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[31 mar 08] Questa è la storia di due Tibet. Il primo è quello dei libri proibiti, delle entrate segrete, dei monasteri distrutti, delle preghiere spezzate. Più di mezzo secolo di terrore di Stato imposto da Pechino ha ridotto la regione ad una tragica caricatura di se stessa, umiliato i suoi abitanti, profanato le sue tradizioni. E’ questo il Tibet che due settimane fa ha provato a rialzare la testa e a gridare di rabbia come gli uomini disperati a volte sono costretti a fare: prendendo a calci i simboli dell'oppressione. Poi c'è l'altro Tibet, raccontato dai circoli radical-chic di Hollywood e nutrito dalla cattiva coscienza dell'Occidente democratico: qui l'uomo in carne ed ossa si spegne per fare spazio al puro spirito, alimentato dalle leggende del Buddha e dai miti della nonviolenza. E’ a questa immagine da cartolina che la stampa, la politica e lo spettacolo hanno abituato l'’opinione pubblica nel corso degli anni, come se il sorriso bonario del Dalai Lama bastasse da solo a stemperare il dolore e l’accettazione del martirio fosse il destino ineluttabile di milioni di uomini senza armi, da ammirare proprio perché soffocano in silenzio, simboli di uno stoicismo perduto che la sofferenza non fa che esaltare. L'illusione che i due Tibet possano convivere è destinata ciclicamente a fare i conti con la realtà: avvenne una prima volta nel 1959 quando un vero e proprio conflitto armato scoppiò nelle strade di Lhasa per concludersi con decine di migliaia di morti tra i civili, l’esilio del Dalai Lama e schiere di rifugiati verso i Paesi confinanti; la replica - seppur su scala ridotta – si ebbe nel 1989 e quella volta fu Hu Jintao l’incaricato della repressione, pochi mesi prima della strage di Tiananmen; diciannove anni dopo, sempre di marzo, l’ondata di risentimento anti-cinese ed anti-comunista trova in una nuova generazione di tibetani, monaci e non, una forza d’urto che sembrava ormai smarrita dietro il consolante riparo della sconfitta inevitabile, frutto di una filosofia del compromesso e della rassegnazione ormai elevata a dogma dai troppi “amici” della causa tibetana e dallo stesso Dalai Lama.
Anche se tenuto lontano dai luoghi della rivolta, è attorno alla figura di Tenzin Gyatso che si snoda l'intera vicenda. Per l’Occidente resta, almeno a parole, un intoccabile: il Tibet si identifica con la sua guida spirituale la cui santità non ammette critiche sul piano politico. La “Via di Mezzo” da lui indicata è quella giusta, perché moderata, dialogante e nonviolenta. Poco importa se dall'altra parte c'è chi ha poca voglia di ascoltare e molta di sparare: annullata la distinzione fra guerre giuste e ingiuste in nome di un umanesimo dai contorni sempre più vaghi e indefiniti, le democrazie faticano ormai a riconoscere la legittimità e la funzione redentrice della violenza rivolta contro l'oppressore, la forza liberatrice del tirannicidio. Sul fronte opposto, ma più nella forma che nella sostanza, il regime cinese: per Pechino il Dalai Lama è “l’istigatore della rivolta”. Difficile che i dirigenti comunisti ci credano davvero. Più probabile che la durezza dell'accusa rifletta una precisa strategia volta all'isolamento del movimento di resistenza tibetano: in primo luogo, individuare un grande manovratore consente di declassare il ruolo dei manifestanti a quello di semplici pedine di un disegno concepito altrove e di continuare ad ignorare le cause reali del malcontento popolare; in seconda battuta, concentrare tutta la pressione sulla personalità più rappresentativa mentre sul terreno prosegue la repressione della dissidenza contribuisce ad indebolirne l'autorità, a fiaccarne lo spirito e a preparare la via per una resa senza condizioni. Il governo cinese confida nella possibilità di manipolare il Dalai Lama a piacimento attraverso un alternarsi di minacce e di false aperture - ciò che ha sempre fatto - nel momento stesso in cui rinchiude nelle camere di tortura gli elementi disposti a sacrificare la propria vita per il riscatto del popolo tibetano.
Dispiace constatare come Sua Santità sia caduto di nuovo nella trappola dei suoi carcerieri. Potendo opporre un sontuoso silenzio al linguaggio stalinista di Pechino, si è invece affannato a precisare di non aver rivestito alcun ruolo nella ribellione e di essere anzi contrario a qualsiasi ipotesi di boicottaggio dei Giochi Olimpici. Prudenza politica, si dirà. Ma come interpretare le dichiarazioni sulla possibilità di dimissioni in caso di prosecuzione delle violenze “da parte cinese ma anche da parte tibetana”? Dettate certamente da un sincero desiderio di pacificazione, le sue parole hanno finito per trasmettere un’incomprensibile sensazione di equidistanza proprio quando i manifestanti avrebbero avuto bisogno dell’appoggio incondizionato della loro guida. Mentre nelle strade di Lhasa i ragazzi morivano, la posizione cinese e quella del governo tibetano in esilio non sembravano poi così distanti. Non stupisce allora che qualcuno abbia avuto il coraggio di affidare agli stranieri presenti nei luoghi della protesta un messaggio in controtendenza rispetto all’immagine ovattata che la pubblicistica occidentale continua a propagandare: “Questa lotta è per il Tibet, non per il Dalai Lama”, confessava a denti stretti un monaco nelle ore calde dell’insurrezione. E sorprende ancor meno che proprio dall’esilio di Dharamsala giungano le voci più critiche nei confronti della strategia conciliante di colui che mai sarà discusso come capo spirituale ma le cui direttive politiche sono destinate ad essere disattese con crescente frequenza: “E’ il leader supremo ma non siamo obbligati ad ascoltare tutto quello che dice. Lui è un monaco buddista. Noi siamo uomini comuni”, dichiarava al New York Times un ventinovenne tibetano di ritorno da una manifestazione nella località indiana.
Anche se forse non preludono ad una spaccatura netta, le posizioni dei cosiddetti “radicali”, quelli che puntano ad alzare il profilo della contestazione anti-coloniale, segnalano certamente un disagio all’interno del movimento. Non è solo la contrapposizione fra richieste di autonomia e aspirazioni all’indipendenza a dividere vecchie e nuove generazioni, ma soprattutto la necessità di una risposta seria alla domanda che pochissimi finora hanno osato formulare: quale risultato concreto, quale miglioramento reale nelle vite di milioni di tibetani ha prodotto mezzo secolo di “moderazione” e di “compromesso” nei confronti di un potere che non ha esitato a compiere – per usare le parole dello stesso Dalai Lama – un vero e proprio genocidio culturale? Se è vero che l’obiettivo di Tenzin Gyatso è “la ricerca della verità” a lungo termine e che l’insegnamento dei maestri buddhisti considera la lotta tra il bene e il male come una condizione permanente (cfr. intervista a Carlo Buldrini su Ideazione del 26 marzo scorso), sarebbe peraltro miope non riconoscere nella sofferenza di questo popolo una richiesta di aiuto non più rinviabile. A voler essere cinici, la storia dei due Tibet è purtroppo anche l'interminabile cronaca di un fallimento.
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