “Trattato”; sono stati introdotti cambiamenti solo “cosmetici”; e si è chiesto ai governi nazionali di non sottoporre il Trattato a referendum popolare. Ventisei Paesi stavano quindi procedendo alla ratifica per via parlamentare, quando dall’Irlanda, la cui Costituzione impone di sottoporre a referendum anche i trattati, come forma di garanzia del mantenimento della neutralità del Paese, puntuale è giunta la nuova bocciatura. “I burocrati di Bruxelles non sanno reagire ai cambiamenti”, ha osservato Vaclav Klaus, presidente della Repubblica Ceca.
Certo è che, come quello dei francesi e degli olandesi, il voto di dissenso degli irlandesi non ha riguardato l’articolato in sé, che ovviamente neanche conoscono (così farraginoso e difficile da leggere). Per gli elettori non si tratta di strappare un migliore accordo a Bruxelles, qualche concessione in più che solo gli addetti ai lavori potrebbero scorgere tra le mille pieghe di un trattato. E’ una bocciatura dell’Europa com’è oggi, di cui il Trattato di Lisbona è la suprema espressione: una burocrazia, sulla quale i cittadini europei avvertono di non avere il minimo controllo, che produce nuova burocrazia appesantendo quelle nazionali. E’ falsa un’altra accusa che in queste ore viene lanciata all’indirizzo dell’Irlanda, cioè che sia uscita dal sottosviluppo grazie ai soldi dell’Ue. Certo, i fondi comunitari hanno fatto molto, ma molto di più hanno potuto le politiche economiche liberali adottate negli anni scorsi dai governi irlandesi che si sono succeduti con il consenso dei propri cittadini. Proprio gli irlandesi hanno mostrato all’Europa come risolvere alcuni problemi economici che gravano sull’intero continente. Hanno usato la stabilità e le prestazioni dell’euro, la leva fiscale, per attrarre capitale, raggiungendo un livello di benessere inedito per il loro Paese. Con il loro “no” hanno detto chiaro e tondo all’Ue che non sono disposti a farsi legare le mani dai burocrati di Bruxelles.
Andare avanti” fu anche la parola d’ordine di tre anni fa, nel tentativo dell’establishment europeo di annacquare, di far finta di niente, di neutralizzare il dibattito che sarebbe potuto scaturire su quale modello di Europa, di imporre una sorta di pensiero unico sull’Ue, che pare possa e debba essere solo inter-governativa. Anche oggi sembra che si preferisca nascondere la testa sotto la sabbia. La realtà è che siamo giunti ad un punto che richiede o un ulteriore grande slancio verso un’unione politica, democratica, federalista, che però dovrebbe essere guidato da leader adeguati e lungimiranti, oppure di accontentarci di quanto già abbiamo. Il modello inter-governativo si è rivelato forse il più pragmatico, ma bisognerebbe ammettere che oggi è anche quello più limitante. Non si può estendere a dismisura senza veder comparire slabbrature dal punto di vista del controllo democratico. La lezione da trarre dal “no” degli irlandesi è che i politici europei devono esporre i loro grandi progetti alla luce del sole, non di nascosto, soprattutto se essi diluiscono la sovranità nazionale. Scelte più difficili attendono l’Europa, ma non erano nelle urne di Dublino. Secondo il WSJ, “l’Ue non ha bisogno di un nuovo trattato per giocare un importante ruolo nel mondo, ma di volontà politica, sulla guerra al terrorismo così come sul libero commercio”. Invece, è l’Europa dei piccoli grandi sussidi che preservano lo status quo; l’Europa dei vincoli burocratici cui strappare tutele e privilegi nazionali. Non è l’Europa dei grandi progetti in politica estera, o sull’energia. La ex costituzione, il nuovo Trattato e le stesse istituzioni europee, smarriscono i diritti fondamentali nell’ipertrofia burocratica dei “nuovi diritti” e in una selva intricata di tecnicismi per bilanciare i diversi pesi dei governi nazionali. Istintivamente i cittadini europei – abbiamo motivo di ritenere non solo gli irlandesi – vedono nell’Europa di oggi, e nel Trattato di Lisbona, un “moloch”, un nuovo assolutismo, soft, burocratico e imperscrutabile.
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